C.M., Co.Br. e B.A., dopo un procedimento penale per diffamazione continuata ai danni di D. B.M., conclusosi con la loro assoluzione con sent. 4.4.1990 confermata in appello il 27.1.2000, proposero nei confronti del Ministero della Giustizia dinanzi alla Corte di Appello di Venezia con atto 24.12.2002 giudizio per l’equa riparazione del danno non patrimoniale, subito a causa della irragionevole durata del processo, e dedussero di avere presentato ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sul quale non era ancora intervenuta la decisione in ordine alla ricevibilità dell’azione.
Il Ministero resistette e la corte territoriale lo condannò al pagamento della somma di L. 12.000.000 a titolo di danno non patrimoniale in favore di ciascuno dei ricorrenti, oltre alle spese processuali in L. 2.100.000, di cui L. 1.500.000 per competenze, rilevando da un lato che la controversia non era caratterizzata da ragioni di assoluta urgenza e dall’altro che l’istruttoria non era stata particolarmente complessa e, poichè la durata non risultava ragionevole, ha quantificato in tale misura il danno non patrimoniale, affermando che non vi fosse la necessità di una prova specifica, dovendo esso presumersi in dipendenza dell’ansia e dell’incertezza circa l’esito del giudizio.
Ha respinto la domanda di pagamento delle spese sostenute per il ricorso alla Corte Europea, essendo un procedimento autonomo e non un grado o fase del giudizio.
Propone ricorso per cassazione con un motivo il Ministero; resistono C.M., Co.Br. e B.A., che hanno anche proposto ricorso incidentale con tre motivi, illustrati da memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Il Ministero della Giustizia denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e art. 2697 c.c., nonchè insufficienza e contraddittorietà della motivazione, in riferimento all’affermazione della sentenza impugnata che il danno non patrimoniale non necessiti di essere provato e ciò sebbene nella specie fosse mancata persino l’allegazione delle circostanze in base alle quali il danno poteva ritenersi dimostrato.
Con il primo motivo di ricorso incidentale C., Co. e B. hanno denunziato la illegittimità e la contraddittorietà della motivazione, per il fatto che era stata determinata l’indennità in sole L. 12.000.000, a fronte di un processo durato oltre 11 anni.
Con il secondo mezzo si denunziano la illogicità e la contraddittorietà della motivazione in riferimento alla mancata liquidazione delle spese relative al giudizio dinanzi alla Corte di Strasburgo.
Assumono i ricorrenti che senza di esso non avrebbero potuto presentare la domanda L. n. 89 del 2001, ex art. 6, per effetto della decadenza prevista dall’art. 4.
Con il terzo è denunziata la omessa motivazione sulla liquidazione sulle spese del processo, ridotte ingiustamente rispetto a quanto esposto nella nota di parte, con riguardo ai diritti (700 anzichè 878) e agli onorari (750 anzichè 960).
I ricorsi, dei quali va disposta la riunione a norma dell’art. 335 c.p.c., debbono essere entrambi respinti.
Il ricorrente principale, dopo aver addebitato alla Corte territoriale di avere liquidato il danno non patrimoniale, ritenendo che possa essere presunto e non richieda prove specifiche della sua esistenza, riconosce che "la prova possa essere facilitata dal ricorso a presunzioni ed a ragionamenti fondati sulla conoscenza comune degli effetti che in genere la pendenza di un giudizio può produrre"; in tal modo finisce per svalutare ex se la censura, posto che alla presunzione il giudice del merito ha dichiarato espressamente di fare ricorso, affermando, sulla scorta di giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che il pregiudizio morale che giustifica la riparazione è quello dipendente dall’incertezza e dall’ansia circa l’esito della lite.
In linea con tale giurisprudenza è quella di questa Corte di legittimità, la quale ha rilevato che, avuto riguardo alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo per i diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il danno non patrimoniale, conseguente alla durata irragionevole del processo e dunque alla violazione dell’ art. 6 par. 1 Cedu e consistente nell’ansia, nei patemi d’animo e nelle sofferenze morali da essa provocato, non necessita di essere provato, a differenza di quello patrimoniale – vetrificandosi normalmente per effetto della violazione del termine ragionevole di durata del processo – essendo, dunque, la prova in re ipsa, mentre grava sulla Amministrazione convenuta l’onere di dedurre e provare i fatti che in concreto eccezionalmente lo escludono (Cass. ss.uu.1338, 1339, 1340/2004; Cass. 17999/2005; 8568/2005; 3118/2005).
Il principio suddetto, al quale il Collegio pienamente aderisce, opera, infatti, nel senso che le giurisdizioni nazionali devono per quanto possibile interpretare il diritto interno conformemente alla convenzione; e che il giudice nazionale – libero di valutare se nel singolo caso concreto sussistano circostanze che dimostrino che nessuna conseguenza pregiudizievole si è verificata – può anche allontanarsi in sede di liquidazione dalla applicazione rigorosa e formale dei criteri adottati dalla Corte Europea, conservando un margine di valutazione in relazione alla natura e alle caratteristiche di ogni singola controversia, salva però la impossibilità di liquidare, per ogni anno di ritardo, somme che non siano in relazione ragionevole con quella – tra i 1000,00 e i 1500,00 Euro – accordata dalla Corte negli affari consimili; restando quindi fermo il suo dovere di conformarsi alla giurisprudenza di quel giudice e di accordare somme conseguenti (Cass. ss.uu. 1340 e 1341/2004).
Ha infondato è anche il ricorso incidentale.
Il primo mezzo lamenta attraverso la denunzia di motivazione contraddittoria la misura dell’equo indennizzo riferito alla durata del processo di oltre 11 anni, con l’assunto che l’importo liquidato non sia equo e sia difforme da quello riconosciuto dalla giurisprudenza Europea, salvo a non circostanziare la misura che a giudizio dei ricorrenti avrebbe dovuto essere riconosciuta.
Vero è, invece, che, dovendo ragguagliarsi il pregiudizio alla durata del processo per la parte eccedente quella ragionevole (L. n. 89 del 2001, art. 2) ed essendosi esso articolato in due gradi e concluso il 27.01.2000, la durata irragionevole va stabilita in anni sei, considerato che il procedimento ebbe inizio nel giugno 1988 con l’interrogatorio degli imputati e che la ragionevole durata complessiva non avrebbe dovuto superare i cinque anni.
Ed a fronte di tale eccedenza la misura di L. 12.000.000, per ciascuno dei ricorrenti, si appalesa conforme a quella stabilita dalla giurisprudenza Europea ed interna, in ragione di Euro 1000,00 per anno.
Infondato è anche il secondo motivo, alla stregua di quanto stabilito da questa Corte (SS.UU. 23.12.2005 n. 28508) e dal Collegio condiviso, che cioè nel giudizio di equa riparazione del danno conseguente alla durata irragionevole del processo la corte di appello non può liquidare ai sensi dell’art. 91 e ss. c.p.c. in favore del ricorrente vittorioso le spese che questi abbia precedentemente sostenuto per la sua difesa davanti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, trattandosi di spese correlate non alla durata eccessiva del processo ma alla mera soccombenza nel giudizio.
Neanche il terzo mezzo può essere accolto.
La corte territoriale ha liquidato in L. 700.000 i diritti ed in L. 750.000 gli onorari, in luogo delle 960.000 richieste. Quanto ai primi i ricorrenti si limitano a lamentare che la liquidazione sia stata inferiore alla domanda di L. 878.000, come da nota spese a suo tempo depositata, senza nulla specificare in ordine alle singole voci esposte e alla loro corrispondenza alle tabelle allegate alla tariffa professionale, sia per quanto attiene ad ogni singola prestazione, sia per ciò che riguarda il valore dello scaglione; con l’effetto che la determinazione del giudice non può essere oggetto di sindacato in sede di legittimità, se non quando l’interessato specifichi le singole di voci della tariffa che assume essere state violate, indicando anche i conteggi che rivelino la inadeguatezza delle somme liquidate (tra le più recenti Cass. 21325/2005;20904/2005; 2626/2004).
Per tale aspetto la censura è inammissibile, per vizio di genericità ed autosufficienza.
Quanto agli onorari si deduce che i limiti minimi dello scaglione di valore indeterminabile, previsto dal par. 5^, voci 31, 32, 33, 34 e 35, totalizzino l’importo di L. 600.000, il quale, con l’aumento dovuto per la pluralità degli assistiti, avrebbe dovuto raggiungere la somma di L. 960.000; ma la deduzione non ha fondamento.
Delle voci specificate, se trovano giustificazione quelle dei numeri 31, 32 e 34, che corrispondono allo studio della controversia, alle consultazioni con il cliente e alla proposizione dell’atto introduttivo del giudizio, per complessive L. 495.000 nel minimo, che non possono essere mancate nella difesa in questione, non altrettanto può dirsi per la ispezione dei luoghi della controversia e/o per la ricerca dei documenti – avendo omesso i ricorrenti di specificare le ragioni concrete della prestazione – e per l’udienza di trattazione, che non risulta indicata nè è dato evincerla dal decreto impugnato, considerata anche la natura camerale del procedimento.
Nè possono dolersi i ricorrenti dell’aumento praticato, inferiore, a loro dire, a quanto dovuto, posto che l’incremento del 20%, quand’anche fosse consentito per ognuna delle parti assistite e non solo per quelle oltre la prima (in quest’ultimo senso è esplicitamente l’art. 5 della attuale tariffa approvata con D.M. 8 aprile 2004, n. 127), la tariffa, stabilendo che l’importo totale "può" essere aumentato, affida il riconoscimento di tale maggiorazione al potere discrezionale del giudice, non sindacabile in sede di legittimità (Cass. 2649/1994; 13742/1992; 5202/1983;2961/1983).
La reciproca soccombenza costituisce giusto motivo per la compensazione totale delle spese del giudizio di Cassazione.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa le spese processuali.
Così deciso in Roma, il 19 dicembre 2006.
Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2007