1. Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Firenze, quale giudice del rinvio in sede di riesame, ha confermato l’ordinanza del 31 ottobre 2005 con cui il G.i.p. del Tribunale di Livorno aveva disposto la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di C.A., per i reati di associazione per delinquere e ricettazione.
2. Per mezzo del suo difensore, C. ha presentato ricorso per cassazione con cui ha dedotto la violazione degli artt. 623 e 627 c.p.p., sostenendo che il Tribunale, quale giudice del rinvio, non si sarebbe uniformato alla sentenza di annullamento della Corte di cassazione, ma avrebbe riprodotto il contenuto della precedente ordinanza, senza offrire alcuna spiegazione sui motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa e sulle ragioni per le quali è stata ritenuta la sua partecipazione all’associazione per delinquere, omettendo, infine, di motivare circa la provenienza delittuosa dei beni rinvenuti, presupposto necessario per la sussistenza del reato di ricettazione.
Con altro motivo è stato dedotto il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari, giustificate con l’affermazione che l’indagato sarebbe persona di "spessore criminale, che trae i proventi del suo sostentamento dalla commissione di attività illecite", ma senza che ciò sia stato dimostrato e giustificato da concreti elementi di fatto.

MOTIVI DELLA DECISIONE
3. Deve rilevarsi che, come risulta dagli atti, l’imputato, già ammesso agli arresti domiciliari, è stato rimesso in libertà nelle more del ricorso per cassazione, circostanza confermata in udienza anche dal difensore: pertanto, si pone l’esigenza di verificare, preliminarmente, la persistenza dell’interesse al ricorso del C..
E’ noto come nella materia cautelare la giurisprudenza di questa Corte ritenga persistente l’interesse dell’indagato alla impugnazione, pur se rimesso in libertà, in relazione all’accertamento della sussistenza delle condizioni di applicabilità delle misure previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p., in quanto tale accertamento può costituire, in tesi, presupposto per il riconoscimento del diritto ad un’equa riparazione per la custodia cautelare subita ingiustamente (Sez. un., 12 ottobre 1993, n. 20, Durante).
Corollario di tale principio è che l’interesse all’impugnazione di un provvedimento coercitivo dopo la cessazione della misura cautelare non permane quando l’impugnazione è diretta ad ottenere una decisione sulla sussistenza delle esigenze cautelari previste dall’art. 274 c.p.p., o sulla scelta tra le diverse misure possibili ai sensi dell’art. 275 c.p.p., in quanto si tratta di cause di illegittimità inidonee a fondare il diritto di cui all’art. 314 c.p.p., stante la tassatività della formulazione della norma citata, che si riferisce esclusivamente alle condizioni di applicabilità delle misure di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p. (Sez. 6^, 26 maggio 2004, n. 37894, Torriglia; Sez. 5^, 9 dicembre 1993, n. 4091, Lazzarini).
4. Peraltro, anche quando viene contestata la sussistenza delle condizioni di applicabilità delle misure cautelari è pur sempre necessaria la verifica dell’attualità e della concretezza dell’interesse, tenuto conto che l’art. 568 c.p.p., comma 4 richiede, come condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, la sussistenza di un interesse che abbia tali caratteri, sia diretto cioè a rimuovere un effettivo pregiudizio che la parte asserisce di avere subito con il provvedimento impugnato, interesse che deve persistere sino al momento della decisione. La regola contenuta nel citato art. 568 c.p.p. è, infatti, applicabile anche al regime delle impugnazioni contro i provvedimenti de libertate, in forza del suo carattere generale, implicando che solo un interesse pratico, concreto ed attuale del soggetto impugnante sia idoneo a legittimare la richiesta di riesame. Pertanto, come ha ammesso la stessa sentenza Durante, un tale interesse "non può risolversi in una mera ed astratta pretesa alla esattezza teorica del provvedimento impugnato", priva cioè di incidenza pratica sull’economia del procedimento.
5. Questo Collegio ritiene che un’applicazione pressochè automatica dei principi posti dall’orientamento più volte ricordato delle Sezioni unite presenta il rischio di accogliere una nozione di "interesse" troppo ampia, che finisce per presumere sempre e comunque che l’indagato agisca anche al fine di precostituirsi il titolo in funzione di una futura richiesta di un’equa riparazione per l’ingiusta detenzione ai sensi della disposizione contenuta nell’art. 314 c.p.p., comma 2, che tra l’altro disciplina una fattispecie tendenzialmente eccezionale e residuale rispetto alle altre ipotesi previste. Infatti, nei casi in cui il procedimento nel quale sia stata sofferta una custodia illegittima termini con una condanna la riparazione è possibile solo se la durata della custodia abbia superato la pena inflitta ovvero se la condanna sia stata condizionalmente sospesa; d’altra parte, qualora il procedimento si concluda con un proscioglimento, la custodia illegittima è riparabile nei soli casi in cui la formula di assoluzione sia diversa da quelle cui si riferisce l’art. 314 c.p.p., comma 1, cioè quando si tratti di formule di proscioglimento meramente processuali, come le declaratorie di estinzione del reato o di improcedibilità ovvero di errore di persona.
Peraltro, deve osservarsi che l’interesse concreto ed attuale manca tutte le volte in cui ricorre la fattispecie di cui al citato art. 314 c.p.p., comma 4, che esclude che la riparazione sia dovuta qualora le limitazioni conseguenti all’applicazione della custodia cautelare siano sofferte anche in forza di altro titolo, come nel caso in cui la misura illegittima sia contemporanea all’esecuzione della pena o di una misura di sicurezza detentiva ovvero ad altra misura cautelare custodiale.
E’ proprio la presunzione dell’esistenza di un interesse, scollegata da ogni manifestazione di volontà in tal senso, ad essere il sintomo più eloquente della mancanza di un interesse attuale e concreto all’impugnazione.
In difetto di una espressa indicazione che dimostri l’intenzione di una futura utilizzazione della pronuncia, l’interesse in questione finisce per essere commisurato al probabile successo dell’azione di riparazione e l’impugnazione diventa lo strumento per rimuovere un pregiudizio futuro, solo teoricamente ed eventualmente collegato al provvedimento impugnato, laddove è pacifico che la situazione pregiudizievole che l’impugnazione tende a rimuovere deve porsi in rapporto causale con l’atto impugnato, del quale deve essere conseguenza immediata e diretta.
Ciò comporta perlomeno l’onere a carico del ricorrente di rappresentare l’esistenza di un simile interesse, anche con riferimento alla mancanza delle cause ostative di cui all’art. 314 c.p.p., comma 4.
In conclusione, si ritiene che in tali fattispecie il carattere dell’attualità e della concretezza dell’interesse ad impugnare possa essere riconosciuto a condizione che la parte manifesti, in termini positivi ed univoci, la sua intenzione a servirsi della pronuncia richiesta in vista dell’azione di riparazione per l’ingiusta detenzione, intenzione che, naturalmente, nel giudizio in cassazione può essere comunicata dal difensore direttamente in udienza ovvero attraverso memorie scritte.
6. Diverso è il discorso che deve essere fatto in relazione al meccanismo previsto dall’art. 405 c.p.p., comma 1 bis, che collega la richiesta di archiviazione del pubblico ministero alla pronuncia della Corte di Cassazione sulla insussistenza dei gravi indizi.
La disposizione in esame è stata introdotta dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 3, ed interviene nel complesso rapporto tra procedimento principale e accertamento incidentale cautelare, prevedendo che la Corte di cassazione, qualora si pronunci in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, vincoli le scelte del pubblico ministero inerenti l’esercizio dell’azione penale, che dovrà formulare la richiesta di archiviazione, a meno che non siano stati acquisiti, successivamente, ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini.
Sebbene in questo modo risulti realizzato un meccanismo assolutamente inedito, attraverso cui il legislatore ha instaurato un legame funzionale tra procedimento di merito e accertamento cautelare, tuttavia deve escludersi che sussista sempre e comunque l’interesse all’impugnazione da parte della persona sottoposta ad indagini, sul presupposto che la decisione della Corte di cassazione condizionerà la scelta del pubblico ministero. Se, come si è visto, l’interesse ad impugnare deve avere i requisiti della concretezza e dell’attualità, ne consegue che un interesse con tali caratteri non potrà rinvenirsi nella fattispecie in esame, dal momento che la richiesta del pubblico ministero è comunque subordinata ad una condizione, che è quella della mancata acquisizione di ulteriori elementi a carico della persona sottoposta ad indagini e, inoltre, perchè l’eventuale interesse non può ritenersi agganciato ad un atto di parte, cioè alla richiesta del pubblico ministero, rispetto alla quale il giudice non può ritenersi affatto vincolato a emettere il provvedimento di archiviazione.
Peraltro, deve rilevarsi come la stessa formula della disposizione contenuta nell’art. 405 c.p.p., comma 1 – bis finisca per limitare fortemente la dipendenza del procedimento principale rispetto a quello incidentale: la norma citata si riferisce ad una pronuncia della Corte di Cassazione "in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza", ma il giudice di legittimità non si pronuncia sulla mancanza dei gravi indizi, in quanto, generalmente, il suo controllo riguarda la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione relativa al fumus commissi delicti, anche se questo può entrare nel giudizio di legittimità attraverso il motivo di cui all’art. 606 c.p.p., lett. b).
Esistono casi in cui la verifica può investire più direttamente la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, come nelle ipotesi della pronuncia che rigetti il ricorso del pubblico ministero avverso l’ordinanza emessa dal tribunale in sede di riesame o di appello cautelare, che abbia revocato la misura coercitiva applicata dal giudice per le indagini preliminari oppure della sentenza che annulli senza rinvio l’ordinanza coercitiva impugnata con ricorso per saltum in cassazione. Ma al di fuori di pronunce rientranti in queste o anologhe tipologie deve escludersi l’operatività del meccanismo di cui al citato art. 405 c.p.p., comma 1 bis, in quanto la cassazione non interviene sulla insussistenza degli indizi di colpevolezza.
Nel caso di specie, la pronuncia richiesta alla Corte non rientra in alcuna delle tipiche situazioni sopra indicate in cui il giudice di legittimità arriva a pronunciare in ordine ai gravi indizi di colpevolezza, per cui deve escludersi che possa comunque applicarsi il disposto del citato art. 405 c.p.p., comma 1 bis.
7. Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse, sia con riferimento ai motivi con cui si contesta la sussistenza dei gravi indizi di reato, per i quali non risulta alcuna manifestazione di volontà diretta ad utilizzare la decisione al fine di proporre l’azione di riparazione ex art. 314 c.p.p., sia con riferimento agli altri motivi con cui il ricorrente censura l’ordinanza in relazione ad una errata valutazione delle esigenze cautelari, per i quali, come si è visto, neppure si pone la possibilità di ottenere il riconoscimento del diritto ad un’equa riparazione.
Il venir meno dell’interesse, sopraggiunto alla proposizione del ricorso, non configura un’ipotesi di soccombenza e pertanto si ritiene che il ricorrente non debba essere condannato nè alle spese processuali nè al pagamento della sanzione in favore della cassa delle ammende (Sez. un., 25 giugno 1997, n. 7, Chiappetta).

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso per sopravvenuta carenza di interesse.
Così deciso in Roma, il 15 novembre 2006.
Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2007