La Corte d’appello di Perugia, con decreto emesso il 7 aprile 2003, in parziale accoglimento della domanda proposta dal Dott. G. G., ha condannato il Ministero della Giustizia a corrispondere al medesimo Dott. G. un indennizzo di Euro 1.000,00 a titolo di ristoro del danno non patrimoniale da lui sofferto per l’eccessiva durata di un processo penale in cui egli era stato imputato; processo avviato con rinvio a giudizio del 21 novembre 1993 e concluso con sentenza il cui dispositivo era stato pronunciato il 13 marzo 2000 e la cui motivazione era stata depositata il 5 maggio 2000.
Avverso tale decreto il Dott. G. ricorre per Cassazione, assumendo che la liquidazione del danno non è congrua, in relazione ai parametri in proposito stabiliti dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, e che è errata la motivazione in base alla quale il giudice di merito ha limitato ad un lasso di soli undici mesi l’eccedenza di durata del giudizio penale di cui si discute.
Resiste con controricorso il Ministero della Giustizia, che propone altresì ricorso incidentale sostenendo che la Corte d’appello avrebbe dovuto dichiarare inammissibile la domanda avanzata dal doti G., il quale si era in precedenza rivolto alla Corte Europea di Strasburgo, ma dopo la scadenza del termine di sei mesi dal giorno in cui era divenuta definitiva la sentenza che aveva posto fine all’anzidetto giudizio penale.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. I ricorsi proposti avverso il medesimo provvedimento debbono essere preliminarmente riuniti, secondo quel che dispone l’art. 335 c.p.c..
2. L’esame del ricorso incidentale ha carattere preliminare.
2.1. Tale ricorso muove dal corretto presupposto secondo cui la parte la quale intenda dolersi dell’eccessiva durata di un giudizio conclusosi in epoca anteriore all’entrata in vigore della L. n. 89 del 2001 può agire dinanzi al giudice nazionale nel termine di sei mesi dall’ entrata in vigore di detta legge, per espresso disposto dell’art. 6, comma 1, solo se abbia già tempestivamente presentato ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo (e se non sia intervenuta una decisione sulla ricevibilità da parte della predetta Corte Europea).
Nel caso di specie non è controverso che il Dott. G., prima di rivolgersi alla Corte d’appello di Perugia, avesse presentato ricorso alla Corte Europea; ma l’amministrazione ha sostenuto che quel precedente ricorso non era tempestivo (e dunque non era idoneo a fungere da valido presupposto di ammissibilità del successivo ricorso in sede nazionale), perchè formulato oltre la scadenza dei sei mesi dalla data in cui era divenuta definitiva la decisione con la quale si era concluso il giudizio penale della cui durata il ricorrente si doleva, e quindi oltre il termine a tal fine stabilito dall’ ari. 35 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
2.2. La Corte d’appello ha disatteso tale eccezione osservando che il giudizio penale si era concluso con sentenza passata in giudicato il 27 giugno 2000 e che il ricorso alla Corte Europea risultava essere stato presentato in data 18 dicembre 2000, quindi nel pieno rispetto del suindicato termine semestrale.
L’amministrazione obietta, però, che il dies a quo di quel termine avrebbe dovuto essere individuato non già nella data del passaggio in giudicato, bensì in quella della pronuncia della sentenza con cui era giunto a compimento il giudizio penale nel quale il Dott. G. era imputato, in tal senso dovendosi interpretare l’espressione "dal giorno in cui la decisione è divenuta definitiva" adoperata dall’ art. 35 della citata convenzione. Ragion per cui il ricorso a suo tempo proposto in sede Europea dal medesimo Dott. G. sarebbe stato intempestivo.
2.3. Siffatta censura non è condivisibile.
Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che, ai fini che qui interessano, il concetto di "definitività" della decisione, ove si tratti di una sentenza di merito (come nella specie), s’identifica con il passaggio in giudicato di tale sentenza, questo essendo il momento in cui si determina la definitiva acquisizione della posizione giuridica alla quale quel tipo di processo è preordinato (cfr, Cass. 20 gennaio 2006, n. 1184; e Cass. 9 novembre 2005, n. 21723); e da questo orientamento non si ha motivo ora di discostarsi.
Il calcolo del termine operato dalla corte territoriale appare pertanto corretto, ed il ricorso incidentale va quindi rigettato.
3. Il ricorso principale investe il quantum del danno non patrimoniale liquidato dalla corte d’appello (il solo accenno al danno patrimoniale contenuto nel ricorso è, probabilmente, frutto di un mero lapsus calami, ed, in ogni caso, non sarebbe sufficiente ad integrare una specifica e motivata doglianza sul punto).
La doglianza è duplice: per un verso investe i parametri adoperati dalla Corte territoriale nel liquidare l’anzidetto danno, che non sarebbero coerenti con quelli elaborati in proposito dalla Corte Europea, cui anche i giudici nazionali sono tenuti a conformarsi, e non terrebbero conto delle specificità del caso concreto (primo motivo di ricorso); per altro verso attiene alla misura in cui il giudice di merito ha ritenuto eccessiva la durata del giudizio in questione, ed ai criteri che sorreggono tale valutazione (secondo motivo di ricorso).
3.1. L’esame della censura espressa nel secondo motivo si prospetta come logicamente preliminare.
Tale censura, come già accennato, riguarda la sufficienza della motivazione con cui la Corte territoriale ha valutato il termine di ragionevole durata del giudizio in discussione ed i fattori che hanno concorso a determinarne l’eccedenza.
La corte d’appello si è riferita, da un lato, alla complessità della vicenda processuale, desunta dalla gravità dei reati contestati e dal numero degli imputati e delle parti civili (circa sessanta), in ragione della quale ha stimato che quel processo avrebbe dovuto ragionevolmente durare quattro anni (un anno in più del termine considerato ordinariamente sufficiente); dall’altro lato, ha poi considerato che due anni e due mesi di tempo erano da addebitare a rinvii dovuti agli scioperi dei difensori ed agli impedimenti degli imputati, onde non ne ha tenuto conto ai fini del calcolo della durata eccedente.
Le critiche del ricorrente si appuntano su entrambi tali profili.
Quanto al primo, si sostiene che il numero degli imputati e delle parti civili indicate nell’impugnato decreto non sarebbe esatto e che, comunque, la corte d’appello avrebbe dovuto tener conto anche di altri elementi (udienze ad effettivo contenuto istruttorio, numero dei testimoni escussi, dimensione della sentenza conclusiva del giudizio) dai quali si sarebbe desunto che il processo non era affatto particolarmente complesso.
Quanto al secondo profilo, invece, il ricorrente si duole che la Corte d’appello, nell’addebitare alle parti ed ai loro difensori una serie di rinvii d’udienza, non abbia tenuto conto del fatto che i rinvii avrebbero potuto comunque essere contenuti entro limiti di tempo assai minori ed abbia in tal modo immotivatamente fatto ricadere su di esso ricorrente anche le conseguenze di rinvii addebitabili ad altri imputati.
3.2. Il primo dei riferiti profili di doglianza è senz’altro da disattendere.
Il riferimento al numero delle parti in causa ed al numero dei reati da accertare è, infatti, del tutto sufficiente a motivare la valutazione di complessità del giudizio espressa dalla corte territoriale; nè possono in questa sede sindacarsi affermazioni di fatto (quale quella sul numero effettivo delle parti) che postulerebbero un accertamento di merito precluso al giudice di legittimità.
L’esistenza di altri eventuali indicatori di complessità, dei quali il giudice di merito non avrebbe tenuto conto, è poi, di per se solo, insufficiente a sorreggere la censura di difetto di motivazione. Questo vizio non può infatti consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova (cfr., tra le tante, Cass. 16 gennaio 2004, n. 584).
3.3. A conclusione in parte diversa si deve invece pervenire per quel che attiene al secondo profilo.
Può senz’altro escludersi un vizio di motivazione del decreto impugnato per non aver distinto i rinvii d’udienza imputabili specificamente ad impedimento del Dott. G. (o del suo difensore), rispetto a quelli riferibili ad altre parti del medesimo giudizio penale. Gli eventuali ritardi processuali che non siano dovuti, neppure indirettamente, a disfunzioni dell’apparato giudiziario, ma siano invece conseguenti ad esigenze o a scelte di parte, si sottraggono comunque al regime dell’indennizzabilità stabilito dalla L. n. 89 del 2001; nè incide su ciò il fatto che possa essersi trattato di esigenze o di scelte imputabili ad una parte diversa da quella che chiede di essere indennizzata per la durata eccessiva del giudizio, giacchè – qualora ne sia derivata per il giudice la ineludibile necessità di accedere ai richiesti rinvii – ciò comunque si risolve in un fattore di maggiore complessità della causa che non può essere addebitato all’amministrazione.
Resta però sempre da verificare se – ed in quale eventuale misura – agli accennati ritardi possano aver concorso anche fattori riferibili al comportamento del giudice o dei suoi ausiliari oppure, in genere, dell’organizzazione giudiziaria. Ed è appunto per questo specifico aspetto che la censura del ricorrente coglie nel segno.
Non è infatti consona ai principi regolatori della materia l’affermazione formulata dalla corte d’appello secondo cui la circostanza che il giudice fissi a grande distanza di tempo l’udienza da rinviare a causa di impedimenti della parte non rileverebbe, ai fini dell’applicazione della citata legge sull’equo indennizzo, dovendosi "tener conto del ruolo d’udienza del collegio giudicante".
Quest’ultima circostanza, viceversa, in quanto immediatamente riferibile alle modalità di funzionamento dell’apparato giudiziario – se attrezzato o meno a fronteggiare le sempre possibili esigenze di rinvio d’udienza in tempi ragionevoli – rientra con ogni evidenza tra quelle dalle quali ben può discendere l’obbligo indennitario dello Stato nei confronti della parte soggetta ad un ingiustificato prolungamento dell’attesa di giustizia, essendo lo Stato tenuto a garantire il rispetto del diritto di ciascuno alla definizione dei processi in tempi ragionevoli.
L’imputabilità alle parti di uno o più rinvii della causa non basta, quindi, ad escludere che il conseguente ritardo nella definizione del processo sia indennizzabile, a norma della citata L. n. 89 del 2001, qualora – e nella misura in cui – alla non ragionevole durata del giudizio abbia concorso anche l’eccessiva dilazione di tempo tra l’una e l’altra udienza e questa sia dovuta a ragioni organizzative riferibili all’amministrazione giudiziaria.
Sotto questo profilo, l’impugnato decreto appare dunque motivato in modo erroneo, e ciò determina la necessità di cassarlo, con conseguente rinvio della causa alla Corte d’appello di Perugia, la quale, in diversa composizione, riesaminerà la vertenza, alla stregua del principio di diritto sopra esposto, e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
L’ammontare dell’indennizzo spettante al ricorrente dovendo essere rideterminato, sulla base di un diverso calcolo dell’eccessiva durata del giudizio, resta assorbito l’esame del primo motivo di ricorso.

P.Q.M.
La corte:
1) riunisce i ricorsi;
2) rigetta il ricorso incidentale;
3) accoglie, nei termini di cui in motivazione, il secondo motivo del ricorso principale;
4) dichiara assorbito il primo motivo del medesimo ricorso principale;
5) cassa il decreto impugnato, in relazione alla censura accolta, e rinvia la causa alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 27 giugno 2006.
Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2006