1. – Con ricorso depositato in data 21 giugno 2004, P.R. si rivolse alla Corte d’appello di Lecce, esponendo di aver convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Foggia, con atto di citazione notificato il 2 luglio 1990, il Comune di S. Ferdinando di Puglia per sentirlo condannare al ristoro dei danni subiti per la occupazione appropriativa di un terreno di sua proprietà per la costruzione di un impianto sportivo polivalente, e che, disposta ed espletata al riguardo consulenza tecnica d’ufficio, dopo la precisazione delle conclusioni, con ordinanza collegiale in data 27 maggio 1994, ritenendosi infondatamente oggetto della domanda la indennità di espropriazione, in ordine alla cui determinazione era, nelle more del processo, sopravvenuto il D.L. n. 333 del 1992, art. 5 bis, convertito, con modificazioni, nella L. n. 359 del 1992, era stato disposto un supplemento di indagine per la rideterminazione della indennità,- e che, dopo una serie di rinvii, il g.o.a., disponendo, con separata ordinanza, nuova c.t.u., aveva emesso sentenza parziale il 16 ottobre 2001, che statuiva che il rapporto intercorso tra le parti aveva natura contrattuale e non rientrava tra i negozi di diritto pubblico conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità. Detta sentenza era stata impugnata il 5 novembre 2001, innanzi alla Corte d’appello di Bari, la quale aveva emesso il 3 febbraio 2004 sentenza con la quale riformava la decisione censurata nella parte in cui essa aveva inquadrato la vicenda nell’ambito dei negozi di diritto privato, e stabiliva che il danno dovesse essere risarcito secondo il criterio posto per la occupazione appropriativa dal D.L. n. 333 del 1992, art. 5 bis, comma 7 bis, introdotto dalla L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 65.
Ciò premesso, il P. chiese alla Corte d’appello adita la condanna del Ministero della giustizia all’indennizzo del danno subito per la eccessiva durata del giudizio – ancora in corso dopo quattordici anni – nelle componenti del danno patrimoniale, in ragione di Euro 338.058,44, pari alla maggior somma che avrebbe avuto titolo a percepire alla stregua delle norme vigenti nel 1991, quando, senza le coeve pronunce giudiziali, giudicate "erronee ed improvvide" dal ricorrente, la causa si sarebbe dovuta decidere; nonché del danno non patrimoniale, quantificato in Euro 100.000, o, in subordine, di Euro 33.000,00 o 16.500,00, oltre ad interessi e rivalutazione nonché alle spese del procedimento.
2. – La Corte adita, con decreto depositato il 5 novembre 2004, rigettò la richiesta di ristoro dei danni patrimoniali, negando che gli orientamenti giurisprudenziali che determinano la maggiore durata del processo possano configurare una violazione ai sensi della L. n. 89 del 2001, versandosi al di fuori della ipotesi di interpretazioni e prassi palesemente abnormi, e tenuto anche conto che, quand’anche la opzione ermeneutica del Tribunale fosse stata conforme a quella divisata dal ricorrente, in considerazione della possibilità del ricorso della controparte alla tutela impugnatoria, era da escludere che la sentenza sarebbe divenuta definitiva prima della entrata in vigore dello ius superveniens. Del resto, osservò la Corte, rilevando, ai fini della L. n. 89 del 2001, solo il danno riferibile al periodo eccedente la durata ragionevole del processo, e dovendosi perciò sottrarre i segmenti temporali riferibili ai comportamenti delle parti ed alla complessità del caso, si imponeva comunque la esigenza di distinguere le singole attività compiute onde individuare la durata ragionevole massima.
Aggiunse la Corte che la portata economicamente deteriore, per il proprietario privato del diritto dominicale, dello ius superveniens di cui al D.L. n. 333 del 1992, art. 5 bis, comma 7, non è correlatile alla violazione del termine di ragionevole durata del processo, mentre la tutela apprestata dall’ordinamento a fronte di condotte giudiziali generatrici di danno è contenuta nella L. n. 117 del 1988. Inoltre, ad avviso della Corte di merito, la stessa possibilità che il P. conseguisse comunque nel giudizio di cognizione, alla stregua dell’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, l’integrale ristoro del danno provocato dalla occupazione appropriativa, escludeva il fondamento della domanda di riparazione del danno patrimoniale dedotto, consistente nella maggior somma cui avrebbe avuto titolo lo stesso P. prima dell’applicazione della normativa sopravvenuta.
La Corte accolse invece la domanda di ristoro del danno non patrimoniale, liquidato, in conformità agli standards della Corte europea, in Euro 1500 per ogni anno di ritardo.
Quanto al periodo di durata irragionevole, la Corte ritenne che esso non potesse farsi consistere in undici anni, come richiesto dal ricorrente, dovendosi, da una parte, tener conto del rinvio richiesto dalle parti dal 21 febbraio al 7 marzo 2000, e di quello dal 26 febbraio 2002 al 14 maggio 2003, provocato dall’assenza del c.t.u. e che le parti stesse avrebbero potuto evitare sollecitando l’adozione dei provvedimenti del giudice, e, dall’altra, della complessità delle indagini tecniche, e considerate le ingiustificate pause tra il 15 novembre 1991 ed il 16 giugno 1992 e tra il 16 marzo 1993 e il 20 maggio 1994, nonché l’ampio intervallo tra la precisazione delle conclusioni, in data 27 giugno 1995, e l’udienza di discussione collegiale del 14 novembre 1997, e tra questa e la data del 14 giugno 1999, cui risaliva il decreto del g.o.a, che fissava la comparizione delle parti per il 18 ottobre 1999, ed ancora tra la riserva di decisione del 7 marzo 2000 e la successiva udienza del 27 maggio 2001, valutò complessivamente in sei anni il periodo eccedente la durata ragionevole del processo, e pertanto liquidò il danno non patrimoniale nella misura di Euro 9.000,00, pari ad Euro 1500,00 per ogni anno eccedente la durata ragionevole del processo.
3. – Avverso tale decreto ricorre per cassazione il P. sulla base di due motivi. Resiste con controricorso il Ministero della giustizia.
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo di ricorso, si deduce "violazione e falsa applicazione degli artt. 19, 32, 41 e art. 6, comma 1, C.E.D.U. ratificata con L. 4 agosto 1955, n. 848, della L. n. 89 del 1991, art. 2, dell’art. 112 c.p.c., nonché dei principi generali di legalità, di irretroattività delle leggi, di evitare l’illegittima ingerenza del potere legislativo nella decisione delle liti. Violazione e falsa applicazione del principio della perpetuatio iurisdictionis sul quale sono fondati l’ordinamento processualcivilistico, nonché la C.E.D.U. e la L. n. 89 del 2001. Omessa, contraddittoria e lacunosa motivazione sui punti decisivi della controversia relativi: 1) alla possibilità di riuscire a conseguire l’integrale risarcimento del danno; 2) all’individuazione del giudice competente a decidere la controversia; 3) all’inquadramento della controversia nello schema della L. n. 117 del 1988; 4) all’imputabilità del danno patrimoniale subito dal ricorrente al ritardo processuale; 5) all’interpretazione della ordinanza collegiale del Tribunale di Foggia del 27.5.1994 e della sentenza parziale del g.o.a. n. 1816/01; 6) alla mera ipotesi che avrebbero potuto essere proposte le impugnazioni nel 1994, e 7) alla valutazione del segmento di ritardo imputabile alla ordinanza collegiale del 27.5.1994". Il ricorrente lamenta un grave pregiudizio patrimoniale dovuto alla sensibile diminuzione delle sue aspettative risarcitorie rispetto alla liquidazione effettuata dal c.t.u. nel 1991, che gli aveva riconosciuto una somma pari ad Euro 774.386,75, diminuzione ascrivibile essenzialmente al ritardo processuale che aveva consentito che, con l’entrata in vigore della L. n. 662 del 1996 – peraltro severamente censurata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo -, applicabile anche ai giudizi in corso, si dimezzasse l’ammontare delle somme dovute ai proprietari privati di un immobile per effetto di occupazioni appropriative, quale dovrebbe essere considerata la fattispecie in esame. Ed infatti, il ritardo determinato dalla decisione del Tribunale di Foggia, che, anziché pronunziare la sentenza definitiva, aveva disposto una istruttoria, inutile, ad avviso del ricorrente, in quanto diretta ad accettare l’ammontare della indennità di espropriazione in una causa avente ad oggetto il risarcimento del danno da occupazione appropriativa, aveva provocato il decremento patrimoniale lamentato. Al riguardo, la Corte d’appello di Lecce, rigettando la domanda di equa riparazione del danno patrimoniale da ritardo nel processo, proposta ai sensi della L. n. 89 del 2001 alla stregua della considerazione che il ricorrente avrebbe avuto la possibilità di conseguire, nel giudizio di cognizione, il ristoro integrale del danno provocato dalla occupazione appropriativa, si sarebbe posta in contrasto con l’art. 112 c.p.c., oltre ad essere lacunosa nella motivazione. Il ricorrente richiama, al riguardo, due decisioni coeve di questa Corte che, a suo avviso, si porrebbero in contrasto tra loro: la prima, la sent. n. 6071 del 2004, aveva confermato – in tal modo violando la C.E.D.D. e lo stesso sistema processualistico, ispirato al principio della perpetuatio iurisdictionis -, la decisione di merito che aveva escluso la configurabilità di un danno riparabile ex L. n. 89 del 2001 in favore del proprietario che, privato del suolo per effetto di occupazione appropriativa, si era visto risarcire in misura ridotta per essere, nelle more del relativo giudizio, sopravvenuta la L. n. 662 del 1996, essendo un siffatto danno determinato direttamente dallo ius superveniens (pur essendo la stessa sentenza, secondo il ricorrente, suscettibile di una diversa interpretazione, che ammette la ricollegabilità del danno di cui si tratta al ritardo processuale se ne sia l’effetto immediato e se il collegamento sia basato su di una normale sequenza causale); la successiva sentenza n. 6490 del 2004, al contrario, aveva, secondo il ricorrente – che ritiene che solo a tale decisione debba essere prestata adesione -, ascritto solo alla eccessiva durata del processo il danno derivante dalla misura ridotta del risarcimento da occupazione appropriativa imposta dalla normativa sopravvenuta nel corso dello stesso. E dunque, nella specie, il pregiudizio lamentato dal ricorrente sarebbe in rapporto di causalità diretta con il ritardo censurato, e non con il richiamato provvedimento istruttorio del 20 maggio 1994 – peraltro errato, con ciò escludendosi anche la possibilità di inquadrare la fattispecie, come ritenuto dalla Corte d’appello, nello schema della tutela apprestata dalla L. n. 117 del 1988, in tema di responsabilità dei magistrati. In via subordinata, il ricorrente chiede alla Corte di dichiarare che il giudice competente alla liquidazione del danno di cui si tratta è il giudice adito nella causa di merito.
Ancora, secondo il ricorrente, avrebbe errato la Corte di merito nell’escludere la configurabilità, nella specie, di un diritto alla equa riparazione da irragionevole durata del processo con riguardo al danno patrimoniale derivante dalla ridotta liquidazione del risarcimento per la occupazione appropriativa del suolo di proprietà del ricorrente, tra l’altro, alla stregua del rilievo secondo il quale anche la più tempestiva emissione della decisione di primo grado non avrebbe consentito la definizione del processo prima della entrata in vigore della L. n. 662 del 1996 ove l’ente convenuto avesse proposto appello e, successivamente, ricorso per cassazione: ed infatti, non potrebbe una decisione giudiziale essere fondata sulla possibilità dell’esercizio della tutela impugnatoria. Senza considerare che, secondo la giurisprudenza di Strasburgo, la durata ragionevole del processo di appello e di quello di cassazione sarebbe pari ad un anno, sicché, nella specie, anche in caso di proposizione di gravame nei confronti della decisione di primo grado, in ipotesi emessa in data 27 maggio 1994, in luogo della più volte richiamata ordinanza istruttoria, il processo sarebbe stato definito entro il 27 maggio 1996, e cioè anteriormente alla entrata in vigore della L. n. 662 del 1996.
Infine, sarebbe errata la considerazione della Corte d’appello relativa al mancato superamento della soglia della ragionevolezza ad opera del ritardo determinato dalla predetta ordinanza collegiale, che costituirebbe un solo segmento temporale, inidoneo, di per sé solo, a causare il danno patrimoniale lamentato: al contrario, proprio quella errata ordinanza avrebbe causato un ritardo di oltre dieci anni, causativo del danno patrimoniale lamentato.
2. – Il motivo è infondato nelle sue varie articolazioni.
3.1. – L’esame delle censure non può che muovere dalle affermazioni della giurisprudenza di legittimità in tema di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo, secondo le quali non ogni "fatto" che accade nel periodo di irragionevole durata del processo e determina un danno deve ritenersi causativo, unitamente alla durata del giudizio, del pregiudizio prodottosi, e quindi indennizzabile ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, posto che, in forza del principio della causalità adeguata, devono ritenersi causa dell’evento solo quegli accadimenti che ne sono la causa diretta, con la conseguenza che i fatti sopravvenuti interrompono il nesso di causalità quando siano di per sé sufficienti a determinare l’evento. Pertanto, il danno economico può essere ricollegato al ritardo nella definizione del processo solo se sia l’effetto immediato di tale ritardo e a condizione che vi si riconnetta sulla base di una normale sequenza causale.
3.2.- Tale nesso di causalità non è configurabile là dove la perdita economica lamentata derivi dalla sopravvenienza di una legge, applicabile anche alle fattispecie "sub indice", prevedente una liquidazione della pretesa azionata in giudizio meno favorevole per l’interessato, tanto più che non è in radice giuridicamente possibile ricollegare un evento dannoso alla promulgazione di una legge, la quale, essendo espressione della sovranità del Parlamento, e quindi caratterizzata dalla libertà nel fine, può anche incidere negativamente sulle posizioni dei singoli senza per questo essere fonte di un danno indennizzabile.
3.3. – Il richiamato principio, affermato in via generale, ha, in particolare, trovato applicazione, ancor prima che nella sentenza n. 6071 del 2004, ricordata dal ricorrente – che la ha erroneamente contrapposta, per quanto di seguito sarà esposto, alla pressocché coeva sent. n. 6490 del 2004 -, con riferimento alle fattispecie caratterizzate dalla sopravvenienza della L. 23 dicembre 1996, n. 662, che, per il risarcimento del danno da perdita della proprietà per accessione invertita, ha previsto un criterio di valutazione parametrato sull’indennizzo da espropriazione, così impedendo l’ulteriore applicazione delle regole di diritto comune (v., sul punto, sent. n. 2382 del 2003).
La richiamata sentenza n. 6071 del 2004, nel confermare, proprio sulla base del già citato arresto giurisprudenziale del 2003, la decisione di merito -, la quale aveva ritenuto che la modifica legislativa di cui si tratta spezzasse il vincolo di causalità tra ritardo nel processo e danno patrimoniale ai fini della equa riparazione ex L. n. 89 del 2001, rilevando che il danno patrimoniale che lamentavano i ricorrenti nella specie era interamente e direttamente ascrivibile allo ius superveniens, che aveva assunto rilevanza esclusiva ed assorbente nella determinazione del risarcimento da occupazione appropriativa in tutti i procedimenti che, irragionevole od accettabile che fosse la loro durata, non si erano ancora irrevocabilmente conclusi alla data di entrata in vigore della L. n. 662 del 1992, art. 3, comma 65 -, ebbe a chiarire che, se appartengono alla normale sequenza causale dell’abnorme ritardo nella definizione del giudizio di risarcimento da occupazione appropriativa i debiti che l’espropriato sostanziale abbia dovuto medio tempore contrarre, o la perdita di chance indotta dalla ritardata percezione del dovuto, esula da tal sequenza l’intervento legislativo in questione che ha avuto l’effetto di rimodulare – in base a scelta legislativa insindacabile, e per la generalità delle situazioni contemplate – il parametro di indennizzo dovuto per tutte le espropriazioni sostanziali intervenute anteriormente al 30.9.1996.
Nella stessa sentenza, la Corte sottolineò altresì che la rilevanza assorbente di tale ius superveniens avrebbe funzionato anche in bonam partem qualora, per effetto della abnorme durata del procedimento, l’espropriato avesse potuto beneficiare del temporaneo sopravvenuto ripristino del criterio del valore venale (effetto della dichiarazione di incostituzionalità, ad opera della sentenza n. 369 del 1996 della Corte costituzionale, della L. n. 549 del 1995, art. 1, comma 65).
3.4. – Tale sentenza, come sopra accennato, non risulta contraddetta dalla pronuncia di questa Corte n. 6490 del 2004, di poco successiva alla prima. Ad essa, infatti, erroneamente il ricorrente attribuisce il significato di ascrivere il danno lamentato dai ricorrenti – che era lo stesso dedotto nella fattispecie all’odierno esame – alla eccessiva durata del processo piuttosto che allo ius superveniens. La pronuncia in esame si incentra, invero, essenzialmente – per escluderlo sul preteso contrasto dell’istituto della occupazione appropriativa e della relativa normativa per la determinazione del danno, con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ed, in particolare, con il suo art. 13, e sulla improponibilità di una esegesi che conduca a predicare la disapplicazione, per la liquidazione del relativo danno, dello ius superveniens di cui alla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 7 bis, – entrato in vigore nel corso del processo ed applicabile, per espressa previsione, anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato – in considerazione della eccessiva durata del processo. Ma non risulta emergere, dalla sentenza in esame, una opzione ermeneutica nel senso di una diretta dipendenza, in via di principio, del danno lamentato in tale ipotesi dalla irragionevole durata del processo, non potendosi certamente ritenere tale la espressione, contenuta nella motivazione della pronuncia, secondo la quale "ammesso e non concesso che la liquidazione del danno in base ai criteri riduttivi della norma summenzionata costituisca effettivamente, come sostenuto dal ricorrente, un pregiudizio ascrivibile alla eccessiva durata del processo, in tal caso non è detta disposizione che, per un fatto che le è estraneo, essendo esterno al dettato normativo, può ritenersi in contrasto con la normativa convenzionale e, quindi, inapplicabile, ma è l’eccessiva durata del processo che viene in diretta ed autonoma considerazione". 3.5. – Del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto che nel novero del danno patrimoniale da violazione del termine di durata ragionevole del processo non rientrano le poste che costituiscono oggetto del giudizio, pendente o concluso, protrattosi eccessivamente (v. sent., n. 3143 del 2004).
Sotto tale profilo, correttamente la Corte d’appello salentina, nel decreto impugnato, fa riferimento, tra le ragioni della infondatezza della pretesa del ricorrente, alla possibilità che lo stesso consegua comunque nel giudizio di cognizione, innanzi al Tribunale di Foggia, l’integrale ristoro del danno provocato dalla occupazione appropriativa, anche alla luce degli arresti in materia della Corte europea dei diritti dell’uomo: del tutto inconferente appare, pertanto, la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c. 3.6. – Del pari, deve, in questa sede, confermarsi la esattezza del rilievo della predetta Corte d’appello in ordine alla forte probabilità, nel caso di specie, che una decisione definitiva sul quantum risarcitorio sarebbe stata comunque posteriore alla entrata in vigore della L. n. 662 del 1996 pur se non fosse stata emessa la ordinanza istruttoria del 20 maggio 1994 – causa, secondo il ricorrente, del ritardo nella definizione del processo presupposto -, avuto riguardo alla rilevante possibilità che il Comune convenuto facesse ricorso a tutte le proprie opportunità difensive, attraverso il rimedio dell’appello, e, successivamente, del ricorso per cassazione.
Né vale, al riguardo, obiettare – come pure fa il ricorrente – che, anche in caso di impugnazione della decisione di primo grado, qualora questa fosse intervenuta, come avrebbe dovuto, in data 20 maggio 1994 in luogo della errata ordinanza interlocutoria cui si è ripetutamente fatto riferimento, il processo non si sarebbe potuto mai protrarre fino ad una data successiva alla entrata in vigore della L. n. 662 del 1996, dati i tempi di durata ragionevole del giudizio di appello e di quello di cassazione fissati dalla Corte europea di Strasburgo.
E’ agevole osservare, in contrario, che non si può aprioristicamente, sulla base della sola considerazione della durata ragionevole di ognuna delle fasi processuali quale fissata dalla giurisprudenza europea, prevedere i concreti tempi di svolgimento delle stesse, i quali sono, ovviamente, correlati ad una serie di evenienze non pronosticabili, la cui verificazione prescinde dalla sanzione della irragionevolezza dei tempi di durata del processo che ne possa derivare.
3.7. – Né a miglior sorte è destinato il rilievo del ricorrente sulla pretesa erroneità dell’affermazione della Corte d’appello relativa alla eventuale riconducibilità della sua pretesa nell’ambito della disciplina di cui alla L. n. 117 del 1988, piuttosto che di quella apprestata dalla L. n. 89 del 2001. In proposito, si rileva la contraddittorietà dell’argomentare che, mentre attribuisce la causa del ritardo nella definizione del processo alle "erronee ed improvvide pronunce giudiziali", ne nega – evidentemente nel dubbio sulla abnormità delle stesse, già esclusa dalla stessa Corte d’appello – la idoneità a fondare una responsabilità ex L. n. 117 del 1988 cit.
4. – Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, nonché omessa, contraddittoria e lacunosa motivazione sui punti decisivi della controversia relativi alla imputabilità alle parti di alcuni ritardi processuali, e della valutazione di singoli ritardi, nonché alla determinazione del danno non patrimoniale subito. Si deduce che il rinvio richiesto dalle parti alla udienza del 21 febbraio 2000 fu motivato dalla esigenza di effettuare la discussione orale, peraltro differita dall’ufficio di soli quindici giorni. Nemmeno sarebbero addebitatili alle parti i rinvii determinati dall’assenza del c.t.u., che, secondo il decreto impugnato, le parti medesime avrebbero potuto evitare. A prescindere dalla considerazione che, essendo il c.t.u. un ausiliario del giudice, le conseguenze della sua assenza non potrebbero essere addebitate alle parti, nella specie il consulente, pur presente alla udienza del 26 giugno 2002, non prestò il giuramento, forse perché intervenuto in ritardo. Dunque, nessun addebito poteva essere posto a carico delle parti, laddove, in particolare la parte attrice aveva svolto una serie di attività sollecitatorie (istanze di anticipazione e di fissazione di udienza, notifica di memoria di controdeduzione, istanza di ordinanza di condanna ex art. 186 quater c.p.c.), non tenute presenti dalla Corte d’appello. Pertanto, gli undici anni di durata del processo eccedenti la misura ragionevole andavano addebitati per intero all’ufficio, o, quanto meno, al comportamento delle parti solo per pochi mesi.
Infine, il danno non patrimoniale da eccessiva durata del processo sarebbe stato liquidato in misura inadeguata, tenuto conto della molteplicità delle occupazioni illegittime dei propri immobili subite dal ricorrente anche in relazione ad altre procedure espropriative, del senso di frustrazione dallo stesso provato, del particolare valore della causa, per cui era stata formulata istanza di risarcimento, autonomo rispetto a quello di Euro 1500,00 per ogni anno eccedente la durata ragionevole del processo, ma conforme ai parametri di liquidazione adottati dalla giurisprudenza di Strasburgo, pari ad Euro 100.000,00.
5. – Anche tale censura si palesa immeritevole di accoglimento.
6.1. – In tema di diritto ad un’equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, la nozione di "ragionevole durata" non ha carattere assoluto, ma relativo, e non si presta ad una determinazione in termini assoluti, ma è condizionata da parametri fattuali strettamente legati alla singola fattispecie,, che impediscono di fissarla facendo riferimento a cadenze temporali rigide. La L. marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 2, dispone, infatti, che la ragionevole durata del processo deve essere verificata in concreto, facendo applicazione dei criteri da esso stabiliti, ed impone quindi di avere riguardo alla specificità del caso che il giudice è chiamato a valutare, nonché ai principi elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo – che fissano la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni – dai quali è ben possibile discostarsi, purché in misura ragionevole e sempre che la relativa conclusione sia confortata da argomentazioni complete, logicamente coerenti e congrue.
6.2. – Nella specie, la Corte salentina è pervenuta al risultato di escludere che, dei quattordici anni di durata del processo presupposto, il periodo eccedente la durata ragionevole equivalga a undici anni, valutandolo, invece, in sei anni: ciò ha fatto sulla base di un dettagliato esame dei segmenti temporali in cui si è articolato il processo di cui si tratta, facendosi correttamente carico dell’esame delle ragioni delle ingiustificate pause nello svolgimento dello stesso, ed attribuendole, volta a volta, a carenze organizzative del servizio ovvero a comportamenti delle parti, e, nel contempo, evidenziando la complessità delle indagini tecniche richieste dalle contrapposte impostazioni delle parti nonché la proposizione di gravame nei confronti della sentenza non definitiva e l’attesa del relativo esito, con apprezzamento che, siccome logicamente e congruamente motivato, non è suscettibile di sindacato in questa sede.
6.3. – Quanto, infine, alla censurata determinazione del danno non patrimoniale, il giudice di merito non si è discostato dagli standards fissati al riguardo dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, senza che il più elevato importo richiesto dal ricorrente fosse giustificato dal richiamo a casi simili in cui detta Corte abbia proceduto ad una valutazione del danno secondo criteri così differenti da quelli ordinari.
7. – Conclusivamente, il ricorso va rigettato. Le spese, che seguono la soccombenza, e vanno, pertanto, poste a carico del ricorrente, vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5000,00, oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 6 aprile 2006 Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2006