B.C. il 97.2003 riassunse dinanzi alla Corte di Appello di Roma il giudizio promosso ai sensi della L. n. 89 del 2001, nei confronti del Ministero della Giustizia per la equa riparazione del danno subito per la irragionevole durata del processo avviato dinanzi al Tribunale di Benevento il 22.12.1987 per il risarcimento dei danni da occupazione acquisitiva, cancellato dal ruolo il 17.3.1999; il giudizio fu riassunto dopo la cassazione (sent. 4142/2003) del decreto reiettivo della predetta corte territoriale – determinata dalla carenza di motivazione in ordine al comportamento dilatorio delle parti, al comportamento del giudice del procedimento e alla complessità del caso – e con esso si chiese il risarcimento dei danni morali in ragione di Euro 25.822,84 e patrimoniali in ragione di Euro 199.606,00.
La Amministrazione dello Stato resistette alla domanda, che la Corte di Appello di Roma ha respinto con decreto 27.1.2004, con cui ha osservato che la fattispecie oggetto del giudizio presupposto non era stata semplice e i motivi dei rinvii delle udienze erano riconducibili a richieste di parte, concordati ovvero richiesti senza opposizione, fatta eccezione per due rinvii che avevano prodotto un ritardo di circa otto mesi, sicchè la eccedenza del termine ragionevole era pari a meno di un anno.
Ha poi considerato che nessuna prova era stata fornita del danno patrimoniale, mentre per quello morale, la presunzione, legata alla incertezza in ordine all’esito del giudizio, avrebbe dovuto essere confortata dalla prospettazione e dalla esistenza di elementi concreti, che erano mancati, perchè, al di là dell’evidenziato comportamento dilatorio, non era nemmeno risultato che fosse stata proposta una istanza di sollecito della definizione della lite.
Propone ricorso per Cassazione con tre motivi B.C.;
resiste con controricorso il Ministero della Giustizia.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo denunzia il ricorrente violazione e mancata applicazione del L. n. 89 del 20021, art. 2, art. 6, par. 1, 13, 19 e 53 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, artt. 24 e 111 Cost., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.
Rileva che il giudizio presupposto non aveva presentato particolari difficoltà, tant’è che l’elemento in tal senso significativo era stato dalla corte di merito identificato nella eccezione di improcedibilità dell’azione del convenuto Comune di Benevento per non essere ancora scaduto il termine di cinque anni della occupazione legittima e quindi per le necessario indagini tecniche ti, la quale atteneva alla normale dialettica processuale che non aveva comportato ampliamenti del thema decidendum.
Lamenta inoltre che sia stato invertito il giudizio logico – esegetico di valutazione dei tempi processuali e non rapportato ai vari segmenti attribuibili alle parti e al giudice, alla durata complessiva del processo e alla qualità e quantità dell’attività processuale svolta; considerato che il processo era durato oltre 11 anni, con rinvii di ufficio di oltre sedici mesi e vi era stato un ritardo di oltre 23 mesi tra l’udienza di precisazione delle conclusioni e quella collegiale, con congelamento della causa per la cessazione della materia del contendere in seguito alla cessione bonaria del fondo avvenuta il 17.3.1999; mentre dei sei rinvii chiesti dalle parti, quattro rispondevano alla esigenza di assicurare l’esercizio del contraddittorio, sicchè I g dei tre anni, 11 mesi e 4 giorni di ritardo da ascriversi alla richiesta di rinvio del B., il ritardo ragionevolmente addebitatile alla parte ricorrente avrebbe dovuto essere pari a tre mesi Ih e ciò in considerazione del fatto che nel codice di procedura civile vi sono norme specifiche atte a garantire che il processo si svolga entro limiti accettabili (art. 81 disp. att. c.p.c.).
Con il secondo motivo si denunziano violazione e mancata applicazione della L. n. 89 del 2001, artt. 2 e 3 e art. 738 c.p.c.; nullità del procedimento e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.
Assume il ricorrente che, attesa la eccessiva durata del giudizio e considerate le non agiate condizioni economiche sue e della sua famiglia, aveva chiesto alla corte territoriale la liquidazione del danno patrimoniale in Euro 199.600 (L. 386.491.102) da rivalutarsi dal 30.6.1992, giorno della illegittima espropriazione, in quanto, in sede di cessione bonaria del fondo, si era accontentato, a titolo di transazione della controversia, di L. 59.873.102, inferiore alla somma stabilita dal c.t.u. di L. 443.041.537, oltre a L. 3.323.437 per le spese di consulenza, sicchè la somma richiesta corrispondeva alla differenza tra tale importo e quello riscosso.
Lamenta che la corte di appello non abbia svolto le indagini di ufficio – consentitele dalla natura camerale del procedimento – individuando e scegliendo i mezzi di prova ritenuti più idonei ed utili ad apportare elementi di convinzione in ordine alla domanda.
Con il terzo mezzo sono denunziate violazione e mancata applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1 e art. 3; violazione e mancata applicazione degli artt. 13 e 41 Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
B.C. deduce che il decreto impugnato abbia mancato di valorizzare gli elementi presuntivi in concreto attuati in riferimento al danno non patrimoniale ed abbia ad un tempo mancato di considerare gli ultimi sviluppi della giurisprudenza di legittimità, che ha collegato di diritto alla equa riparazione alla durata irragionevole, in linea con quanto stabilito dell’art. 6 Cedu e dall’art. 111 Cost.; ancor più quando la posta in gioco è, come nella specie, rilevante, tenuto contro della sua età e condizione di pensionato portatore di handicap, che non gli avevano consentito di svolgere attività diversa da quella esercitata ed impedita dalla condotta illecita del Comune di Benvenuto, nonchè del rilevante valore economico della controversia presupposta.
Sono fondati, nei termini di cui appresso, il primo ed il terzo motivo del ricorso.
Va premesso che questa Corte, con la sent. 4142/2003, cassò con rinvio il provvedimento del medesimo giudice sulla questione per cui è causa, in quanto reso senza che nella motivazione fossero state indicate le ragioni "obiettivamente sufficienti ed adeguate sul piano logico a suffragare il convincimento espresso sul punto", priva essendo "di una più specifica considerazione circa il numero, la provenienza e l’incidenza reali (anche in esito all’eventuale concorso del comportamento tenuto dall’autorità procedente) delle domande di rinvio". E ciò ancor più in relazione a quanto prospettato nel ricorso, in cui era stato analiticamente illustrato il corso del giudizio, precisate le attività processuali compiute e segnatamene i rinvii delle udienze, e indicata la causa di ognuno di essi e quanta parte di ogni corrispondente allungamento del processo poteva imputarsi ai contendenti e quanta invece all’ufficio giudiziario adito.
Il giudice di rinvio, dopo avere rilevato che la fattispecie presentava profili di complessità, in considerazione del fatto che era in contestazione la legittimità della occupazione, in relazione alla scadenza del termine di quella legittima, ed era necessario esperire indagini tecniche, ha poi osservato che i motivi dei rinvii del processo – durato oltre undici anni – dovevano ricondursi alle richieste di parte, fatta eccezione per due rinvii di ufficio, che avevano portato allo slittamento dell’udienza del 7.5.1993 a quella del 17.1.1994, sicchè, per meno di un solo anno la durata era divenuta irragionevole.
E poichè nessuna prova era sta fornita del dedotto danno, patrimoniale e morale, che non poteva, quest’ultimo, ritenersi sussistente per il solo fatto del ritardo, necessitando di essere prima allegato, sulla base di elementi concreti, e poi provato, sia pure per presunzioni, ha respinto la domanda.
La censura, per ciò che attiene al profilo della durata irragionevole, merita di essere condivisa.
Se insindacabile è l’apprezzamento della complessità della controversia, investendo la doglianza una valutazione di merito, adeguatamente circostanziata sul piano motivazionale, pertinente è invece la critica che attiene sia alla durata dei rinvii, non tanto per la loro eccedenza rispetto al termine ordinatorio di 15 giorni previsto dall’art. 81 disp. att. c.p.c., quanto per la loro possibile influenza sul superamento della durata processuale ragionevole, in termini complessivi, in rapporto ai parametri di ordine generale fissati dalla L. n. 89 del 2001, art. 2; sia alla detraibilità da tale durata di quelli richiesti dalle parti, possibile solo nei limiti in cui siano imputabili ad intento dilatorio o a negligente inerzia e in generale all’abuso di diritto di difesa e non anche per la parte ascrivibile ad obiettive disfunzioni ed insufficienze del sistema e cioè a carenze dell’ufficio giudiziario, pur in difetto di specifiche sue manchevolezze o colpe (Cass. 119/2004; 4512/2004:6856/2004; 4450/2005).
Tanto questa Corte aveva evidenziato con la richiamata decisione 4142/2003 di rinvio, allorchè aveva fatto riferimento all’eventuale concorso del comportamento tenuto dall’autorità procedente.
Sul punto il decreto impugnato è sostenuto da motivazione insufficiente, carente anche nella specificazione dei rinvii disposti di ufficio e genericamente riassunti in meno di "un anno", essendosi lasciati del tutto scoperti tempi del processo, quali quello di tre anni dal 10.5.1991 al 30.5.1994, fatta eccezione per gli otto mesi (7.5.1993 – 17.1.1994) coperti da due rinvii di ufficio; ed essendo mancato qualunque accenno alle ragioni per le quali dalla prima udienza del 17.2.1988 il processo fu rinviato al 25.1.1989, insufficiente essendo la circostanza che vi era stata la richiesta del difensore del B., in difetto di specificazioni se si sia trattato o meno di un mero rinvio, come si afferma per altre istanze di parte (periodi 25.1.1989 – 10.5.1991 e 30.5.1994 in poi).
La motivazione, peraltro, presenta vizi di contraddittorietà, allorchè sembra giustificare i rinvii di ufficio con l’assunto che "ciò semmai doveva indurre le parti ad una stringente attività processuale e non certo a limitarsi a richieste di rinvio", salvo a prendere in considerazione, evidentemente con riguardo esclusivo al ritardo ad essi dovuto, la richiesta di equa riparazione, disattendendola per ragioni di prova, sia per il danno patrimoniale che per quello morale.
Fondato è anche, come si è detto, il terzo motivo, con cui si censura la decisione impugnata per avere disatteso i principi della CEDU e della L. n. 89 del 2001, in merito alla liquidazione del danno non patrimoniale, negata per difetto di prova, pur essendosi riconosciuto che la durata del processo aveva ecceduto quella ragionevole, sia pure "di meno di un anno".
Avuto riguardo alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo per i diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il danno non patrimoniale, conseguente alla durata irragionevole del processo e consistente nell’ansia, nei patemi d’animo e nelle sofferenze morali da essa provocati, non necessita di essere provato, a differenza di quello patrimoniale – verificandosi normalmente per effetto della violazione del termine ragionevole di durata del processo – mentre grava sulla Amministrazione convenuta l’onere di dedurre e provare i fatti che in concreto eccezionalmente lo escludono (Cass. ss.uu.1338, 1339, 1340/2004; Cass. 17999/2005; 8568/2005; 3118/2005).
Il principio suddetto opera, infatti, nel senso che le giurisdizioni nazionali devono per quanto possibile interpretare il diritto interno conformemente alla convenzione; e che il giudice nazionale – libero di valutare se nel singolo caso concreto sussistano circostanze che dimostrino che nessuna conseguenza pregiudizievole si è verificata – può anche allontanarsi in sede di liquidazione dalla applicazione rigorosa e formale dei criteri adottati dalla Corte europea, conservando un margine di valutazione in relazione alla natura e alle caratteristiche di ogni singola controversia, salva però la impossibilità di liquidare, per ogni anno di ritardo, somme che non siano in relazione ragionevole con quella – tra i 1.000,00 e i 1.500,00 Euro – accordata dalla Corte negli affari consimili;
restando quindi fermo il suo dovere di conformarsi alla giurisprudenza di quel giudice e di accordare somme conseguenti (Cass. ss.uu. 1340 e 1341/2004).
Il provvedimento impugnato va pertanto annullato, avendo in radice contraddetto i principi suenunciati, con rinvio alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione, che ad essi si conformerà.
Infondato è invece il secondo motivo, che reitera la doglianza riferita al ritardo del giudizio, produttivo del supposto pregiudizio patrimoniale, sulla quale ampia ed argomentata è stata la decisione del giudice di merito.
Il ricorrente sostanzialmente deduce che in quanto "semplice pensionato che traeva dalla piccola attività commerciale gli unici mezzi di sostentamento e che in seguito alla citazione al Comune di Benevento e all’inutile trascorrere di undici anni si era visto costretto ad addivenire ad un accordo bonario cedendo il suo fondo per una somma davvero irrisoria"; ma a riguardo la corte territoriale ha rilevato che inosservato era rimasto l’onere probatorio del ricorrente, che aveva mancato: a) di produrre l’accordo stragiudiziale e persino di indicarne la data; b) di provare che la sua pretesa ad una maggiore somma rispetto a quella ottenuta fosse fondata, essendo in contestazione an e quantum debeatur e risultando insufficiente il richiamo alla consulenza di parte; c) di dimostrare il nesso casuale tra la durata irragionevole del processo, nella misura in cui lo era stata, e il pregiudizio supposto; e tali apprezzamenti di fatto, una volta adeguatamente motivati, come nella specie, si sottraggono alle censure in sede di legittimità, che sono destituite di ogni fondamento, allorchè invocano il potere del giudice nel procedimento camerale di acquisire di ufficio informazioni, sia perchè nella specie si è trattato di procedimento camerale contenzioso, sia perchè le carenze probatorie contestate hanno riguardato atti documentali in possesso della parte interessata e non di terzi e hanno fatto riferimento ad allegazioni e prospettazioni necessariamente di sua spettanza, in quanto afferenti alla deduzione stessa degli elementi del danno patrimoniale invocato.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo ed il terzo motivo del ricorso; rigetta il secondo; cassa il decreto impugnato in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese di Cassazione.
Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2006.
Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2006