S.A., nel 2003, ha chiesto alla Corte di appello di Napoli la condanna della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, a pagargli l’equa riparazione dei danni subiti per l’irragionevole durata del processo da lui iniziato il 29 ottobre 1998 con ricorso al T.A.R. della Campania avverso il silenzio-rifiuto del contributo per l’assistenza alla familiare disabile I.S., giudizio ancora pendente.
Ha dedotto che nel giudizio amministrativo, nel quale aveva presentato istanze di prelievo per discutere il ricorso il 24 maggio 2000 e il 25 marzo 2003, era stata palese la violazione dell’ art. 6 n. 1 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata in Italia con L. 4 agosto 1955, n. 848 ed ha quindi chiesto un indennizzo pari al contributo non fruito di Euro 10.366,57; la Presidenza del Consiglio dei Ministri costituitasi ha chiesto il rigetto della domanda.
La adita Corte, con decreto del 16 marzo 2004, ha accolto parzialmente il ricorso e condannato la convenuta a pagare all’attore, a titolo di equa riparazione, Euro 450,00 e le spese di causa; poichè l’istanza di prelievo è il comportamento di parte che contribuisce a determinare il ritardo della risposta giudiziaria, la data di presentazione della stessa costituisce dies a quo del tempo da valutare ai fini dello scrutinio di ragionevolezza della durata del processo.
Con decorrenza dal 24 maggio 2000, data della prima istanza di prelievo, la durata del processo era stata, al momento della decisione, di anni tre e mesi nove e, considerata la scarsa complessità del caso, il primo grado non avrebbe dovuto esser di durata superiore ai tre anni, con irragionevolezza del periodo eccedente tale limite, di circa nove mesi.
Non essendo effetto della durata del processo il danno patrimoniale costituito dal contributo non ricevuto, nè essendovene altri allegati e provati, andavano liquidati i soli danni non patrimoniali presumibili in base ai criteri adottati – dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti Cedu) per la quale, come statuito nel caso Mennitto contro Italia relativo ad una fattispecie analoga, la somma da pagare per ogni anno di ritardo era stata di L. 1.100.000. Di conseguenza la determinazione dell’equo indennizzo era di Euro 450,00, per il tempo di ritardo computato e l’Amministrazione resistente doveva pagare al ricorrente le spese del grado.
Per la cassazione di tale decreto ricorre il S.A. con unico articolato motivo e la Presidente del Consiglio dei Ministri si difende con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso si articola in sette punti: i primi tre attinenti ai criteri e alle modalità di determinazione della durata del processo amministrativo e della soglia di ragionevolezza di essa, altri tre, relativi alla liquidazione dell’equo indennizzo, e l’ultimo, sulla disciplina delle spese di causa.
1.1. Si denunciano anzitutto: a) la violazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 e della L. 6 dicembre 1971, n. 1034, art. 23, pure per insufficiente motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n.ri 3 e 5, perchè il decreto impugnato fa decorrere la durata del giudizio dinanzi al Tar della Campania dalla presentazione dell’istanza di prelievo, non prevista dalla legge, a differenza della domanda di fissazione d’udienza depositata con il ricorso; b) la genericità dell’affermato superamento della durata ragionevole del processo, senza precisazioni ulteriori e in violazione della norma citata della legge Pinto, con mancato adeguamento ai criteri e parametri della Cedu, che fissa la durata del giudizio amministrativo a decorrere dal ricorso e non dall’istanza di prelievo; c) la violazione della L. n. 89 2001, art. 2 e dell’ art. 6, par. 1, della Convenzione perchè, anche ad applicare i termini di durata del processo civile ritenuti ragionevoli dalla Cedu (di regola un biennio per il primo grado, un anno e mezzo per il secondo e un anno per il terzo grado), questi sarebbero stati eccessivi nel caso, per il processo per il quale si chiede l’equa riparazione, di natura assistenziale e avente ad oggetto silenzio-rifiuto (L. n. 1034 del 1971, art. 21 bis, modificato dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, fissa in trenta giorni i termini di decisione), eccedendo comunque la ragionevolezza una durata di esso superiore ai sei mesi desumibili dall’art. 415 c.p.c..
Secondo la controricorrente è imputabile solo a controparte la durata precedente l’istanza di prelievo e corretto è quindi il decreto impugnato sul punto.
1.2 In secondo luogo si censura il quantum liquidato, anche ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 per: a) la disapplicazione dei parametri di liquidazione della Cedu. che fissano in non meno di Euro 1000,00 – 2000,00, per ogni anno di durata del processo, la riparazione da pagare per danni non patrimoniali; b) la errata interpretazione della sentenza Mennitto contro Italia, nella determinazione di quanto dovuto a titolo di riparazione per danni non patrimoniali; c) la violazione dei rapporti di sussidiarietà tra diritto interno e Convenzione sovranazionale, per non avere applicato le norme di questa come lette dal loro giudice naturale e non avere quantificato l’indennizzo in misura maggiore di quella minima della Cedu.
Secondo la controricorrente la Corte napoletana si è uniformata ai parametri di liquidazione della Cedu, rifacendosi alla sentenza Mennitto contro Italia.
1.3. Lamenta infine parte ricorrente che la Corte di merito nessun rilievo ha dato alla misura delle spese contenuta nella stessa sentenza Mennitto c. Italia, violando il diritto di proprietà del destinatario di tali spese, tutelato dall’art. 1 del primo protocollo addizionale della Convenzione, con il liquidare in una entità incongrua le spese di causa.
2.1. Il ricorso è fondato per quanto di ragione in ordine al computo della durata del processo, con conseguente assorbimento delle residue questioni sul quantum e sulle spese.
Da tempo questa Corte afferma che la durata del processo amministrativo presupposto dell’istanza di equa riparazione, di cui alla L. 24 marzo 2001, n. 89, va calcolata nel periodo intercorrente dalla data di deposito del ricorso che lo instaura alla sua definizione o a quella della domanda di equo indennizzo alla Corte d’appello competente, per i giudizi ancora pendenti (su tale termine finale, cfr. Cass. 29 marzo 2006 n. 7143).
La presentazione dell’istanza di prelievo può rilevare solo per apprezzare l’entità del pregiudizio subito dalla parte che l’ha omessa o ritardata e quindi al limitato fine di accertare l’entità della violazione della Convenzione e non per il computo della durata del processo (così, tra molte, le recenti Cass. 11 maggio 2006 n. 10984, 28 aprile 2006 n. 9853, 29 marzo 2006 n. 7118, 21 febbraio 2006 n. 3782, 12 ottobre 2005 n. 19804, 23 maggio 2005 n. 10775, 13 dicembre 2004 n. 23187).
Per tale profilo, il ricorso è quindi fondato, mentre nessun rilievo hanno i termini ordinatori previsti dalle leggi processuali richiamate (norme sul rito del lavoro e processo amministrativo avverso il silenzio rifiuto), non identificandosi con tali termini, fissi e immutabili, la ragionevolezza di durata del giudizio, da accertare, secondo la L. n. 89 del 2001, di volta in volta (in tal senso, tra molte, cfr. Cass. 6 aprile 2006 n. 8031, 29 marzo 2006 n. 7144, 4 novembre 2005 n. 21390).
Se non vi è alcuna norma che fissi nei tre anni decisi dal decreto impugnato la durata ragionevole del primo grado del processo amministrativo, è apodittica e illogica l’affermazione del ricorso d’una piena identità tra i termini legali ordinatori processuali, di cui alle norme evocate (L. n. 1034 del 1971, art. 21 bis e art. 415 c.p.c.) e la determinazione del limite temporale di ragionevolezza di durata del processo.
Detti termini ordinatori potevano rilevare in questa sede solo se sfocianti in una durata irragionevole del procedimento, con lesione delle regole del giusto processo, in contrasto con la Convenzione e con l’art. 111 Cost. novellato (Cass. 23 agosto 2005 n. 17110, 1 marzo 2005 n. 4298 e 5 marzo 2004 n. 4512).
La stessa previsione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, che collega la determinazione della durata ragionevole del processo alla complessità del caso, al comportamento del giudice e a quello delle parti e di ogni altra autorità chiamata a concorrere o a contribuire alla definizione di esso, esclude ogni vincolo di tali termini processuali sulla indagine del giudice adito per l’equa riparazione, che deve accertare il superamento della soglia di ragionevolezza non in base a criteri rigidi, ma in rapporto ai parametri indicati che determinano necessariamente conclusioni articolate e diverse da caso in caso (Cass. 7 aprile 2005 n. 7297).
Si è quindi esattamente ritenuta irragionevole, nella fattispecie, una durata dell’unico grado del giudizio ancora in corso eccedente i tre anni, cioè i tempi di regola ritenuti logici dalla Cedu, da due a quattro anni per il primo o unico grado, da fissarsi in base agli elementi sopra indicati.
Il ricorso, pertanto, se è fondato in ordine al computo della durata del processo da calcolare dalla data del ricorso al Tar fino a quella della domanda di equa riparazione, è da rigettare relativamente alla censura della violazione di legge in rapporto alla concreta determinazione della soglia di ragionevolezza del procedimento in tre anni per il primo grado.
2.2. L’accoglimento per quanto di ragione del ricorso in ordine alla durata del processo comporta la cassazione del decreto impugnato e il rinvio della causa alla Corte d’appello di Napoli in diversa composizione, perchè si uniformi al seguente principio di diritto:
"In tema di equa riparazione per durata irragionevole del processo amministrativo, tale durata deve computarsi dalla data del deposito del ricorso dinanzi agli organi di giustizia amministrativa fino a quella della decisione o della domanda di indennizzo in caso di processo ancora pendente, dovendosi negare che essa abbia inizio dalla presentazione della cd. istanza di prelievo di una delle parti".
L’accoglimento per quanto di ragione del primo motivo di ricorso comporta che la Corte di merito in sede di rinvio dovrà liquidare, da un canto, quanto dovuto a titolo di indennizzo conformandosi ai principi enunciati dalla Cedu, e, d’altro canto, le spese dell’intero giudizio, comprese quelle della presente fase di legittimità, con conseguente assorbimento dei residui profili del ricorso per Cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione e cassa il decreto impugnato; rinvia la causa alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione anche per le spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 24 ottobre 2006.
Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2006