Il sig. S.T. ha proposto ricorso alla Corte d’appello di Ancona a norma della L. n. 89 del 2001, art. 3. Ha riferito che nel novembre del 1984 gli era occorso un grave incidente sul lavoro dal quale, in conseguenza di una querela da lui presentata il 21 febbraio 1985, era scaturito un processo penale conclusosi poi con sentenza emessa dal Tribunale di Forlì il 3 luglio 1987. Detta sentenza aveva disposto solo la condanna generica dei responsabili al risarcimento dei danni in favore del sig. S., costituitosi parte civile, e perciò, con atto notificato il 30 novembre 1988, egli aveva intrapreso dinanzi al medesimo Tribunale di Forlì un giudizio civile volto ad ottenere il concreto ristoro di quei danni. Tale giudizio, dopo due gradi, si era concluso in data 30 maggio 1997 con sentenza emessa dalla Corte d’appello di Bologna, la quale aveva condannato, in favore dell’attore, il sig. P. O. e la Cooperativa Imballaggi ed Affini; ma il tentativo di procedere esecutivamente nei confronti di quest’ultima società era stato frustrato dal fatto che la medesima cooperativa era stata frattanto sottoposta a liquidazione coatta amministrativa. Ciò premesso, il ricorrente ha chiesto la condanna del Ministero della Giustizia ad indennizzare i danni patrimoniali e non patrimoniali da lui sofferti per la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo sopra indicato.
L’adita Corte d’appello, con decreto depositato il 17 dicembre 2001, avendo riconosciuto che la durata del giudizio in questione era stata eccessiva, ha liquidato equitativamente in favore del ricorrente la somma di L. 4.000.000, per ristoro dei soli danni non patrimoniali, escludendo invece quelli patrimoniali siccome non sorretti da adeguata prova.
Siffatto decreto, a seguito di ricorso proposto dal sig. S., è stato cassato da questa Suprema corte, con sentenza n. 15376 del 2003, e la causa è stata rinviata alla Corte d’appello di Ancona con l’indicazione del principio di diritto secondo cui l’accertamento della sussistenza e dell’entità del pregiudizio derivante dall’eccessiva durata del processo, sia sotto il profilo del danno patrimoniale che sotto quello del danno non patrimoniale, non può prescindere dalla precisa individuazione del periodo di tempo eccedente il termine ragionevole di durata del processo medesimo.
La Corte d’appello di Ancona, in veste di giudice del rinvio, con nuovo decreto emesso il 15 maggio 2004, ha condannato il Ministero della Giustizia a corrispondere al ricorrente la somma di Euro 4.000,00 a titolo di indennizzo per il danno non patrimoniale, tornando ad escludere l’esistenza di qualsiasi danno patrimoniale indennizzabile nel caso di specie. Ha altresì condannato l’amministrazione convenuta al rimborso delle spese processuali sostenute dalla controparte tanto nei due gradi di merito quanto nel giudizio di legittimità.
Avverso tale provvedimento ricorre nuovamente per Cassazione il sig. S., prospettando due motivi, il primo dei quali articolato in diversi profili di doglianza, illustrati anche da successiva memoria.
Resiste con controricorso il Ministero della Giustizia.
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il controricorrente ha eccepito preliminarmente l’inammissibilità del ricorso, assumendo che esso sarebbe stato notificato oltre i termini di legge.
L’eccezione è però priva di fondamento.
L’esame degli atti consente infatti immediatamente di rilevare che l’impugnato decreto, depositato nella cancelleria del giudice a quo in data 15 maggio 2004, è stato notificato all’amministrazione resistente il 5 luglio 2004. Il ricorso, invece, è stato notificato al Ministero della Giustizia, presso gli uffici dell’Avvocatura generale dello Stato in Roma, il giorno 11 ottobre 2004. Appare pertanto evidente che, tenuto conto della sospensione dei termini durante il periodo feriale, la notifica del ricorso è avvenuta entro la scadenza del termine di sessanta giorni previsto dal capoverso dell’art. 325 c.p.c..
2. Il primo motivo di ricorso, volto a denunciare tanto errori di diritto quanto difetti di motivazione dell’impugnato decreto, contiene – come già accennato – diversi profili di doglianza.
Conviene esaminarli separatamente.
2.1. Il primo profilo di censura riguarda la liquidazione del danno morale operata dal giudice di merito, la cui entità il ricorrente assume essere stata troppo esigua, avuto anche riguardo alla gravità dei danni alla persona per il risarcimento dei quali era stato intrapreso il giudizio della cui eccessiva durata si discute.
La doglianza così prospettata appare, però, per alcuni versi inammissibile, siccome in realtà volta a sollecitare un riesame di aspetti attinenti al merito e perciò esulanti dai limiti del giudizio di legittimità; e, per altri versi, priva di fondamento.
Posto, infatti, che la Corte territoriale, dopo aver quantificato in circa tre anni e sette mesi la durata del processo eccedente il termine ragionevole, ha applicato per tale periodo di ritardo parametri di liquidazione sostanzialmente conformi a quelli desumibili dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo, talchè lo stesso ricorrente neppur denuncia in modo puntuale e specifico una qualche violazione di tali parametri, le considerazioni svolte nel ricorso a proposito della gravità dei danni del cui risarcimento in quel processo si era discusso non appaiono in alcun modo idonee a scalfire – nè sotto il profilo della corretta applicazione di principi di diritto, nè sotto il profilo della motivazione posta a base del giudizio di fatto – l’esattezza della decisione assunta nel presente caso dal giudice dell’equa riparazione.
L’entità dei danni che hanno formato oggetto del giudizio della cui durata si discute non va contusa con l’entità del pregiudizio arrecato alla parte dall’eccessivo protrarsi di quel giudizio, per i quali alla parte medesima compete il diritto all’equa riparazione citata L. n. 89 del 2001, ex art. 2. E, se è pur vero che la dimensione della posta in gioco in quel giudizio può anche in certi casi riflettersi sulla misura dell’ansia di giustizia e del patema d’animo connessi al protrarsi nel tempo del giudizio medesimo, resta che un siffatto apprezzamento rientra nella competenza esclusiva del giudice di merito, la cui valutazione sul punto è sì censurabile in Cassazione per eventuali vizi di motivazione, ma non semplicemente riproducendo in sede di legittimità argomenti di dibattito per apprezzare la rilevanza dei quali occorrerebbe procedere ad un riesame completo del merito, in tale sede non consentito.
2.2. Il secondo profilo di censura si riferisce al punto di decisione con cui la Corte d’appello ha negato la sussistenza di un pregiudizio patrimoniale indennizzabile.
Il ricorrente aveva sostenuto – e tuttora sostiene – che l’eccessiva durata del giudizio in discorso ha di fatto vanificato la sua concreta possibilità di conseguire il risarcimento dei danni accordatogli dal giudice, giacchè, nelle more della definizione della causa e del successivo procedimento esecutivo, la società cooperativa, nei cui confronti la sentenza di condanna al risarcimento è stata pronunciata, è divenuta insolvente ed è stata sottoposta a liquidazione coatta amministrativa. Se il giudizio per il risarcimento di quei danni fosse durato meno – ha argomentato il ricorrente – la condanna sarebbe intervenuta e sarebbe stata coattivamente eseguibile in un momento anteriore all’instaurazione della suddetta procedura concorsuale, che di fatto ha precluso al creditore ogni prospettiva di soddisfacimento. Donde, appunto, il pregiudizio patrimoniale derivante dall’eccessivo protrarsi nel tempo di quella causa, da indennizzarsi a norma della citata L. n. 89 del 2001.
La Corte d’appello non ha però condiviso tale conclusione, neppure nella veste di giudice di rinvio, sulla base dei rilievi per cui: a) il ricorrente non ha fornito la prova che anche l’altro convenuto, condannato al risarcimento dei danni in solido con la cooperativa poi divenuta insolvente, fosse a propria volta insolvente; b) al ricorrente, che già aveva atteso oltre un anno prima d’intraprendere il giudizio civile per il risarcimento dei danni, dopo la conclusione di quello penale, è da addebitare un ulteriore ritardo di più di sette mesi nella notifica alla cooperativa dell’atto di precetto successivo alla definizione di detto giudizio civile; c) la sottoposizione dell’anzidetta cooperativa alla procedura di liquidazione coatta non è addebitarle all’amministrazione convenuta;
d) il credito per risarcimento dei danni è stato ammesso al passivo della procedura di liquidazione coatta della debitrice e si ignora se potrà essere in tutto o in parte soddisfatto nell’ambito di tale procedura; e) non è stata fornita prova alcuna del fatto che, se quel credito fosse risultato azionabile in epoca anteriore, la cooperativa debitrice sarebbe stata in grado di soddisfarlo.
Il ricorrente sottopone a critica tutte le riferite argomentazioni, ma per economia di discorso conviene qui soffermarsi in particolare su quella esposta sub d), cha appare da sola fornita di valenza decisiva e che – come ci si accinge a spiegare – non è adeguatamente scalfita dalla censura che ad essa nel ricorso si muove.
Il ricorrente oppone che è assolutamente notorio come i crediti chirografari (quale è stato definito dalla stessa Corte d’appello quello in questione) non trovano soddisfazione alcuna nelle procedure concorsuali, stante la presenza di numerosi crediti prededucibili e privilegiati destinati a prevalere in sede di concorso. E soggiunge che sarebbe bastato alla corte d’appello acquisire copia del fascicolo della procedura di liquidazione coatta per accertare la situazione di detta procedura concorsuale e trovare conferma della sicura incapienza del credito risarcitorio vantato da esso ricorrente.
Ma siffatta obiezione non è tale da scalzare la considerazione posta dalla Corte d’appello a base della propria decisione sul punto.
Infatti, nelle cause per equa riparazione introdotte a norma della L. n. 89 del 2001, l’onere di dimostrare il danno patrimoniale derivante dall’eccessiva durata del giudizio deve esser assolto appieno dal ricorrente e (a differenza di quel che accade per la prova del pregiudizio di carattere morale) senza il beneficio di presunzioni di ordine generale, trattandosi di fornire la prova di uno dei fatti costitutivi della sua domanda. Quando perciò, come nella specie, il pregiudizio lamentato si risolva nell’asserita impossibilità di far valere gli effetti della condanna emessa a seguito di un processo durato troppo a lungo, per essere nel frattempo il debitore divenuto insolvente, è onere del ricorrente dimostrare che tale circostanza ha appunto compromesso la soddisfazione del suo credito, quantunque questo sia stato ammesso a partecipare al concorso con gli altri creditori dell’insolvente.
E’ certamente vero che, nella più parte dei casi, le procedure concorsuali non consentono il soddisfacimento integrale dei crediti chirografari, ma tale rilievo non può risolversi in una liberazione per il ricorrente dell’anzidetto onere di prova, che investe anche i profili di concreta quantificazione della sua pretesa e che perciò impone al ricorrente medesimo di fornire al giudice dell’equa riparazione non solo la dimostrazione di circostanze da cui desumere la probabile esistenza del pregiudizio, ma anche gli elementi indispensabili per una prognosi circa l’eventuale misura percentuale (da zero a cento) del futuro soddisfacimento di detto credito in ambito concorsuale, essendo ciò indispensabile per una ragionevole quantificazione del pregiudizio che si chiede venga indennizzato. Ed è appena il caso di aggiungere che anche l’eventuale ricorso a criteri equitativi, certamente possibile in questa materia, presuppone l’impossibilità o l’estrema difficoltà in cui si trovi la parte nel fornire prove precise e puntuali dell’entità del pregiudizio da essa lamentato.
A quest’ultimo riguardo, occorre rilevare poi come l’osservazione del ricorrente, secondo cui sarebbe stato agevole acquisire nel giudizio di equa riparazione gli atti della procedura concorsuale e così accertare l’entità dell’attivo e del passivo in quella sede accertati al fine di trovare conferma dell’asserita incapienza del credito da esso ricorrente vantato nei confronti della cooperativa in liquidazione coatta, lungi dal rafforzare la proposta doglianza, ne mette in luce la fragilità: perchè di quella agevole acquisizione avrebbe appunto dovuto farsi carico il ricorrente medesimo, sul quale gravava il relativo onere di prova, al cui mancato assolvimento non si può pretendere che il giudice sopperisca d’ufficio, neppure in via equitativa. E ciò anche con specifico riferimento all’attivazione dei poteri ufficiosi che l’art. 213 c.p.c. attribuisce al giudice in ordine alla richiesta d’informazioni alla pubblica amministrazione, che del pari non possono essere adoperati in sostituzione dell’onere probatorio incombente sulla parte (cfr., ex multis, Cass. n. 287 del 2005).
2.3. Un terzo profilo di censura, in qualche misura connesso al precedente, riguarda la mancata considerazione, da parte della Corte d’appello, della richiesta formulata dal ricorrente per vedersi riconoscere il diritto al rimborso delle spese processuali sostenute nel giudizio per risarcimento dei danni di cui si è parlato; spese in ordine alle quali era intervenuta condanna dei convenuti in detto giudizio, ma che di fatto il ricorrente assume essere anch’esse risultate irrecuperabili.
Neppure questa doglianza coglie però nel segno.
E’ evidente che anche la pretesa in questione è infatti riconducibile ai medesimi presupposti dei quali si è appena discusso. La condanna al rimborso delle spese, non diversamente dalla condanna al risarcimento dei danni, costituisce l’esito del giudizio della cui eccessiva durata si tratta: intanto si potrebbe tradurre in una ragione d’equo indennizzo in quanto fosse dimostrato che il mancato rimborso di dette spese, così come il mancato soddisfacimento del credito risarcitorio, è dipeso dal ritardo nella definizione della causa. Gli argomenti in base ai quali la Corte d’appello ha rigettato la pretesa di ristoro del lamentato pregiudizio patrimoniale – almeno uno dei quali s’è già visto non essere adeguatamente scalfito dalle censure del ricorrente – appaiono perciò implicitamente riferibili anche a questo ulteriore profilo.
3. Il secondo motivo di ricorso, anch’esso volto a denunciare errori di diritto e difetti di motivazione dell’impugnato decreto, si riferisce invece alle spese del giudizio di equa riparazione, che la Corte d’appello ha posto a carico del Ministero convenuto ma che sono state liquidate in misura inferiore al richiesto e – secondo il ricorrente – non congrua.
La doglianza si appalesa però inammissibile, in quanto con essa non viene dedotta la violazione da parte del giudice dei minimi di tariffa, ma solo l’asserita incongruità della liquidazione, operata in misura inferiore a quanto esposto, ed è noto invece che, in tema di regolamento delle spese processuali, il ricorso per Cassazione è ammissibile soltanto se l’errore dedotto si risolva nella violazione di una norma giuridica, ovvero in un vizio logico di motivazione, che il ricorrente ha però l’onere d’individuare e dimostrare specificamente.
4. Il ricorso va dunque rigettato.
Sussistono nondimeno giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità, in considerazione del fatto che la specificità della vertenza può avere verosimilmente indotto nel ricorrente la soggettiva (ancorchè infondata) convinzione di un torto non adeguatamente ristorato dalla sentenza impugnata.

P.Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2006.
Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2006