Con decreto in data 19 luglio 2004, la Corte d’appello di Perugia rigettava la domanda di equa riparazione proposta da P.F. R. e D.P.G. in relazione ad un giudizio civile introdotto nel 1989 dinnanzi al Tribunale di Roma.
La Corte rilevava che il processo si era articolato su ben quattro gradi, compreso quello di rinvio, e aveva avuto una durata complessiva di 12 anni e un mese, essendosi tenuta la prima udienza il 18 gennaio 1989, ed essendo stata pubblicata la sentenza definitiva l’1 marzo 2001. La Corte riteneva inoltre che dovessero essere dedotti dalla durata complessiva i periodi fatti decorrere inutilmente dalle parti prima di proporre le varie impugnazioni e la riassunzione, complessivamente pari a 2 anni e 8 mesi, nonchè il periodo di quattro mesi in cui il processo era stato interrotto per la morte di uno dei procuratori.
Sicchè, avendo il processo avuto una durata complessiva di circa nove anni, doveva escludersi la denunciata violazione del termine di durata ragionevole del processo.
Per la cassazione di tale decreto ricorrono P.F.R. e D.P.G. sulla base di un unico complesso motivo, illustrato da memoria; resiste, con controricorso, il Ministero della giustizia.
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo, i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione del paragrafo 1 dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con L. 4 agosto 1955, n. 848, e della L. n. 89 del 2001, art. 2, del concetto in parte elastico di termine ragionevole del processo, e del concetto elastico di complessità del caso. Omessa motivazione. Motivazione insufficiente, contraddittoria ed omessa su punti decisivi della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5.
La Corte d’appello avrebbe innanzitutto errato nel prendere in considerazione, quale termine iniziale, del processo, la data della prima udienza anzichè quello della pendenza della lite, che nella specie si era verificata con la notifica dell’atto di citazione in data 15 novembre 1988 e si era protratta sino alla data del passaggio in giudicato della sentenza emessa in sede di rinvio, e cioè sino al 16 aprile 2002. Se ciò avesse fatto, la Corte territoriale avrebbe dovuto avvedersi che la durata del processo era stata di 13 anni e 5 mesi.
Sotto altro profilo, i ricorrenti lamentano che la Corte d’appello abbia ritenuto interamente addebitabili alle parti sia i periodi di tempo intercorsi tra i vari gradi di giudizio (2 anni e 8 mesi), sia il periodo della interruzione del giudizio di rinvio per morte di uno dei procuratori (4 mesi). In particolare, i ricorrenti ritengono che la Corte d’appello abbia omesso di accertare se e in quali limiti essi ricorrenti nel proporre dapprima l’atto d’appello, e quindi nel non dare impulso al processo nei successivi gradi di giudizio avessero o meno esercitato una prerogativa difensiva; la Corte avrebbe invece dovuto quanto meno detrarre il tempo necessario per l’approntamento dell’atto di appello e per la introduzione del relativo giudizio (pari ad almeno sessanta giorni). Inoltre, la Corte sarebbe incorsa in contraddittorietà della motivazione, laddove ha ritenuto che la complessità del caso giustificasse una maggiore protrazione del procedimento, e tuttavia non ha attribuito rilievo a detta complessità nella valutazione del comportamento delle parti nei periodi intercorsi tra i vari gradi del processo.
Da analoghi vizi il decreto sarebbe affetto nella parte in cui la Corte d’appello ha omesso di accertare se le altre parti del processo, nel dare impulso e ingresso alle successive fasi del giudizio, proponendo il ricorso per cassazione e poi riassumendo la causa dinnanzi al giudice di rinvio, avessero anch’esse esercitato una prerogativa difensiva. Da ultimo, il giudice del merito avrebbe omesso di esaminare gli specifici punti e le circostanze prospettate da essi ricorrenti, in particolare sotto il profilo della mancanza di interesse a proporre ricorso per cassazione o a riassumere il giudizio di rinvio, essendo essi risultati vincitori in grado di appello, sicchè il ritardo dell’introduzione del giudizio di cassazione e di quello di appello non avrebbe potuto essere certamente loro addebitato. In sostanza, posto che le parti ricevono modellati i propri interessi dallo stato effettivo della controversia, non potrebbe escludersi che il comportamento processuale più rispondente a detti interessi sia quello di non dare impulso alle impugnazioni di decisioni favorevoli ovvero di decisioni processuali con effetto sostanziale comunque favorevole alla parte stessa. Anche tali scelte costituiscono esercizio di prerogative difensive, senza che possa ritenersi che ciò comporti il rischio dell’accettazione dell’irragionevole durata. Ad essi ricorrenti, quindi, non sarebbe stato imputabile il lasso di tempo intercorso tra la pubblicazione della sentenza di appello e la proposizione del ricorso per cassazione; il tempo intercorso prima della riassunzione dinnanzi al giudice di rinvio; quello intercorso nel giudizio di rinvio tra l’evento interruttivo e la successiva riassunzione. Ed ancora, la Corte avrebbe omesso di valutare che la comunicazione dell’avvenuta pubblicazione, in data 9 novembre 1991, della sentenza del Tribunale di Roma era avvenuta il 2 dicembre 1991, con impossibilità dunque di imputare alla parte il ritardo di circa un mese; che il loro difensore aveva conseguito la spedizione di copia della sentenza da impugnare solo il 19 marzo 1992 e che anche tale lasso di tempo non poteva essere loro imputato. Ed ancora, la Corte territoriale avrebbe errato nell’ascrivere interamente al comportamento delle parti il tempo trascorso tra la interruzione e la riassunzione del giudizio di rinvio, giacchè il meccanismo processuale prevede che, una volta verificatasi l’interruzione, è il giudice a dover fissare l’udienza per la prosecuzione del giudizio.
In ogni caso, la Corte avrebbe omesso di motivare sulla deduzione difensiva secondo cui la riassunzione fu estremamente rapida, essendo avvenuto il deposito della istanza nel tempo di un mese dalla dichiarazione di interruzione.
Sotto altro profilo, i ricorrenti rilevano che la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare il comportamento dell’apparato giudiziario, con ciò violando la L. n. 89 del 2001, art. 2 e incorrendo in vizio di motivazione. In particolare, il giudice avrebbe dovuto stabilire quale doveva essere la ragionevole durata del processo in considerazione della sua complessità, poi valutare quanta parte dell’effettiva durata fosse ascrivibile al comportamento degli istanti in equa riparazione e quanta parte invece fosse riferibile all’amministrazione giudiziaria. Se ciò avesse fatto, il giudice di merito non avrebbe potuto escludere il diritto di essi ricorrenti all’equa riparazione, posto che il processo aveva avuto una durata obiettivamente irragionevole.
Ulteriormente, i ricorrenti censurano il decreto impugnato nella parte in cui si afferma la complessità del caso per gli involgimenti di natura medico-legale che ha comportato. La Corte territoriale avrebbe poi omesso di spiegare in cosa detti accertamenti consistessero e per quali ragioni avrebbero reso la causa complessa, risolvendosi dunque la motivazione in una mera clausola di stile. In particolare, poi, la Corte d’appello avrebbe omesso di spiegare perchè un accertamento che dai verbali di causa risulta essere stato effettuato in tre mesi avrebbe reso la causa complessa.
Sotto un altro profilo, i ricorrenti lamentano la insufficienza della motivazione in ordine all’affermazione secondo cui la causa avrebbe avuto una durata complessiva ottimale, stimata in nove anni, di cui quattro per il primo grado e tre per il grado d’appello, in considerazione della complessità, e di due per ogni successivo grado; la valutazione della ragionevole durata, sostengono i ricorrenti, avrebbe dovuto essere effettuata in relazione a ciascuno dei gradi di giudizio, con la conseguenza che la complessità della causa derivante dagli accertamenti medico legali, ove sussistente, avrebbe potuto rilevare solo nel grado di giudizio in cui gli stessi erano stati effettuati e non influenzare la valutazione complessiva dell’intero giudizio. Infine, rilevano i ricorrenti, la Corte d’appello avrebbe dovuto dapprima individuare la durata ragionevole per il tipo di controversia, tenuto conto della complessità del caso, e poi rapportare a questa il concreto processo che si assume essersi svolto per una durata irragionevole. Se ciò avesse fatto, il giudice del merito avrebbe verificato che la gran parte della durata della controversia era riferibile a carenze dell’apparato giudiziario.
Il ricorso è fondato nei termini che verranno precisati.
Parzialmente fondata è, innanzitutto, la censura relativa alla determinazione della durata del processo, nel senso della individuazione della data iniziale e di quella finale rilevanti ai fini della individuazione della ragionevole durata. In proposito, deve infatti rilevarsi che la Corte d’appello ha assunto, quale momento iniziale, la data della prima udienza, laddove più correttamente avrebbe dovuto assumere la data di iscrizione a ruolo della causa, e cioè il primo momento in cui l’Ufficio giudiziario ha conoscenza della pendenza della lite. Se dunque è errata la valutazione espressa in proposito dalla Corte d’appello, non può tuttavia essere condiviso l’assunto dei ricorrenti, secondo cui il momento iniziale, nel caso dei convenuti in un giudizio civile, dovrebbe essere quello della notificazione della citazione, per un duplice ordine di argomentazioni: in primo luogo, perchè prima della iscrizione a ruolo della causa l’ufficio giudiziario non è a conoscenza della pendenza della lite; in secondo luogo, perchè la diversa conclusione, che valorizzasse la data di notificazione dell’atto di citazione, porterebbe ad individuare date iniziali del giudizio differenziate in relazione alla posizione assunta in giudizio dalle parti. Del resto, va qui rilevato che, nel rito ordinario civile, il lasso di tempo che dovrebbe intercorrere tra la notificazione dell’atto di citazione e l’iscrizione a ruolo della causa, che deve essere effettuata, di norma, dall’attore all’atto della sua istituzione, è fissato in dieci giorni (artt. 165 e 168 cod. proc. civ.), sicchè la questione perde in pratica rilievo ai fini della determinazione della durata del processo per gli effetti della L. n. 89 del 2001.
Quanto all’assunto dei ricorrenti, secondo cui ai fini della durata complessiva del giudizio dovrebbe tenersi conto anche del tempo intercorso tra il deposito della sentenza e il suo passaggio in giudicato, occorre rilevare che è proprio quest’ultimo momento quello che rileva come termine del giudizio. Infatti, Che al momento del passaggio in giudicato della sentenza debba farsi riferimento, nel giudizio di cognizione, per individuare la durata complessiva del giudizio presupposto, lo si desume dalla disposizione di cui alla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4, il quale individua quale dies a quo del termine per la proposizione della domanda di equa riparazione il momento in cui la decisione che conclude il procedimento è "divenuta definitiva". Espressione, quest’ultima, che secondo la giurisprudenza di questa Corte, deve essere intesa nel senso di insuscettibilità della decisione di essere revocata, modificata o riformata dal medesimo giudice che la ha emessa o da altro giudice chiamato a provvedere in grado successivo (Cass., n. 17264 del 2002); in sostanza, per il giudizio di cognizione, il momento del passaggio in giudicato della sentenza (Cass., n. 21723 del 2005).
Se dunque, il decreto impugnato è, sul punto, non conforme a diritto, ritiene il Collegio che ai fini della ragionevole durata del processo nella fase successiva al deposito della sentenza, occorra raccordare il suindicato principio con le norme che regolano le impugnazioni e in particolare con l’art. 326 cod. proc. civ., il quale attribuisce alle parti la facoltà di sollecitare la controparte alla impugnazione mediante la notificazione della sentenza. Il che comporta che, fermo il momento finale della durata del processo alla data del passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento, il giudice dell’equa riparazione dovrà valutare il comportamento delle parti successivamente al deposito della sentenza e apprezzare di volta in volta e caso per caso quale sia stato il comportamento della parte istante rispetto alle facoltà offerte dall’ordinamento.
Nel caso di specie, posto che la sentenza emessa in sede di rinvio era, come ammesso dai ricorrenti, a loro favorevole e che non era quindi ravvisabile un loro interesse alla impugnazione, non può essere condiviso l’assunto dei medesimi ricorrenti secondo cui l’intero periodo necessario per il passaggio in giudicato di quella sentenza avrebbe dovuto essere ritenuto utile ai fini della valutazione complessiva della durata ragionevole del processo, non essendosi essi avvalsi della suindicata facoltà sollecitatoria.
Il giudice del rinvio dovrà quindi procedere a nuova determinazione della durata del processo presupposto, assumendo come data finale dello stesso non già quella del deposito della sentenza, ma quello del passaggio in giudicato della sentenza che lo ha definito e valutando, quanto a tale ultimo periodo, il comportamento processuale dei ricorrenti.
Fondata è anche la seconda censura, con la quale si deduce che la Corte d’appello avrebbe errato ad imputare alle parti tutto il lasso di tempo intercorso tra un grado e l’altro di giudizio, prescindendo da ogni valutazione in ordine sia al momento di effettiva conoscenza della sentenza per verificare la tempestività della impugnazione rispetto a detto momento, sia ai tempi necessari per la predisposizione dell’atto di impugnazione. La Corte d’appello, infatti, ha detratto dal termine complessivo della durata del procedimento, ritenendolo imputabile alle parti, un periodo di due anni e otto mesi che sarebbe stato fatto decorrere dalle parti inutilmente prima di proporre le varie impugnazioni e l’atto di riassunzione a seguito di interruzione del giudizio.
Al contrario, deve qui affermarsi che, in presenza di una specifica deduzione di parte in tal senso, il giudice dell’equa riparazione ha l’onere di verificare i tempi di comunicazione della sentenza alle parti, dovendosi escludere che possa in alcun modo essere imputabile alle parti il lasso di tempo occorrente per la comunicazione della sentenza da parte dell’ufficio dopo il deposito della stessa. Ed ancora, deve affermarsi che non può essere addebitato alle parti tutto il lasso di tempo intercorso tra detto momento e la proposizione della impugnazione, giacchè una simile operazione si risolverebbe nell’addebitare alla parte il tempo occorrente per l’esercizio del diritto di difesa. E’ quindi compito del giudice dell’equa riparazione verificare di volta in volta, tenuto conto delle circostanze delle singole vicende processuali, quale sia in concreto stato il comportamento della parte che chiede l’equa riparazione tra un grado e l’altro, e scomputare dalla durata complessiva del giudizio solo il lasso di tempo non riconducibile, secondo il suo prudente apprezzamento, all’esercizio del diritto di difesa.
Non può, invece, essere condiviso l’assunto dei ricorrenti per la parte in cui essi pretendono che le proprie scelte processuali in relazione all’interesse sostanziale perseguito, non siano oggetto di valutazione e che non possano esserne loro addebitati gli effetti che ne conseguono e che incidono sulla durata del processo. Ove infatti una parte, per perseguire un proprio interesse, non si avvalga di una facoltà, come ad esempio quella della notificazione della sentenza a sè favorevole a fini sollecitatori, e lasci quindi decorrere tutto intero il termine lungo per la proposizione dell’impugnazione, non può infatti pretendere che il termine decorso venga tutto intero addebitato alla organizzazione giudiziaria, dovendo al contrario, come detto, il giudice dell’equa riparazione apprezzare in concreto il comportamento della parte stessa anche in relazione al mancato esercizio di detta facoltà. Del resto, se si considera che, secondo gli standards della Corte europea dei diritti dell’uomo, come dagli stessi ricorrenti ammesso, la durata ragionevole delle fasi di giudizio successive all’appello è di norma pari ad un anno, l’assunto dei ricorrenti porterebbe a ritenere che in nessun caso un processo di cassazione potrebbe, nell’ordinamento processuale italiano, svolgersi entro un termine ragionevole, essendo nella disponibilità delle parti lasciare che per la instaurazione del giudizio trascorra un periodo addirittura superiore a quello previsto per la sua definizione. Ne consegue che, escluso che possa imputarsi alla parte tutto il lasso di tempo intercorso tra un grado di giudizio e l’altro, spetta al giudice dell’equa riparazione apprezzare nelle singole situazioni concrete quanta parte del tempo occorso per la instaurazione del giudizio di impugnazione sia riferibile ad esercizio del diritto di difesa, come tale non addebitabile alla parte, e quanta, invece, alla scelta processuale delle parti di non utilizzare la facoltà sollecitatoria di cui si è detto, con la conseguenza che il relativo lasso temporale andrà riferito al comportamento processuale della parte.
Fondata è anche la censura relativa alla imputazione alle parti ricorrenti dell’intero lasso di tempo occorso per la riassunzione del processo a seguito della interruzione per morte del procuratore di una delle parti. In proposito, correttamente i ricorrenti rilevano che l’atto di riassunzione prevede il concorso della parte, che deve depositare un ricorso, e del giudice, che deve fissare con decreto l’udienza di comparizione delle parti e il termine per la notificazione del ricorso e del decreto. Addebitare alle parti, scomputandolo interamente dalla durata del processo, anche il tempo intercorso tra il deposito del ricorso in riassunzione e l’udienza di comparizione, come ha fatto il giudice del merito, vuol dire non tenere conto di tale sequenza procedimentale e del fatto che la fissazione dell’udienza è attività, propria del giudice, alla quale le parti rimangono del tutto estranee e della quale esse non possono quindi essere ritenute responsabili. Alla parte potrebbe riferirsi la mancata osservanza del termine imposto dal giudice per la notificazione ma giammai la determinazione in ordine alla fissazione della data dell’udienza.
Il decreto impugnato, che ha invece addebitato alla parte il periodo di quattro mesi intercorsi tra la dichiarazione di interruzione del processo e la sua riassunzione, è quindi affetto dai denunciati vizi.
Fondata è infine anche la censura concernente l’apprezzamento sulla complessità del caso, apprezzamento dal quale la Corte d’appello ha fatto discendere la possibilità di ritenere ragionevole la durata di quattro anni (anzichè tre) per il giudizio di primo grado, di tre anni (in luogo di due) del giudizio di appello e di due anni (invece di uno) per ciascuno dei gradi successivi.
La motivazione della Corte d’appello si risolve nella affermazione secondo cui "il procedimento era di natura complessa per gli involgimenti di natura medico-legale che ha comportato". Si tratta di motivazione assolutamente inidonea a giustificare la grave conseguenza che la Corte d’appello ne ha tratto, elevando di quattro anni la durata ragionevole complessiva del giudizio presupposto.
Essa, infatti, non spiega in alcun modo nè quale tipo di controversia fosse quella in cui quegli accertamenti furono necessari, nè quale ne fu il loro oggetto, nè infine in quale modo detti accertamenti abbiano inciso sulla durata del giudizio presupposto. Ma soprattutto, pur volendosi ammettere che accertamenti medici fossero necessari, che essi fossero complessi e che abbiano quindi determinato una complessità del giudizio – circostanze tutte delle quali la motivazione svolta dalla Corte d’appello non costituisce utile dimostrazione -, è evidente il vizio del decreto impugnato nella parte in cui esso ha esteso il giudizio di complessità a tutto il giudizio, senza accertare se anche nei successivi gradi quegli accertamenti siano stati svolti ovvero se in detti gradi ulteriori di giudizio la materia del contendere non fosse limitata piuttosto alla valutazione di accertamenti medico-legali effettuati in primo grado. In sostanza, il mero riferimento agli "involgimenti di natura medico-legale" per affermare la complessità di un giudizio risulta una motivazione del tutto insufficiente perchè inidonea a rendere ragione della decisione assunta.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto nei termini indicati;
il decreto impugnato deve conseguentemente essere cassato con rinvio alla Corte d’appello di Perugia, la quale, in diversa composizione, procederà a nuovo esame della domanda di equa riparazione proposta di ricorrenti alla luce dei principi indicati, provvedendo altresì ad emendare i rilevati vizi motivazionali.
Al giudice del rinvio è demandato altresì il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa il decreto impugnato e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 ottobre 2006.
Depositato in Cancelleria il 7 marzo 2007