S.G., con ricorso ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, chiese la condanna della Presidenza del Consiglio dei ministri a un’equa riparazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti a causa della durata, ritenuta eccessiva, di un processo iniziato davanti al T.A.R. del Lazio nel giugno 1997, per ottenere la rivalutazione monetaria e gli interessi relativamente a somme in precedenza percette in virtù della L. n. 312 del 1980, e definito con sentenza del 24 maggio 2002.
Resistette l’amministrazione convenuta e l’adita Corte d’appello di Roma, con il decreto indicato in epigrafe, respinse il ricorso osservando che: il 1 gennaio 1999, quando non era ancora maturato un periodo di tempo tale da far ritenere non fisiologica la durata del giudizio, era entrata in vigore la L. n. 448 del 1998, che all’art. 26, commi 4 e 5, espressamente vietò la corresponsione degli accessori richiesti; con ordinanza del 15 giugno 1999, il T.A.R. aveva sollevato questione di legittimità costituzionale di detta legge, che la Corte costituzionale, con sentenza n. 136/2001, dichiarò incostituzionale; lo svolgimento del giudizio successivo alla pronunzia predetta era stato caratterizzato da notevole celerità e comunque non superò, pur sommando il periodo precedente la rimessione della causa al giudice delle leggi, il termine di ragionevole durata; anche a condividere in astratto il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la durata del procedimento innanzi alla corte delle leggi si somma a quella della controversia in cui è stato sollevato l’incidente di costituzionalità, era da escludere la indennizzabilità del pregiudizio lamentato giacchè il patema d’animo relativo all’esito del giudizio di merito non sarebbe derivato tanto dalla lunghezza di detta causa ma, piuttosto, dalla sopravvenuta e perdurante vigenza di una legge che impediva il cumulo richiesto e che rese necessaria la promozione di diverso giudizio; ciò comportava che i termini, congrui rispetto al procedimento di merito, dovevano essere, se non proporzionalmente, quanto meno sostanzialmente aumentati dei tempi occorsi per il giudizio incidentale; in quest’ottica, la durata dell’intero procedimento era stata ragionevole; da tali conclusioni rimaneva assorbita ogni questione in merito alla esistenza in concreto del turbamento psichico, non senza considerare, oltre alla assoluta genericità della relativa deduzione, che, data la scarsa rilevanza del credito dedotto, la presenza di numerosi ricorrenti con posizioni identiche e il succedersi di norme nel corso del processo, si sarebbe dovuto fornire la prova – sia pure inferenziale o per presunzioni – del pregiudizio subito, avente natura non di danno evento ma di danno conseguenza.
Per la cassazione di tale decreto ricorre la S. in base a un unico articolato motivo, illustrato anche da memoria. La Presidenza del Consiglio resiste con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l’unico articolato motivo la ricorrente, denunziando violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, degli artt. 6, 13 e 41 CEDU e "dei principi generali in tema di controversie del lavoro", nonchè vizi di motivazione, lamenta che la Corte romana: a) non ha spiegato, alla luce dei parametri di cui alla L. n. 89 del 2001, perchè ha ritenuto fisiologico sia il tempo (diciotto mesi) trascorso dal deposito del ricorso introduttivo dal giudizio amministrativo all’entrata in vigore della L. n. 448 del 1999, sia quello, pari a ulteriori dieci mesi, intercorso dalla proposizione dell’istanza di riassunzione del procedimento (luglio 2001) – dopo la sentenza della Corte costituzionale – alla pubblicazione della decisione del Giudice adito, nè perchè, sommati i due periodi, la durata del processo sarebbe da ritenersi ragionevole, pur trattandosi di controversia di stretto diritto non implicante alcun particolare approfondimento istruttorie; b) in contrasto con precedente di legittimità, non ha computato integralmente, ai fini del calcolo della durata complessiva del procedimento, il tempo impiegato per la risoluzione dell’incidente di costituzionalità, la cui decisione, pur non riguardando direttamente il merito della controversia, concerne una questione che rispetto alla definizione assume carattere pregiudiziale; c) non ha spiegato perchè e in quale misura i tempi del giudizio dovevano essere, se non proporzionalmente, quanto meno sostanzialmente aumentati in ragione dell’incidente di costituzionalità; d) non ha considerato, nel valutarne la durata, che la causa poteva farsi rientrare tra le controversie di lavoro, le quali, secondo quanto ripetutamente affermato dalla Corte EDU, richiedono una diligenza particolare con conseguente, consistente riduzione del termine ragionevole del processo; e) ha ritenuto non provati il turbamento psichico e il correlativo danno non patrimoniale benchè fosse stato evidenziato che la controversia coinvolgeva diritti primari e essenziali e che, per tali fattispecie, la Corte sopranazionale ha usato parametri diversi rispetto ai giudizi ordinari sotto il profilo sia della determinazione dei termini di durata sia della quantificazione del pregiudizio morale subito dall’interessato; f) ha fatto riferimento, per negare il pregiudizio morale, a criteri irrilevanti, anche alla luce del recente intervento delle Sezioni Unite di questa Corte, quali il numero dei ricorrenti, l’esiguità del credito e il succedersi di norme nel corso del processo.
Il ricorso (in tutto analogo a numerosi altri già decisi da questa Corte in fattispecie parimenti analoghe) è fondato nei sensi appresso precisati.
Questa Corte (sent. n. 16882/2002) ha già affermato il principio, condiviso dal Collegio, che ai fini del giudizio di ragionevolezza della durata complessiva del processo richiesto dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, deve essere computato anche il tempo impiegato per la risoluzione dell’incidente di costituzionalità, dal momento che la relativa decisione, pur non riguardando direttamente il merito della controversia, concerne una questione che, rispetto alla sua definizione, assume carattere pregiudiziale.
D’altra parte, contrariamente a quanto opina la Corte del merito, il giudizio di legittimità costituzionale non rileva di per sè, o in via autonoma, ma in quanto accede al procedimento nel quale sia insorta la questione ritenuta dal giudice a quo rilevante e non manifestamente infondata. Come è noto, nel nostro ordinamento la pregiudiziale di costituzionalità non può essere sollevata se non in un giudizio già in corso, che viene sospeso nell’attesa della decisione della Corte. La L. 11 marzo 1953, 87, art. 23, dispone, infatti, che "nel corso di un giudizio dinanzi a un’autorità giurisdizionale una delle parti o il pubblico ministero" (comma 1) ovvero la stessa autorità giurisdizionale, d’ufficio (comma 3) "possono sollevare questione di legittimità costituzionale mediante apposita istanza" e "l’autorità giurisdizionale, qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale o non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata, emette ordinanza" con la quale "dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso".
Ciò significa che il procedimento dinanzi ai giudici costituzionali, più che costituire un nuovo e distinto processo, rappresenta la prosecuzione in una nuova sede del procedimento originario, la cui sospensione non a caso viene definita in dottrina "impropria". E se è il procedimento originario a continuare dinanzi alla Consulta, appare evidente come il superamento del termine ragionevole di durata debba essere riferito al processo nel quale sia scaturita la questione di costituzionalità, con la conseguenza, tra l’altro, che il ricorso per l’equa riparazione andrà notificato contro soggetti differenti a seconda della natura del processo a quo.
Le enunciate conclusioni si appalesano, peraltro, in linea con la giurisprudenza della Corte EDU, le cui sentenze in tema di interpretazione dall’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ratificata in Italia con L. n. 848 del 1955) costituiscono la più importante guida ermeneutica per il giudice italiano.
Per vero, i giudici di Strasburgo, con riferimento alla Corte costituzionale tedesca, non hanno avuto dubbi nel ritenere che anche la durata del giudizio incidentale di costituzionalità debba essere computata nel termine oggetto della valutazione di ragionevolezza (in tal senso, vedi Corte europea, 29 maggio 1986, Deumeland c. Germania Federale, par. 77; Corte europea, 29 marzo 1989, Bock c. Germania Federale, par. 37; Corte europea, 31 maggio 2001, Metzger c. Germania Federale, par. 34).
In definitiva, nel computo della durata deve dunque tenersi conto del tempo dei procedimenti celebrati dinanzi ai giudici della Consulta quando abbiano a oggetto il sindacato di legittimità costituzionale di una norma da applicare nel procedimento dove è insorto il dubbio circa la sua conformità alla legge fondamentale dello Stato.
Il decreto impugnato è, quindi, errato là dove ha ritenuto di detrarre perentoriamente dalla durata del processo svoltosi davanti al T.A.R. del Lazio il periodo di sospensione connesso alla risoluzione della questione di costituzionalità. E lo è anche nella parte in cui ha affermato che, anche a condividere il principio enunciato da questa Corte, l’indennizzabilità sarebbe esclusa essendo il patema d’animo circa l’esito del giudizio riconducibile alla legge, in seguito dichiarata incostituzionale, che si frapponeva all’accoglimento della pretesa azionata.
Invero, nell’accertare la durata del procedimento al fine di verificarne la ragionevolezza, il giudice deve considerare anche il ritardo conseguente alla (doverosa) applicazione di atti legislativi o, comunque, a contenuto normativo. Siffatto accertamento non è diretto a sindacare tali atti, e le scelte ad essi sottese (e men che mai a disapplicarli), bensì a controllare se la durata del singolo procedimento (come conformato in base a quegli atti o da questi condizionato) si riveli compatibile con i principi della L. n. 89 del 2001, segnatamente con il precetto di cui all’art. 2 e, tramite questo, con l’omologo precetto sancito dall’art. 6, par. 1, della Convenzione. E’ erronea, quindi, nella sua assolutezza, l’affermazione del provvedimento impugnato secondo cui nella specie si deve escludere il superamento del termine ragionevole, in ragione dell’incidenza, sulla durata del giudizio presupposto, riferibile alla L. n. 384 del 1999, che ostacolava l’accoglimento della domanda.
D’altronde, tra i parametri che concorrono alla determinazione della durata ragionevole un ruolo importante riveste il comportamento delle autorità. Al riguardo, la giurisprudenza della Corte europea è costante nell’affermare che la Convenzione impegna gli Stati contraenti a organizzare le proprie giurisdizioni in modo da consentire l’adempimento delle prescrizioni dell’art. 6 CEDU, comma 1, in particolare il rispetto della garanzia della durata ragionevole del processo. Non sono mancate, tuttavia, decisioni in cui si specifica che lo Stato è "responsabile dell’insieme dei suoi servizi", e non solo dei suoi organi giudiziari (Corte europea 26 ottobre 1988, Martins Moreira c. Portogallo, par. 60; Corte europea 23 ottobre 1990, Moreira de Azevedo c. Portogallo, par. 73); è dunque indifferente che il ritardo sia causato da organi del potere giudiziario, legislativo (vedi, con riferimento al caso, per certi versi simile a quello di specie, del ritardo nel deliberare l’autorizzazione a procedere, Corte europea 10 dicembre 1982, Foti e altri, c. Italia, par. 63) o esecutivo, poichè sul piano internazionale "è in ogni caso la responsabilità dello Stato che viene in gioco" (così Corte europea 28 marzo 1990, B. c. Austria, par. 54, la quale sottolinea che "non spetta alla Corte ricercare a quale autorità attribuire la responsabilità dei ritardi").
Da quanto precede non deriva, tuttavia, quale conseguenza automatica, che l’arco di tempo (cinque anni) in cui si è protratto il processo amministrativo, ivi inclusa la fase svolta davanti al giudice delle leggi, debba di per sè considerarsi eccessivo. Questa Corte ritiene che il periodo di sospensione determinato dalla risoluzione della questione di costituzionalità vada considerato da parte del giudice dell’equo indennizzo nell’ambito della valutazione della complessità del caso di cui alla L. 89 del 2001, art. 2, comma 2. Per come è noto, relativamente al predetto criterio di contestualizzazione, di inconfutabile se non di preminente importanza sia in proprio che come chiave di lettura di comportamenti che influiscono sulla durata del processo, occorre fare riferimento a qualunque elemento, in fatto o di diritto, che abbia oggettivamente inciso sulla durata del processo. In tale prospettiva, nel valutare la ragionevolezza della durata alla luce dell’indicato criterio, è lecito tenere conto anche del fatto che nel corso del processo presupposto, verosimilmente destinato a rapida soluzione, sia stata emanata una legge comportante il rigetto del diritto dedotto in lite, le cui previsioni siano però in contrasto con precetti costituzionali, poichè irragionevoli e discriminatorie, e quindi tali da dover essere espunte dall’ordinamento in seguito a giudizio di costituzionalità.
E’ erroneo il decreto anche laddove, con argomentazione di rincalzo ma costituente un’autonoma ratio decidendi, subordina il riconoscimento del danno non patrimoniale alla prova – di cui sarebbe onerata la parte ricorrente – della sua effettiva e concreta esistenza ed esclude la possibilità di presumere un disagio psichico legato al protrarsi del processo nel caso di modesta consistenza economica della controversia o di domanda proposta assieme a numerosi altri soggetti.
Con le sentenze nn. 1338, 1339, 1440 del 2004, le Sezioni Unite di questa Corte hanno affrontato questioni di massima di particolare importanza in punto di applicazione della L. n. 89 del 2001, aventi a oggetto, tra l’altro, le condizioni per l’indennizzo del danno non patrimoniale in conseguenza della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo.
Le Sezioni Unite hanno affermato il principio di diritto secondo cui in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorchè non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: sicchè, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa – ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione – il giudice, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata L. n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente. Siffatta lettura della norma di legge interna – oltre che ricavabile dalla ratio giustificativa collegata alla sua introduzione, particolarmente emergente dai lavori preparatori (dove è sottolineata la finalità di apprestare in favore della vittima della violazione un rimedio giurisdizionale interno effettivo, capace di porre rimedio alle conseguenze della violazione stessa, analogamente alla tutela offerta nel quadro della istanza internazionale) – è imposta dall’esigenza di adottare un’interpretazione conforme alla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo (alla stregua della quale il danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole del processo, una volta che sia stata dimostrata detta violazione dell’art. 6 della Convenzione, viene normalmente liquidato alla vittima della violazione, senza bisogno cha la sua sussistenza sia provata, sia pure in via presuntiva), così evitandosi i dubbi di contrasto con la Costituzione italiana, la quale, con la specifica enunciazione contenuta nell’art. 111, tutela il bene della ragionevole durata del processo come diritto della persona, sulla scia di quanto previsto dalla norma convenzionale.
Le Sezioni Unite hanno superato l’orientamento, formatosi nella giurisprudenza di questa Sezione della Corte, che, oltre ad escludere (così come ora le Sezioni Unite) qualsiasi automatismo tra ritardo nella definizione del processo ed equa riparazione, richiedeva che anche il danno non patrimoniale dovesse essere dimostrato dalla parte legittimata a chiederne il ristoro, ancorchè tale prova potesse essere in concreto agevolata dal ricorso a presunzioni e a ragionamenti inferenziali (in questo senso, tra le altre, sentt. nn. 11987/2002, 15443/2002, 18130/2002, 5129/2003, 5131/2003, 12935/2003). Secondo le Sezioni Unite, invece, la sofferenza di un danno non patrimoniale per la lungaggine del processo, avendo natura meramente psicologica, non è suscettibile di ricevere una obiettiva dimostrazione, onde l’interprete deve prendere atto che esso si verifica nella normalità dei casi, secondo l’id quod prelimque accidit. Può, allora, parlarsi, a proposito del danno non patrimoniale derivante dalla violazione dell’art. 6 della CEDU (nel profilo considerato dalla L. n. 89 del 2001), non di danno insito nella violazione (danno in re ipsa), ma di prova (del danno) di regola in re ipsa, nel senso che, provata la sussistenza della violazione, ciò comporta, nella normalità dei casi, anche la prova che essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno della parte processuale. Ma tale consequenzialità, proprio perchè normale e non necessaria o automatica, può trovare, nel singolo caso concreto, una positiva smentita qualora risultino circostanze che dimostrino che quelle conseguenze non si sono verificate. Più specificamente, con la sentenza n. 1339/2004, le Sezioni Unite hanno poi precisato che la indennizzabilità del danno non patrimoniale non può essere esclusa sul rilievo dell’esiguità della posta in gioco nel processo presupposto, dato che l’ansia e il patema d’animo conseguenti alla pendenza del processo si verificano normalmente anche nei giudizi in cui sia esiguo il valore degli interessi dibattuti, onde tale aspetto può avere un effetto riduttivo dell’entità del risarcimento, ma non totalmente esclusivo dello stesso.
Ai principi espressi da tali arresti sè è in seguito conformata la giurisprudenza di questa Sezione della Corte (vedi, ad esempio, le sentenze nn. 15093 e 17405 del 2004).
Ne diverge invece il decreto impugnato, avendo la Corte di Appello, da un lato, escluso aprioristicamente la possibilità di presumere il patimento di un danno morale a causa del superamento del termine di ragionevole durata del processo; e, dall’altro, introdotto nella formazione del convincimento circostanze irrilevanti ai fini in discorso quali la scarsa entità della posta in gioco e la presentazione della domanda da parte di numerosi litisconsorti. Al contrario, alla stregua dei principi enunciati dalle Sezioni Unite, il danno morale è presunto, e per vincere detta presunzione devono essere dedotte e provate circostanze specifiche dalle quali possa positivamente desumersi che l’irragionevole protrarsi del giudizio non abbia prodotto al resistente il lamentato danno non patrimoniale.
Circostanze che, in ogni caso, non possono essere ravvisate nel modesto valore della controversia e/o nella natura collettiva del ricorso introduttivo del giudizio. Elementi siffatti, semmai, potendo essere indici di un minore impatto psichico e quindi autorizzare una deroga in peius ai parametri di indennizzo elaborati per analoghe controversie dalla Corte europea.
Il ricorso va, dunque, accolto con la conseguente cassazione, nei punti che ne formano oggetto, dell’impugnato decreto e il rinvio della causa ad altro giudice, il quale procederà, con ampia libertà di apprezzamento, a nuovo esame della controversia per stabilire, attenendosi agli enunciati principi, se il termine in cui si è protratto il processo de quo sia irragionevole, tenuto conto dei criteri di contestualizzazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, e, in particolare, della complessità del caso; e, nell’affermativa, se nella fattispecie sussistono situazioni particolari atte a superare la presunzione che dal processo eventualmente ritenuto eccedente la durata ragionevole sia derivato per la ricorrente un danno non patrimoniale. Dovrà ovviamente il giudice di rinvio – nella pienezza dei suoi poteri discrezionali – rivalutare compiutamente l’articolato complesso delle risultanze processuali, alla stregua di corretti principi giuridici e metodologici e con motivazione congrua e logica, libero di pervenire alle medesime conclusioni cui è pervenuto il decreto annullato, ma attraverso un adeguato percorso logico-giuridico.
Allo stesso giudice, designato nella Corte d’appello di Roma in diversa composizione, si ritiene opportuno rimettere anche la liquidazione delle spese di questo grado del giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa l’impugnato decreto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 12 dicembre 2006.
Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2007