Con decreto in data 3 luglio 2004, la Corte d’appello di Brescia accoglieva la domanda con la quale B.G. lamentava la irragionevole durata di un procedimento penale svoltosi nei suoi confronti e condannava il Ministero della giustizia al pagamento, in suo favore, della somma di Euro 6.800,00 a titolo di danno non patrimoniale oltre alle spese processuali.
La Corte rilevava che il procedimento, avente ad oggetto le imputazioni per i reati di peculato e falso ideologico, aveva avuto una durata di circa nove anni, correttamente individuata dall’istante assumendo quale dies a quo del procedimento la data della richiesta di rinvio a giudizio (22 giugno 1994) e quale termine finale la data della pronuncia della sentenza definitiva di assoluzione (giugno 2003). Rilevava quindi che la complessità del caso era dimostrata dal numero degli imputati (66), dalle problematiche imposte dalle diverse scelte processuali dei vari imputati, dal numero delle udienze dibattimentali necessaria per l’assunzione dei testi e dal numero dei testi, dalla sospensione del processo per un incidente di costituzionalità, mentre il comportamento del B. non aveva inciso in alcun modo sulla durata del processo. Riteneva, poi, che avessero inciso sulla durata complessiva del processo i rinvii per mutata composizione del collegio giudicante o per concomitante celebrazione di processi con detenuti e per la variazione del sistema di assegnazione degli affari penali e che, pertanto, la durata del processo sia stata eccedente quella ragionevole per quattro anni.
La Corte escludeva poi che il danno patrimoniale richiesto dal ricorrente fosse causalmente connesso alla durata del processo, in quanto la sospensione cautelare dal servizio con riduzione dello stipendio era una conseguenza del processo in sé e non della sua durata, tanto più che la perdita patrimoniale avrebbe dovuto essere reintegrata dalla stessa amministrazione al momento della pronuncia di assoluzione o comunque decorso il termine cinque anni senza che il procedimento fosse giunto a conclusione, onde il lamentato danno patrimoniale doveva considerarsi frutto della scelta del B. di chiedere il pensionamento anticipato alla data del 31 dicembre 1995, dopo un anno dalla sospensione cautelare, e non della durata del processo. Escludeva altresì la sussistenza del danno patrimoniale a titolo di danno erariale, non essendovi prova che la sentenza, peraltro non definitiva, della Corte dei conti si fondasse soltanto sui fatti contestati in sede penale, trattandosi comunque di un danno da processo e non da eccessiva durata del processo, stante l’autonomia delle due giurisdizioni. Ed ancora non riconosceva il danno per mancato guadagno, non essendovi in concreto alcuna prova di tale voce di danno, dal momento che lo stesso B. aveva ammesso che era facoltà dell’amministrazione affidare incarichi ai propri ex dipendenti decorsi cinque anni dalla cessazione del rapporto di lavoro.
Quanto al danno non patrimoniale, articolato dal ricorrente in una pluralità di voci, la Corte d’appello rilevava che la L. n. 39 del 2001, art. 2, sancisce il diritto ad un’equa riparazione, da liquidarsi ai sensi dell’art. 2056 cod. civ., e quindi unicamente sotto il profilo del danno biologico e del danno morale ex art. 2059 cod. civ., che accorpa in sé tutte le voci di danno non patrimoniale, dovendosi comunque ricordare che il danno azionato era quello da eccessiva durata e non anche il danno cagionato da un’ingiusta accusa o dalla divulgazione della notitia criminis. Escluso quindi che potesse essere liquidato il danno biologico, non potendosi allo stato della scienza medica affermare l’esistenza di un nesso causale di per sé efficiente tra le patologie lamentate dal ricorrente (gastrite e colite) e l’ansia derivata dal protrarsi del processo, la Corte stimava equo liquidare a titolo di danno non patrimoniale la somma di Euro 1.700,00 per anno di ritardo e così complessivamente, per quattro anni, la somma di Euro 6.800,00.
Per la cassazione di tale decreto ricorre B.G. sulla base di quattro motivi; resiste, con controricorso, il Ministero della giustizia.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, il ricorrente deduce il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione e di motivazione apparente, in relazione al mancato riconoscimento del danno patrimoniale ricevuto da esso ricorrente per essersi dovuto difendere nel giudizio per danno erariale dinnanzi alla Corte dei conti. Invero, nel giudizio di merito era stata fornita la prova documentale, non valutata dalla Corte d’appello, dalla quale emergeva che la richiesta avanzata dalla Procura regionale della Corte dei conti si fondava solo sulle dichiarazioni che in sede di indagini preliminari erano state rese da una persona. La Corte d’appello aveva quindi a sua disposizione tutti i mezzi per rilevare che i fatti contestati in sede penale erano gli stessi che avevano fondato la sentenza della Corte dei conti, che lo aveva condannato al pagamento della somma di circa 54 milioni di Lire. La mancata valutazione della documentazione prodotta rende dunque la motivazione apparente, risultando contraddittoria la motivazione con la quale è stato escluso il danno imputando il danno sofferto al processo e non alla sua durata. In ciò il ricorrente ravvisa un salto logico, in quanto la Corte non avrebbe in alcun modo considerato che se il procedimento penale si fosse concluso in termini ragionevoli il procedimento dinnanzi alla Corte dei conti non sarebbe stato neanche incardinato, ed esso ricorrente non avrebbe dovuto sostenere le spese legali il cui pagamento era stato documentato nel giudizio di merito.
Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, sotto il profilo del mancato riconoscimento del danno esistenziale, biologico e all’immagine, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. La Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere che il danno non patrimoniale indennizzabile L. n. 89 del 2001, ex art. 2, sia, in sostanza, il solo danno morale, che accorperebbe tutte le voci di danno non patrimoniale. Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, ogni volta che venga leso un valore avente dignità costituzionale, non osta alla risarcibilità del danno non patrimoniale l’assenza di una norma che preveda espressamente tale figura di danno come invece richiede la lettera dell’art. 2059 cod. civ. La medesima Corte di cassazione, inoltre, ha riconosciuto il danno esistenziale, non come sottoclasse del danno biologico, ma come voce di danno autonoma e tutelabile in virtù del collegamento tra gli artt. 2, 29 e 30 Cost. e l’art. 2059 cod. civ. Nel caso di specie, dinnanzi alla Corte d’appello era stato chiesto il riconoscimento del danno esistenziale e del danno all’immagine in quanto, a causa della lunghezza del processo, esso ricorrente aveva ridotto notevolmente l’attività lavorativa, aveva rinunciato alla possibilità di svolgere una vita normale e aveva altresì ridimensionato la sua vita sociale. E tali voci avrebbero dovuto formare oggetto di un autonomo riconoscimento, ancorché in via equitativa.
Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta il vizio di motivazione con riferimento al mancato riconoscimento del danno biologico. Infatti, l’argomentazione del giudice di merito, secondo cui, allo stato attuale della scienza medica, non può affermarsi l’esistenza di un nesso causale di per sé sufficiente tra le patologie lamentate da esso ricor-rente, gastrite e colite, e l’ansia derivata dal protrarsi del processo, sarebbe non solo generica ma smentita dalla realtà probatoria in atti, giacché era stato prodotto un certificato attestante che nel periodo del procedimento penale egli aveva cominciato ad avvertir disturbi al colon e problemi di gastrite, di origine psicosomatica. Inoltre, la Corte d’appello sarebbe incorsa in contraddizione, laddove ha riconosciuto come danno non patrimoniale quello derivato dall’ansia e dallo stress conseguenti al decorso del tempo senza riuscire ad ottenere una pronuncia che mettesse fine all’ingiusta accusa, danno che può ritenersi provato sulla base di regole di comune esperienza e di comuni nozioni di psicologia. In ogni caso, osserva il ricorrente, la richiesta del danno biologico non integrerebbe una duplicazione di quella relativa al danno morale.
Con il quarto motivo, il ricorrente deduce vizio motivazionale in relazione alla determinazione del periodo eccedente la ragionevole durata del processo. Dallo stesso calcolo svolto nel decreto impugnato quanto ai tempi addebitabili all’apparato giudiziario, emerge infatti che il periodo eccedente la durata ragionevole sarebbe di sei anni, dovendosi includere nel computo l’eccessiva durata del processo dall’anno 2000 alla conclusione (tre anni). La Corte invece ha riconosciuto e liquidato il danno non patrimoniale per soli quattro anni.
Quest’ultimo motivo, che va trattato per primo per il suo carattere preliminare, attenendo esso alla determinazione della durata irragionevole del processo presupposto, è infondato.
Nella motivazione del decreto impugnato risulta infatti chiaramente esposta la valutazione della Corte d’appello sul punto: nel caso concreto doveva ritenersi ragionevole la "durata del processo per anni quattro oltre i circa dodici mesi per la pronuncia della Corte costituzionale, che integra una garanzia ulteriore per il cittadino" (pag. 4). Tale affermazione complessiva segue la indicazione dei vari periodi ritenuti addebitabili all’organizzazione giudiziaria e ad essa occorre fare riferimento per stabilire l’esatta portata della statuizione della Corte d’appello sul punto. Una simile statuizione non viene del resto autonomamente censurata, essendosi invece il ricorrente limitato a riconsiderare i singoli periodo enunciati nella precedente parte della motivazione del decreto impugnato e ad ipotizzare che l’affermazione della Corte d’appello, secondo cui non tutti gli anni precedenti all’inizio del dibattimento (avvenuto nel 2000) possono ritenersi irragionevoli, comportasse invece la conseguente irragionevolezza dell’intero periodo di durata del processo dal 2000 alla sua conclusione, e quindi un periodo di irragionevole durata pari a sei anni e non a quattro.
Al contrario, deve rilevarsi che in alcun modo può attribuirsi alla Corte d’appello l’affermazione della eccedenza del periodo dibattimentale dalla ragionevole durata ai fini che qui rilevano e che il computo svolto nella motivazione avrebbe dovuto indurre, se mai, a ritenere violato il termine di ragionevole durata per un periodo inferiore a quello di quattro anni in concreto affermato dalla Corte d’appello (35 mesi complessivi).
Infondato è anche il primo motivo di ricorso.
Correttamente la Corte d’appello, in applicazione anche del principio di autonomia delle giurisdizioni, ha affermato che il danno patrimoniale richiesto dal ricorrente con riferimento al procedimento dinnanzi alla Corte dei conti rappresenta un danno da processo e non da irragionevole durata del processo stesso. Peraltro, il motivo presenta profili di inammissibilità là dove si fonda su documenti che vengono citati, ma non riprodotti, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione. L’affermazione del ricorrente, secondo la quale la sentenza emessa dalla Corte dei conti si fondava esclusivamente sulle dichiarazioni rese in sede di indagini preliminari, al pari delle altre riferite nel motivo in esame, non è quindi suscettibile di verifica da parte di questa Corte, non essendo ciò consentito dalla natura della censura dedotta.
Infondato è anche il secondo motivo di ricorso, concernente il mancato riconoscimento del danno esistenziale, biologico e all’immagine. L’affermazione della Corte d’appello, secondo cui il danno morale ex art. 2059 cod. civ. accorpa in sé tutte le voci di danno non patrimoniale, non solo non si presta a censura, ma ha trovato conferma nella giurisprudenza di questa Corte, la quale ha affermato il principio, condiviso dal Collegio, che "in tema di equa riparazione per il mancato rispetto del termine ragionevole del processo ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, il pregiudizio esistenziale costituisce una voce del danno non patrimoniale, non un autonomo titolo di danno" (Cass., n. 19354 del 2005).
In tale sentenza, si è rilevato che la figura del danno "esistenziale" è stata elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, anche di questa Corte (Cass. n. 7713 del 2000; n. 6507 del 2001), per sopperire alle lacune, riscontrate in tema di protezione civilistica degli attributi e dei valori della persona medesima, connesse all’impossibilità di giovarsi dell’art. 185 cod. pen. (e di liquidare perciò il relativo danno morale) quante volte non risultasse concretizzata una fattispecie di reato. Nella materia dell’equa riparazione, invece, poiché il legislatore è intervenuto enunciando espressamente la possibilità di riconoscere il danno "non patrimoniale" al di fuori dai limiti posti dall’art. 2059 cod. civ. (L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1), appare evidente come il pregiudizio esistenziale costituisca una "voce" del danno indicato da ultimo (Cass. n. 15549 del 2002), conformemente, del resto, a quanto riconosciuto, in via di principio, da questa stessa Corte, là dove ha affermato che, nel vigente assetto dell’ordinamento, in cui assume posizione preminente l’art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi di ingiusta lesione di un valore inerente alla persona umana, costituzionalmente protetto, dalla quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica, onde esso non si identifica e non si esaurisce nel danno morale soggettivo, costituito dalla sofferenza contingente e dal turbamento transeunte dell’animo (Cass. n. 8827 e n. 8828 del 2003; n. 17429 del 2003; n. 729 del 2005), ovvero, con specifico riguardo al tema dell’equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001, dagli stati d’ansia, dal patimento e dal disagio interiore connessi al protrarsi nel tempo dell’attesa di una decisione vertente su un bene della vita reclamato dal soggetto interessato, ma comprende altresì il pregiudizio che dalla durata irragionevole dell’attesa di giustizia si riflette sulla vita di relazione del medesimo soggetto (Cass. n. 6169 del 2003).
Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha quindi ritenuto non censurabile l’assunto della Corte territoriale, la quale, dopo aver reputato "innegabile" il danno non patrimoniale connesso al ritardo nell’emanazione di un provvedimento relativo allo "stato della persona" (…) ha quindi affermato che "Il c.d. danno esistenziale non costituisce… un autonomo titolo di danno".
Per quanto riguarda il mancato riconoscimento del danno all’immagine, richiesto autonomamente dal ricorrente, va rilevato che correttamente la Corte d’appello ha rilevato che la domanda proposta da quest’ultimo nel giudizio di merito era quella di danno da durata eccessiva del processo e non il danno cagionato da un’ingiusta accusa o tanto meno dalla divulgazione della notitia criminis.
Con riferimento, poi, al danno biologico, il cui mancato riconoscimento costituisce oggetto anche del terzo motivo di ricorso che viene qui esaminato, si deve rilevare, da un lato, che esso non può ritenersi presuntivamente sussistente, essendo necessaria la prova tanto della sua esistenza quanto del nesso di causalità; dall’altro, che la Corte d’appello ha, con giudizio di merito, come tale incensurabile in questa sede, ritenuto insussistente proprio il nesso causale tra le patologie lamentate dal ricorrente e l’ansia derivata dal processo, senza che, per quanto più direttamente concerne la censura sviluppata nel terzo motivo, possa ravvisarsi la denunciata contraddittorietà tra tale statuizione e quella relativa all’affermazione della sussistenza di uno stato di ansia e di stress, giacché la valutazione negativa, quanto al danno biologico, è stata dal giudice del merito espressa con specifico riferimento alla insussistenza del nesso causale.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Sussistono, peraltro, in considerazione della peculiarità della vicenda processuale, giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 24 ottobre 2006.
Depositato in Cancelleria il 16 marzo 2007