Con ricorso depositato il 27.9.2001, B.A. chiedeva che la Corte di Appello di Venezia, previo accertamento della violazione dell’ art. 6, paragrafo 1, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti, per brevità, denominata semplicemente Convenzione Europea), sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo, disponesse la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento di quanto dovutole a titolo di equa riparazione del danno subito in conseguenza del fatto che risultava ancora pendente dinanzi al Tribunale di Bergamo la procedura di esecuzione immobiliare promossa attraverso la notifica, ad essa effettuata il 9.11.1992 in qualità di debitrice esecutata, del relativo atto di pignoramento.
Si costituiva in giudizio l’Amministrazione convenuta, resistendo alla pretesa avversaria.
Il Giudice adito, mediante decreto emesso il 20.12.2001, pubblicato il 23.1.2002, rigettava la domanda sul rilievo che il periodo di circa sei anni e sei mesi dovuto all’inerzia della Conservatoria dei Registri Immobiliari non fosse computabile ai sensi e per gli effetti di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, non potendo detta Conservatoria essere compresa tra le Autorità chiamate a concorrere o, comunque, a contribuire alla definizione del procedimento.
Avverso la decisione, ricorrevano per cassazione, in via principale ed in via incidentale rispettivamente, la B. ed il Ministero della Giustizia.
Il Supremo Collegio, con sentenza del 4.2/4.4.2003, accoglieva il primo ricorso e rigettava il secondo, onde cassava il suindicato decreto e rinviava ad altra sezione della medesima Corte territoriale, affermando che l’indennizzo ai sensi del citato art. 2 risultasse destinato a porre riparo alle disfunzioni del sistema, venendo a tal fine in rilievo l’attività (deceleratoria) da qualsiasi organo dello Stato proveniente, purchè, comunque, oggettivamente incidente sulla definitiva risposta, in termini di effettività, ad una domanda di giustizia del cittadino.
La B., quindi, riassumeva ritualmente il giudizio, riproponendo la domanda di equa riparazione.
Il Ministero della Giustizia reiterava la propria resistenza.
La Corte veneziana, con decreto dell’8.6/6.9.2004, rigettava nuovamente il ricorso, assumendo:
a) che l’equa riparazione a titolo di danno non patrimoniale non derivasse in modo automatico dal fatto in sè della durata eccessiva del processo, occorrendo, invece, che la parte interessata desse dimostrazione di aver subito tale danno;
b) che una simile prova non fosse stata in alcun modo fornita dalla ricorrente;
c) che la genericità della descrizione del pregiudizio morale subito, contenuta nel ricorso introduttivo, non consentisse di ritenere sussistente lo stesso pregiudizio neppure attraverso il ricorso a presunzioni e a ragionamenti inferenziali;
d) che la posizione di soggezione del debitore esecutato nella procedura di esecuzione immobiliare, lungi dal far presumere, escludesse l’esistenza, in capo al medesimo, di situazioni di ansia in correlazione alla durata della procedura stessa, potendo tale durata anzi giovare all’esecutato anzidetto là dove quest’ultimo, come nella specie, avesse potuto soddisfare i creditori determinando l’estinzione della procedura sopraindicata, intervenuta, nel caso in esame, mediante decreto del giudice dell’esecuzione in data 30.11.2001.
Avverso il provvedimento dianzi riportato, ricorre ancora per cassazione la B., deducendo due motivi di gravame, illustrati da memoria, ai quali resiste con controricorso il Ministero della Giustizia.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il secondo motivo di impugnazione, del cui antecedente esame rispetto al precedente si palesa l’opportunità involgendo la trattazione di una questione logicamente e giuridicamente preliminare, lamenta la ricorrente violazione di legge, in relazione alla L. n. 89 del 2001, art. 2, commi 2 e 3, e con riferimento all’ art. 6, paragrafo 1, della Convenzione Europea, deducendo:
a) che le sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nn. 1338, 1339, 1340 e 1341 del 2004 hanno comportato l’affermazione, tra gli altri, del principio relativo al danno non patrimoniale secondo cui la prova (del danno) di regola è in re ipsa, nel senso che, dimostrata la sussistenza della violazione, ciò implica, nella normalità dei casi, anche la prova che essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno della parte processuale, onde, in assenza di situazioni particolari che si rilevino presenti nel singolo caso concreto, il danno sopraindicato non può essere negato alla persona che ha visto violato il proprio diritto alla ragionevole durata del processo;
b) che tali affermazioni inducono a non condividere le conclusioni della Corte veneziana, tanto più che la ricorrente non ha presentato nel processo esecutivo istanze infondate o inammissibili, ma si è limitata a subire la pendenza di una procedura esecutiva per ben nove anni;
c) che i criteri di determinazione del quantum della riparazione applicati dalla Corte Europea non possono essere ignorati dal giudice nazionale, anche se questi può discostarsi in misura ragionevole dalle liquidazioni effettuate dagli organi di Strasburgo in casi simili, onde il primo deve muoversi nell’ambito delle soluzioni giurisprudenziali elaborate dai secondi;
d) che il rimedio offerto dalla L. n. 89 del 2001, per lo meno riguardo alla fattispecie, non può essere considerato effettivo, nel senso che, per risultare tale, non deve limitarsi a consentire l’affermazione della violazione del termine ragionevole, ma deve anche permettere la riparazione del pregiudizio sofferto, pur in difetto di una sua prova che il Giudice Europeo, come accennato, non richiede;
e) che il Giudice italiano, per adeguarsi il più possibile alla giurisprudenza di Strasburgo, secondo quanto hanno stabilito le Sezioni Unite nelle decisioni sopra richiamate, dovrà preliminarmente procedere alla disapplicazione della L. n. 89 del 2001, quanto alla medesima L. n. 89 del 2001, art. 2, commi 1 e 3, con l’eliminazione, nell’uno, delle parole " danno non patrimoniale o non patrimoniale per effetto di" e, nell’altro, dell’intera previsione della lettera "a".
Il motivo non è fondato.
Giova, al riguardo, premettere che, in tema di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, è, anche alla stregua della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, conseguenza normale, ancorchè non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo medesimo, di cui all’ art. 6 della Convenzione Europea, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle parti interessate, onde, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa, ovvero di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, il giudice deve ritenere l’esistenza di un simile danno, la quale, però, può essere esclusa, restando così superata la presunzione anzidetta, in presenza di circostanze particolari che facciano positivamente ritenere che il danno medesimo non sia stato subito dal ricorrente, come avviene, ad esempio, nell’ipotesi in cui il protrarsi del giudizio appaia rispondente ad uno specifico interesse della parte o sia, comunque, destinato a produrre conseguenze che la stessa parte percepisca come a sè favorevoli, laddove la valutazione circa la sussistenza, nel caso concreto, di tali particolari circostanze si risolve in un apprezzamento di fatto, riservato al giudice del merito e non sindacabile in sede di legittimità ove sorretto da motivazione congrua e scevra da vizi logici e giuridici (Cass. 11 novembre 2005, n. 21857; Cass. 13 aprile 2006, n. 8716; Cass. 15 novembre 2006, n. 24358).
Nella specie, la Corte territoriale, con accertamento di per sè incensurato, ha rilevato che "l’esecutata ha potuto soddisfare i creditori determinando l’estinzione della procedura (di esecuzione immobiliare), dichiarata dal G.E. con decreto 30.11.2001".
La relativa conclusione, quindi, secondo cui la durata di detta procedura ha, anzi, "giovato" all’odierna ricorrente, appare tale da sorreggere validamente la decisione impugnata, la quale si sottrae, perciò, alle censure dedotte dalla medesima ricorrente là dove poggia sul corretto apprezzamento della carenza di interesse di quest’ultima alla celere definizione del giudizio sopraindicato, palesandosi, al contrario, l’interesse della B. quello – di segno opposto – alla stasi del procedimento esecutivo per coltivare la prospettiva, poi concretizzatasi, di una definizione di siffatto procedimento da realizzare attraverso la soddisfazione dei creditori, secondo quanto traspare, del resto, dalle stesse affermazioni della ricorrente di essere rimasta "per tutto il periodo in questione sotto la spada di Damocle della possibile vendita dell’immobile", ovvero sotto il pericolo di una eventualità scongiurata, semmai, grazie proprio alla durata della procedura in argomento, laddove, poi, "ciò non è stato privo di gravi implicazioni economiche (e non morali, quindi) negative, avendo essa dovuto far fronte al pagamento anche di ingenti spese e di interessi (ai tassi elevati di quegli anni)".
Con il primo motivo di impugnazione, lamenta ancora la ricorrente violazione di legge, in relazione all’art. 91 c.p.c., deducendo:
a) che la Corte territoriale di Venezia, con l’impugnato decreto, ha condannato la ricorrente alla rifusione, in favore del Ministero della Giustizia, delle spese relative al primo grado di giudizio, al giudizio di legittimità ed al giudizio di rinvio;
b) che pare iniqua ed, in ogni caso, adottata senza alcuna domanda di parte la decisione di aumentare le spese del primo grado di giudizio rispetto alla originaria liquidazione, tanto che sembra sussistere il vizio di ultrapetizione;
c) che del tutto infondata si rivela poi la seconda voce, relativa alle spese del primo giudizio di legittimità, che la B. vinse;
d) che debbono essere, comunque, poste a carico del convenuto Ministero le spese del primo procedimento per equa riparazione e del primo giudizio di legittimità;
e) che al diritto riconosciuto dalla Convenzione Europea sono state imposte, da un lato, limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione e, dall’altro, ostacoli all’esercizio effettivo del diritto che, in sede di ricorso alla Corte Europea, non erano neppure immaginabili e che hanno comportato violazione degli artt. 17 e 34 della Convenzione anzidetta.
Il motivo non è fondato.
Premesso, infatti, come la Corte territoriale, mediante l’impugnato decreto, abbia condannato l’odierna ricorrente a rifondere al Ministero della Giustizia le spese vuoi del primo grado del giudizio, vuoi del (pregresso) giudizio di legittimità, vuoi, infine, del giudizio definito attraverso il provvedimento anzidetto, si osserva:
a) che il giudice del rinvio al quale la causa sia stata rimessa dalla Corte di Cassazione anche perchè provveda sulle spese del giudizio di legittimità deve attenersi al principio della soccombenza applicato all’esito globale del processo, piuttosto che ai diversi gradi del giudizio ed al loro risultato, onde la parte, vittoriosa nel giudizio di cassazione e tuttavia soccombente in rapporto all’esito finale della lite, può essere legittimamente condannata al rimborso delle spese, in favore dell’altra parte, anche per il grado di cassazione (Cass. 16 aprile 1992, n. 4686; Cass. 10 marzo 2004, n. 4909; Cass. 29 marzo 2006, n. 7243);
b) che, in difetto di una esplicita dichiarazione di volontà della parte risultata vittoriosa, diretta a rinunciarvi, la condanna alle spese del soccombente, in quanto pronuncia consequenziale ed accessoria, può essere emessa dal giudice anche d’ufficio, indipendentemente da una specifica richiesta della parte anzidetta (Cass. Sezioni Unite 18 novembre 1988, n. 6242; Cass. 10 giugno 1997, n. 5174; Cass. 27 agosto 2003, n. 12542), senza che, del resto, nella specie, la ricorrente abbia altrimenti, e specificatamente, censurato la liquidazione delle spese del primo grado di giudizio;
c) che, in tema di spese processuali e con riferimento al processo camerale per l’equa riparazione della lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, non ricorre un generale esonero dall’onere delle spese a carico del soccombente, in quanto, in virtù del richiamo operato dalla L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 4, si applicano le norme del codice di rito e, segnatamente, gli artt. 91 e seguenti di questo (Cass. 24 gennaio 2003, n. 1078; Cass. 22 dicembre 2004, n. 23789), senza che, del resto, dalla Convenzione Europea discenda un obbligo, a carico del legislatore nazionale, di conformare il processo per l’equa riparazione da irragionevole durata negli stessi termini previsti, quanto alle spese, per il procedimento dinanzi agli organi istituiti in attuazione della Convenzione medesima, dovendosi escludere che l’assoggettamento del procedimento alle regole generali nazionali e, quindi, al principio della soccombenza possa integrare un’attività dello Stato che "miri alla distruzione dei diritti o delle libertà" riconosciuti dalla Convenzione anzidetta o ad "imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione" (Cass. 28 novembre 2003, n. 18204).
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
La sorte delle spese del giudizio di cassazione segue il disposto dell’art. 385 c.p.c., comma 1, liquidandosi dette spese in Euro 1.400,00 per onorari, oltre le spese prenotate a debito.
 
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso in favore del controricorrente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 1.400,00 per onorari, oltre le spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 13 dicembre 2006.
Depositato in Cancelleria il 18 giugno 2007