F.M. ricorre, per un motivo, illustrato con memoria, avverso il decreto 16 dicembre 2004 con cui la Corte d’appello di Roma ha rigettato la domanda di equa riparazione relativa a un giudizio davanti alla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per il Lazio, per il riconoscimento del diritto a fruire in pensione dei miglioramenti economici di cui al D.P.R. n. 69 del 1984, iniziato il 26 settembre 1996, e definito in primo grado con sentenza del 18 maggio 2002.
Resiste con controricorso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Il ricorso viene discusso in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., sulle conclusioni del P.G. in atti.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo, il ricorrente denunzia violazione dell’art. 6, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, oltre a "violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia". Pur avendo riconosciuto la durata irragionevole della causa per la impossibilità di fissare una celere trattazione, la corte territoriale ha escluso il danno non patrimoniale, costituente invece una conseguenza (se non automatica quanto meno) "normale" della violazione del diritto alla durata ragionevole del processo, non influenzata dall’esito della controversia, tranne i casi di abuso del processo. Pretestuosa è l’affermazione secondo cui l’originaria pretesa sarebbe stata palesemente infondata, avendo invece trovato accoglimento in molti altri casi analoghi. Contrariamente a quanto affermato dalla corte, gli interessi in gioco erano di notevole consistenza, comportando il riconoscimento di un beneficio di rilevante entità sul trattamento pensionistico. Parimenti non significativo è il ritardo con cui è stato presentato ricorso alla Corte dei conti rispetto alla applicabilità dei nuovi trattamenti economici, essendo comprensibile che il ricorrente pensionato non fosse stato tempestivamente informato dei suoi diritti.
Il ricorso è manifestamente infondato.
Costituisce ius receptum che se di norma il comportamento della parte rilevante per il computo della durata del processo è quello endoprocessuale che concorre a ritardare la soluzione della causa, tuttavia la piena consapevolezza della infondatezza delle proprie istanze o della loro inammissibilità può essere causa di inesistenza del danno non patrimoniale, perchè incompatibile con l’ansia connessa all’incertezza sull’esito del processo (Cass. n. 17650/2002).
Di vero, ansia e sofferenza, e quindi danno non patrimoniale, per l’eccessivo prolungarsi della causa, sono i riflessi psicologici normalmente subiti dalla persona per il perdurare di incertezza sull’assetto delle posizioni coinvolte dal dibattito processuale e, pertanto, se prescindono dall’esito della lite, in quanto anche la parte poi soccombente può ricevere afflizione, secondo l’id quod plerumque accidit, dall’esorbitante attesa della decisione, restano in radice escluse in presenza di un’originaria consapevolezza dell’inconsistenza delle tesi sollevate in causa, dato che, in questo caso, difettando una condizione soggettiva d’incertezza, viene meno il presupposto del determinarsi di uno stato di disagio.
A questi principi, in linea con l’elaborazione giurisprudenziale della Corte europea in tema di diniego di riparazione alla parte che temerariamente o pretestuosamente abbia agito o resistito in giudizio, si è puntualmente attenuta la corte d’appello territoriale, la quale ha escluso la pertinenza del danno alla durata del giudizio anzitutto sul rilievo che il ricorrente era o doveva essere pienamente consapevole della conclusione a lui sfavorevole che avrebbe avuto il procedimento incoato davanti alla Corte dei conti, definito, infatti, con una sentenza resa in forma semplificata (L. n. 205 del 2000, art. 9) con succinta motivazione, stante la palese infondatezza del ricorso svolgente pretesa in contrasto con "massiccia, pregressa ed anche recente e recentissima delete giurisprudenza" pubblicata anche in corso di causa e in particolare con la sentenza delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti del 15 maggio 1998 n. 11. In secondo luogo, il giudice a quo ha individuato un indizio atto a positivamente escludere il patema d’animo – o, in diversi termini, a dimostrare la scarsa importanza annessa all’iniziativa giudiziaria – nel fatto, davvero singolare, che il ricorso alla Corte dei Conti venne proposto dieci anni dopo l’applicabilità dei nuovi trattamenti economici in favore del F., il cui collocamento a riposo risaliva a periodo di vigenza triennale dell’accordo collettivo recepito nel D.P.R. n. 69 del 1984.
Inesistenti, quindi, le denunziate violazioni di legge, per il resto le doglianze si riducono a una critica, peraltro generica, degli specifici elementi indiziali enucleati dalla Corte al fine di escludere che l’attesa per la durata eccessiva del giudizio possa aver creato nella vita dell’attore uno sconvolgimento psicologico meritevole di valutazione in termini di danno morale.
Ma la individuazione e la valutazione degli eventuali elementi in presenza dei quali può positivamente escludersi il patema d’animo (e quindi il danno morale) configurano attività istituzionalmente riservata al Giudice di merito, il quale ne ha dato nella specie esaustiva e persuasiva motivazione, sicchè il relativo giudizio non è censurabile in sede di legittimità.
Viceversa, il ricorrente pretende che questa Corte, attraverso un’autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa, operi un controllo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, equivalente in concreto alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il Giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata; revisione che si risolverebbe sostanzialmente in una nuova formulazione del giudizio di fatto, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al Giudice di legittimità. Il citato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non conferisce, infatti, alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione operata dal Giudice del merito, cui soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, con l’unico limite di supportare con adeguata e congrua motivazione l’esito del procedimento accertativo e valutativo seguito.
Al rigetto del ricorso segue la condanna alle spese del suo proponente.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 700,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 18 settembre 2008.Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2008