Con ricorso depositato il 16.4.2004, B.G. chiedeva alla Corte di Appello di Roma che, previo accertamento della violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti, per brevità, denominata semplicemente "Convenzione europea"), sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo, venisse disposta la condanna della Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento di quanto dovutogli a titolo di equa riparazione del danno non patrimoniale subito in conseguenza del fatto:
a) che, in data 28.10.1974, aveva proposto ricorso alla Corte dei Conti avverso il Decreto n. 1056 del 1973, del Ministero della Difesa, mediante il quale gli era stato negato il trattamento di pensione privilegiata ordinaria;
b) che, in data 30.6.1998, aveva presentato istanza di sollecito;
c) che, in data 23.2.2001, detto Giudice aveva pronunciato sentenza di rigetto;
d) che tale decisione, con ricorso notificato il 22.2.2002, era stata impugnata davanti alla Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale Centrale, la quale aveva pronunciato sull’appello mediante sentenza in data 11.6.2003.
Si costituiva in giudizio l’Amministrazione convenuta, resistendo alla pretesa avversaria.
La Corte territoriale adita, con decreto emesso in data 25.10.2004/4.10.2005, rigettava il ricorso, assumendo che la durata del giudizio presupposto dovesse considerarsi ragionevole, atteso che il giudizio di primo grado era stato definito nel termine di anni tre circa dal deposito dell’istanza di prelievo, laddove il giudizio di secondo grado era stato definito nel termine di sedici mesi circa dalla proposizione dell’appello, onde non risultavano superati i termini solitamente indicati dalla Corte di Strasburgo per giudizi similari.
Avverso tale decreto, ricorre per cassazione il B., deducendo due motivi di gravame, ai quali non resiste la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Ai sensi dell’art. 375 c.p.c., è stata fissata l’adunanza in camera di consiglio.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di impugnazione, lamenta il ricorrente violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e art. 6 della Convenzione europea, nonchè della L. n. 585 del 1971, art. 20 e della L. n. 19 del 1994, art. 6, concernenti le norme processuali del Giudice contabile, assumendo:
a) che le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la sentenza n. 28507 del 2005, in adesione all’orientamento ripetutamente espresso dalla giurisprudenza europea, hanno affermato che la lesione del diritto ad una ragionevole durata del processo va riscontrata, anche per le cause proposte davanti al giudice amministrativo, con riferimento al periodo di tempo decorso dall’instaurazione del procedimento, senza che su di esso possa incidere la mancata o ritardata presentazione dell’istanza di prelievo o di sollecito;
b) che la Corte territoriale ha ignorato la speciale normativa processualistica del Giudice contabile, alla quale è completamente sconosciuto l’uso dell’istanza di prelievo;
c) che, solo con la riforma del 1994 (L. n. 19) ed in riferimento ai processi pendenti, il legislatore ha espressamente prescritto all’art. 6 che la parte, la quale ne aveva interesse, doveva proporre, nel termine perentorio di sei mesi dalla comunicazione della segreteria della sezione, istanza per la prosecuzione del giudizio, sanzionando l’inottemperanza con l’estinzione dello stesso, dichiarata d’ufficio;
d) che, pertanto, fino alla novella del 1994, l’odierno ricorrente non aveva alcun potere di impulso processuale, governando il principio dell’officialità, laddove, successivamente, egli ha utilizzato tutti gli strumenti messi a disposizione dall’ordinamento per il regolare svolgimento del processo.
Il motivo è manifestamente fondato.
La Corte territoriale, con apprezzamento di per sè incensurato, ha dato conto del fatto:
a) che, in data 28.10.1974, è stato proposto dal B. ricorso alla Corte dei Conti avverso il Decreto n. 1056 del 1973, del Ministero della Difesa, mediante il quale gli era stato negato il trattamento di pensione privilegiata ordinaria;
b) che, in data 30.6.1998, il medesimo B. ha presentato istanza di sollecito;
c) che, in data 23.2.2001, il Giudice contabile ha pronunciato sentenza di rigetto;
d) che tale decisione, con ricorso notificato il 22.2.2002, è stata impugnata davanti alla Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale Centrale, la quale ha pronunciato sull’appello mediante sentenza in data 11.6.2003.
La stessa Corte territoriale, peraltro, ha ritenuto che "il termine del giudizio presupposto deve considerarsi ragionevole, atteso che il giudizio di primo grado è stato definito nel termine di anni tre circa dal deposito dell’istanza di prelievo, mentre il giudizio di secondo grado è stato definito nel termine di sedici mesi circa dalla proposizione dell’appello, sicchè non risultano superati i termini solitamente indicati dalla Corte di Strasburgo per giudizi similari".
Argomentando in tal modo, il Giudice di merito non ha fatto corretta applicazione del principio, uniformemente enunciato da questa Corte all’esito della pronuncia delle Sezioni Unite n. 28507 del 23 dicembre 2005 (così, in termini, Cass. 29 marzo 2006, n. 7118; Cass. 21 aprile 2006, n. 9411; Cass. 28 aprile 2006, n. 9853; Cass. 11 maggio 2006, n. 10894; Cass. 7 luglio 2006, n. 15603; Cass. 14 novembre 2006, n. 24258; Cass. 16 novembre 2006, n. 24438, onde, in questo senso, appunto, la manifesta fondatezza del motivo in esame), secondo cui, in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, la lesione del diritto alla definizione del processo in un termine ragionevole, di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea, va riscontrata, anche per le cause davanti al giudice amministrativo, con riferimento al periodo intercorso dall’instaurazione del relativo procedimento, senza che una tale decorrenza del termine ragionevole di durata della causa possa subire ostacoli o slittamenti in relazione alla mancanza dell’istanza di prelievo od alla ritardata presentazione di essa, là dove, cioè, la previsione di strumenti sollecitatori non sospende nè differisce il dovere dello Stato di pronunciare sulla domanda, in caso di omesso esercizio degli stessi, nè implica il trasferimento sul ricorrente della responsabilità per il superamento del termine ragionevole di definizione del giudizio, salva restando la valutazione del comportamento della parte al solo fine dell’apprezzamento dell’entità del lamentato pregiudizio.
Nè, in contrario, può essere tratto argomento dalla recente disposizione contenuta nel D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 54, comma 2, convertito nella L. 6 agosto 2008, n. 133, là dove tale disposizione recita "La domanda di equa riparazione non è proponibile se nel giudizio dinanzi al giudice amministrativo in cui si assume essersi verificata la violazione di cui alla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 1, non è stata presentata un’istanza ai sensi del R.D. 17 agosto 1907, n. 642, art. 51, comma 2".
Premesso, infatti, come il D.L. n. 112 del 2008 sia entrato in vigore il "25 giugno 2008", ovvero (ai sensi dell’art. 85 di esso) "il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale", deve, nella specie, osservarsi che, in difetto di esplicite previsioni contrarie (tale essendo esattamente il caso in esame), il principio dell’immediata applicazione della legge processuale sopravvenuta ha riguardo soltanto agli atti processuali successivi all’entrata in vigore della legge stessa, alla quale non è dato di incidere, pertanto, sugli atti anteriormente compiuti, i cui effetti restano regolati, secondo il fondamentale principio del tempus regit actum, dalla norma sotto il cui imperio siano stati posti in essere (come, di nuovo nella specie, la domanda di equa riparazione avanzata il 16.4.2004), un generale criterio di "affidamento" legislativo (desumibile dall’arti 1 delle disposizioni sulla legge in generale) precludendo la possibilità di ritenere che gli effetti dell’atto processuale già formato al momento dell’entrata in vigore della nuova disposizione (domanda appunto di equa riparazione) siano da quest’ultima regolati, quanto meno nei casi (come quello in esame) in cui la retroattività della disciplina verrebbe a comprimere la tutela della parte, senza limitarsi a modificare la mera tecnica del processo (Cass. 12 maggio 2000, n. 6099).
Del resto, è appena il caso di osservare come l’orientamento giurisprudenziale sopra riportato sia stato ribadito da questa Corte anche in relazione alle cause davanti al Giudice contabile e, segnatamente, a quelle pensionistiche, rispetto alle quali, cioè, trovasi parimenti affermato che la lesione del diritto alla definizione del processo nel termine ragionevole va riscontrata con riguardo al periodo intercorso dall’instaurazione del procedimento, ovvero tenendo conto del tempo complessivo dell’attesa della risposta sulla domanda di giustizia, senza che una simile decorrenza del predetto termine di durata della causa possa subire ostacoli o slittamenti in seguito alla mancanza (o al ritardo nella presentazione) dell’istanza di prelievo o di sollecitazione o di trattazione anticipata, ove pure prevista dalla prassi degli uffici giudiziari quale strumento acceleratorio (Cass. 21 febbraio 2006, n. 3782; Cass. 7 aprile 2006, n. 8156).
Pertanto, risultando inammissibile il secondo motivo di gravame (attraverso il quale è stato lamentato che, una volta accertata la violazione del termine ragionevole, non bisogna tener conto del solo tempo eccedente, ma l’indennizzo va riconosciuto e applicato per ogni anno di durata del processo e non per ogni anno di ritardo, laddove, però, la Corte territoriale ha rigettato il ricorso per equa riparazione sulla base dell’assorbente rilievo di cui al motivo che precede, senza minimamente statuire in ordine al profilo dedotto con tale secondo motivo), il ricorso odierno merita accoglimento nei sensi di cui in motivazione, onde l’impugnato decreto deve essere cassato in relazione alle censure accolte e, ravvisata la sussistenza delle condizioni indicate dall’art. 384 c.p.c., comma 1, ultima parte, (nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche introdotte dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), nel senso esattamente che il periodo eccedente la ragionevole durata del giudizio presupposto risulta determinato in "24"anni (dovendosi detrarre dalla durata complessiva di quest’ultimo, da apprezzare in circa "29" anni, ovvero dall’inizio, in data 28.10.1974, sino alla pronuncia, in data 11.6.2003, della sentenza della Corte dei Conti in sede di appello, la durata "normale" di due gradi di giudizio, stimata pari a complessivi anni "5") e che può, del resto, ripercorrendo gli arresti della Corte europea dei diritti dell’uomo, individuarsi nell’importo di Euro 1.000,00, la base di calcolo dell’equa riparazione per ciascun anno in relazione al danno non patrimoniale (Cass. 23 aprile 2005, n. 8568; Cass. 26 gennaio 2006, n. 1630; Cass. 13 aprile 2006, n. 8714; Cass. 7 dicembre 2006, n. 26200; Cass. 22 dicembre 2006, n. 27503; Cass. 24 gennaio 2007, n. 1605; Cass. 1 marzo 2007, n. 4845), suscettibile di venire innalzata fino ad euro 1.500,00 (ed anche al di sopra) per le (sole) ipotesi che presentino specifiche e peculiari connotazioni di intensità dello stress e dell’ansia da attesa di una decisione liberatoria, la Presidenza del Consiglio dei Ministri deve essere condannata al pagamento, in favore del ricorrente, della somma di Euro 24.000,00, oltre agli interessi legali dalla domanda (16.4.2004) sino al saldo.
La sorte delle spese del giudizio di merito e di quello di legittimità segue il criterio della soccombenza, liquidandosi dette spese, rispettivamente, in complessivi Euro 1.075,00, di cui Euro 475,00 per diritti ed Euro 500,00 per onorari, nonchè in complessivi Euro 700,00, di cui Euro 600,00 per onorari, oltre, in ambedue i casi, le spese generali (nella misura percentuale del 12,50% sull’importo degli onorari medesimi) e gli accessori (I.V.A. e Cassa Previdenza Avvocati) dovuti per legge.
Le (sole) spese riguardanti il giudizio di legittimità vanno, infine, distratte a vantaggio del difensore Avv. MARCHETTI Alessandro, il quale se ne è dichiarato antistatario proponendo la relativa istanza ex art. 93 c.p.c., laddove analogo provvedimento non può essere adottato in ordine alle spese riguardanti il giudizio di merito, risultando dalla stessa intestazione dell’impugnato decreto come l’anzidetto difensore non fosse munito di "procura" (secondo quanto richiesto dal già citato art. 93 c.p.c.) in quest’ultimo giudizio.

P.Q.M.
La Corte:
Accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato in relazione alle censure accolte e, decidendo la causa nel merito, condanna la Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento, in favore di B.G., della somma di Euro 24.000,00, oltre agli interessi legali dalla domanda sino al saldo, nonchè al rimborso, in favore del ricorrente, delle spese dei giudizi di merito e di legittimità, liquidate, rispettivamente, in complessivi Euro 1.075,00, di cui Euro 475,00, per diritti ed Euro 500,00, per onorari ed in complessivi Euro 700,00, di cui Euro 600,00, per onorari, oltre, in ambedue i casi, le spese generali e gli accessori dovuti per legge, disponendo la distrazione delle spese del giudizio di legittimità a vantaggio del difensore antistatario Avv. MARCHETTI Alessandro.
Così deciso in Roma, il 4 luglio 2008.
Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2008