Con ricorso depositato il 6 Maggio 2005 le signore S. E. e T.G. convenivano dinanzi la Corte d’appello di Torino il Ministero della Giustizia per sentirlo condannare all’equa riparazione, ex art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per il danno da esse subito per la violazione del termine ragionevole della procedura fallimentare aperta a carico di M.T. nel (OMISSIS) e tuttora pendente, nel cui passivo erano stati ammessi i loro rispettivi crediti.
Costituitosi ritualmente il Ministero della Giustizia eccepiva nei confronti della T. la preclusione da precedenti decisioni riguardanti ricorsi analoghi; nel merito, contestava l’infondatezza di entrambe le domande, stante la complessità del procedimento, il comportamento delle parti, e l’assenza o comunque l’eccessività del danno ex adverso prospettato.
Con Decreto emesso il 17 agosto 2005 la Corte d’appello di Torino dichiarava inammissibile il ricorso della signora T. e, in parziale accoglimento della domanda della signora S., condannava il Ministero della Difesa al pagamento in suo favore della somma di Euro 200,00 a titolo di danno patrimoniale e della somma di Euro 800,00 per il danno morale, già comprensive di interessi legali e rivalutazione fino alla data della decisione. Condannava il Ministero della Giustizia alla rifusione delle spese giudiziali sostenute dalla S. e le compensava invece nei confronti della T..
Motivava:
– che la circostanza che la T. fosse titolare di più posizioni creditorie nei confronti del fallito non consentiva la reiterazione di più ricorsi per equa riparazione, data la medesimezza del procedimento concorsuale e tenuto conto che la domanda non era limitata a conseguire il maggior danno derivato dall’ulteriore protrazione del fallimento dopo l’ultimo ricorso depositato;
– che, per quanto riguardava la S., premesso che i precedenti giurisprudenziali della Corte europea dei diritti dell’uomo in casi asseritamene simili non erano vincolanti per il giudice italiano fino al punto da costringerlo a disattendere principi di rango costituzionale, doveva considerarsi ragionevole, nella specie, per la chiusura del fallimento il termine di anni sette, tenuto conto delle notevoli dimensioni dell’impresa fallita, avente ad oggetto investimenti fiduciari, nonchè del notevole numero di creditori (circa 1.600 domande di ammissione al passivo, richiedenti verifiche contabili) e della difficoltà di liquidazione dei cespiti attivi;
– che il ritardo irragionevole doveva essere dunque stimato in anni 8 e mesi sei, e ad esso, e non all’intera durata del processo, andava commisurato l’equo indennizzo, liquidato per il danno patrimoniale in misura pari agli interessi sulla percentuale del 15% del credito ammesso al passivo, destinata prevedibilmente ad essere soddisfatta nel futuro progetto di distribuzione, e per il danno non patrimoniale in Euro 800,00.
Avverso il provvedimento proponevano, congiuntamente, ricorso per Cassazione, illustrato da successiva memoria, le signore T. e S..
La prima censurava la decisione sotto il profilo che la pluralità di situazioni creditorie dava legittimamente adito ad altrettante domande di equa riparazione, data l’autonomia dei singoli provvedimenti di ammissione al passivo.
Dal canto suo, la signora S. deduceva la violazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, con particolare riferimento all’art. 2 e degli artt. 6, 32 e 41 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nell’interpretazione fornitane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nonchè l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, per non aver tenuto conto del precedente in termini da quest’ultima deciso con riferimento al medesimo fallimento.
Lamentava altresì la violazione di legge nella determinazione dell’equa riparazione, ragguagliata al solo ritardo irragionevole accertato, anzichè all’intera durata della procedura concorsuale, in contrasto con la giurisprudenza della Corte europea, oltre che manifestamente inadeguata in punto quantum debeatur.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso della T. è infondato.
Se il processo è unico, la pluralità di domande in esso proposte da solo adito al fenomeno del cumulo, in cui le varie domande si sommano nel valore ai fini della competenza (art. 10 cod. proc. civ., comma 2), ma lasciano salva l’unicità della posizione soggettiva esaminabile sotto il profilo dell’equa riparazione.
Il frazionamento di un credito dipendente da un’unica causa petendi in più domande è suscettibile, anzi, di costituire un esempio di "abuso del processo" (Cass. sez. unite 15 Novembre 2007, n. 23.726), se non giustificato da specifiche circostanze, e dunque artificioso.
Ma anche al di fuori di quest’ipotesi, lo stato d’animo di ansia ed il patema in cui si sostanzia il danno non patrimoniale risarcibile ex art. 6, par. 1, Convenzione europea dei diritti dell’uomo, concretano evidentemente, un evento unico, riferibili come sono alla durata di uno stesso processo; ed il valore dell’oggetto (la c.d.
posta in giuoco) – sia esso correlato ad unico petitum o effetto di cumulo tra più domande – può solo influire sull’entità dell’indennizzo.
Come la Corte d’appello di Torino ha puntualmente messo in evidenza, la domanda di equa riparazione svolta dalla T. non è limitata ad un’ammissibile richiesta di indennizzo per l’ulteriore ritardo maturato dopo l’ultima decisione emessa su analogo ricorso;
nè – si può aggiungere – volta a far valere un ritardo ritenuto insussistente in precedenti decreti e maturato in seguito, in conseguenza dell’ulteriore durata del processo (dato che l’accertamento, positivo o negativo, della violazione del termine ragionevole di un processo in corso ha efficacia rebus sic stantibus). Appare quindi immune da mende la statuizione di inammissibilità della domanda, reiterativa di altre già proposte in precedenza.
E’ invece fondato il ricorso della S. nei limiti di cui appresso.
Giova premettere in sede dogmatica che il nostro ordinamento giuridico non riconosce, in alcun caso, efficacia vincolante, in senso proprio, ai precedenti giurisprudenziali, senza eccezioni per quelli della Corte europea dei diritti dell’uomo: salva s’intende la vis persuasiva connaturale alle decisioni del giudice istituzionalmente deputato all’interpretazione delle norme della CEDU: che, nel sistema, operano quali fonti interposte tra la Costituzione e la legge ordinaria, rivestendo, così, il rango di norme sub-costituzionali (Cass., sez. 1^, 22 Gennaio 2008, n. 1354).
Ciò premesso, si osserva come non possa meccanicamente estendersi alle procedure concorsuali, ed in particolare al fallimento, il termine ragionevole di durata enucleato per un processo civile ordinario. E ciò, perchè la sua natura concorsuale lo rende suscettibile di accogliere una pluralità di domande di ammissione al passivo (nel caso in esame, assai vasta), passibile di ulteriore incremento per effetto di eventuali ricorsi per insinuazione tardiva, opposizioni allo stato passivo, ed anche azioni civili ordinarie, derivate o no dal fallimento (azioni revocatorie, risoluzione contrattuali, ecc.). In sostanza, il fallimento è, esso stesso, un contenitore di processi: non assimilabile, in quanto tale, al paradigma del processo di cognizione, nè a quello esecutivo individuale, presupposti dall’art. 6, par. 1, della Convenzione, nel diritto vivente dell’interpretazione giurisprudenziale consolidata.
Ne consegue che la sua durata ragionevole è strettamente correlata a variabili, incidenti sulla complessità, estranee al processo ordinario, inclusa la maggiore o minore difficoltà di liquidazione dei cespiti patrimoniali.
La durata ragionevole stimata in tre anni può essere quindi tenuta ferma solo nel caso di fallimento con unico creditore, o comunque con ceto creditorio limitato, senza profili contenziosi traducentisi in processi autonomi.
Alla stregua di quest’impostazione in sede concettuale, appare congruamente motivata, nella specie, la determinazione in anni sette della durata ragionevole ed in anni otto e mesi sei del ritardo, operata dalla Corte d’appello di Torino. Pure immune da vizi logici si palesa la liquidazione del danno patrimoniale ragguagliata agli interessi maturati sulla percentuale del credito ammesso al passivo che presuntivamente potrà essere soddisfatta in sede di riparto (sul criterio in sè la ricorrente non solleva censure).
E’ invece fondato il ricorso in ordine alla liquidazione del danno non patrimoniale.
Questa Corte ha precisato (Cass., sez. 1, 1 marzo 2007, n. 4845;
Cass. S.U. 26 gennaio 2004, n. 1340; Cass. 23 aprile 2005, n. 8568) che, ai fini della liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, l’ambito della valutazione equitativa, affidato al giudice del merito, è segnato dal rispetto della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, per come essa vive nelle decisioni, da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo, di casi simili a quello portato all’esame del giudice nazionale. E’ quindi configurabile, in capo al giudice del merito, un obbligo di tener conto dei criteri di determinazione della riparazione applicati dalla Corte Europea, pur conservando egli un margine di valutazione che gli consente di discostarsi, purchè in misura ragionevole, dalle liquidazioni effettuate da quella Corte in casi simili. Tale regola di conformazione, inerendo ai rapporti tra la citata legge e la Convenzione, quale espressione dell’obbligo della giurisdizione nazionale di interpretare ed applicare il diritto interno, per quanto possibile, conformemente alla Convenzione e alla giurisprudenza di Strasburgo, ha natura giuridica: onde, il suo mancato rispetto da parte del giudice del merito integra il vizio di violazione di legge, denunziabile dinanzi alla Corte di Cassazione.
Pertanto, poichè la Corte Europea (con decisioni adottate a carico dell’Italia il 10 Novembre 2004) ha individuato nell’importo compreso fra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 per anno la base di partenza per la quantificazione di tale indennizzo, si deve ritenere illegittima, nella specie, la liquidazione complessiva di Euro 800,00 – meno di Euro 100,00 per ogni anno di ritardo – manifestamente inadeguata.
In carenza della necessità di ulteriori accertamenti di fatto – tenuto conto che la stessa corte territoriale ha determinato in anni otto e mesi sei la violazione del termine ragionevole del processo – si può decidere la causa nel merito, liquidando l’indennizzo dovuto in Euro 8.500,00, con gli interessi legali dalla domanda.
E’, per contro, infondata la censura relativa al mancato computo della riparazione per l’intera durata del processo (15 anni e 6 mesi), anzichè per il solo ritardo: tesi, che collide frontalmente con la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, che al comma 3, lett. a), dispone che per determinare l’entità della riparazione "rileva solamente il danno riferibile ai periodo eccedente il termine ragionevole di cui al comma 1".
Come già statuito da questa Corte, la giurisprudenza della CEDU non impone la disapplicazione di tale precisa disposizione, nè la inficia d’illegittimità costituzionale per violazione d’un trattato internazionale (Cass., sez. 1?, 3 Gennaio 2008, n. 14; Cassazione civile, sez. 1^, 14 febbraio 2008, n. 3716). Il giudice nazionale è infatti tenuto, nell’ipotesi in esame, ad applicare la legge dello Stato, e, quindi, il disposto della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), non potendo darsi alla giurisprudenza europea in questione diretta applicazione nell’ordinamento giuridico italiano previa disapplicazione della norma nazionale suindicata (come invece sarebbe possibile per la normativa comunitaria). Al riguardo, la Corte Costituzionale ha infatti chiarito, con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, che la Convenzione CEDU non crea un ordinamento giuridico sovranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa, infatti, è configurabile come un trattato internazionale multilaterale, da cui derivano obblighi per gli Stati contraenti – e quindi anche quello dei giudici nazionali di uniformarsi ai parametri CEDU, esclusi i casi, come quello in esame, in cui siano tenuti a rispettare una norma nazionale, della cui legittimità costituzionale non si possa dubitare – ma non anche l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omisso medio, per tutte le autorità interne degli Stati-membri.
Si deve dunque concludere che il giudice a quo ha correttamente applicato il criterio secondo cui ha rilevanza, ai fini indennitari, il solo danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole.
Tenuto conto dell’accoglimento parziale del ricorso, sussistono giusti motivi per la compensazione di un terzo delle spese di giudizio, liquidate come in dispositivo, sulla base del valore ritenuto in sentenza e del numero e complessità delle questioni svolte.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso proposto dalla T.;
– Accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il ricorso proposto dalla S. e, decidendo nel merito, determina in Euro 8.500,00 l’indennizzo in favore della ricorrente;
– Condanna il Ministero della Giustizia alla rifusione delle spese di giudizio sostenute dalla S. nella misura di 2/3, che liquida, per intero, in complessivi Euro 950,00, di cui Euro 900,00 per onorari;
– Dichiara compensate per un terzo le spese sopra liquidate.
Così deciso in Roma, il 18 dicembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2009