I.M. adiva la Corte d’appello di Roma, allo scopo di ottenere l’equa riparazione ex L. n. 89 del 2001, in riferimento al giudizio promosso innanzi al Pretore del lavoro di Nola, avente ad oggetto l’adeguamento dell’indennità di occupazione, proposto con ricorso dell’8.7.1998, deciso con sentenza del 17.9.02, appellata con ricorso del 23.10.02, deciso con sentenza del 15.3.2004.
La Corte d’appello, con decreto del 15.9.2006, fissata la durata ragionevole del giudizio svoltosi in due gradi in ani 4 e mesi 6, riteneva violato detto termine per anni 1 e mesi 8, in considerazione della "natura della controversia" e dello "assai relativo patema d’anima che la vicenda processuale può aver cagionato, considerato che non tocca i beni fondamentali della persona e della vita" liquidava per il danno non patrimoniale Euro 1.500,00, condannando altresì il Ministero della giustizia a pagare le spese del giudizio nella misura di Euro 1.000,00.
Per la cassazione di questo decreto ha proposto ricorso I. M., affidato a dodici motivi; ha resistito con controricorso il Ministero della giustizia.
Ritenute sussistenti le condizioni per la decisione in Camera di consiglio è stata redatta relazione ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comunicata al Pubblico Ministero e notificata alle parti costituite.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1.- Nella relazione ex art. 380 bis c.p.c., nella parte motiva è stato osservato:
"1.- Con i primi nove motivi, ed in parte con il dodicesimo, è denunciata erronea e falsa applicazione di legge (L. n. 89 del 2001, art. 2, e art. 6. p. 1 CEDU), in relazione al rapporto tra norme nazionali e la CEDU, nonchè della giurisprudenza della Corte di Strasburgo e di questa Corte ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, omessa decisione di domande (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5; artt. 112 e 132 c.p.c.) e, in sintesi, sono poste le seguenti questioni:
a) questioni relative alla efficacia della CEDU nell’ordinamento interno ed all’efficacia vincolante per il giudice nazionale della giurisprudenza della Corte EDU (sostanzialmente riproposta in tutti i motivi, richiamando sentenze della Corte europea e di questa Corte;
in tutti i motivi è anche reiterata la tesi della vincolatività del parametro temporale e di liquidazione del danno stabiliti dalla Corte EDU; nel primo riassuntivamente, in buona sostanza, sono indicati gli argomenti poi ribaditi negli altri mezzi, in relazione a dette questioni, e sono svolte considerazioni sulla adeguatezza della L. n. 89 del 2001, a garantire gli obiettivi di cui alla CEDU), in riferimento alle quali è formulato il seguente quesito di diritto:
la L. n. 89 del 2001, e specificamente l’art. 2 costituisce applicazione dell’art. 6 par. 1 CEDU e in ipotesi di contrasto tra la legge Pinto e la CEDU, ovvero di lacuna della legge nazionale si deve disapplicare la legge nazionale ed applicare la CEDU ? (primo motivo).
b) Questioni relative ai criteri di quantificazione del danno non patrimoniale.
L’istante riporta brani di Cass. S.U. n. 28507 del 2005, per sostenere che la giurisprudenza della CEDU costituisce fonte di diritto e, richiamando alcune sentenze di quest’ultima Corte, deduce che il risarcimento dovrebbe essere commisurato all’intera durata del giudizio e formula il seguente quesito di diritto: il periodo da considerare ai fini della liquidazione dell’equo indennizzo di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 e art. 6 par. 1 CEDU va considerato in relazione al tempo eccedente la ragionevole durata e quindi il solo ritardo (in applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, n. 3, lett. a), ovvero all’intera durata del processo (come sancito dalla giurisprudenza CEDU sent. 11/10/2004 e 29/03/2006), dovendosi integrare ed applicare la normativa della CEDU, sopranazionale a quella nazionale ? (secondo motivo), asserendo che in ordine al periodo in relazione al quale va commisurato il risarcimento (se cioè debba aversi riguardo alla durata dell’intero giudizio, ovvero soltanto alla parte eccedente quella ragionevole) il giudice del merito non avrebbe congruamente e compiutamente motivato (terzo motivo). Inoltre, il giudice nazionale sarebbe vincolato dai principi enunciati dalla Corte di Strasburgo, sicchè la loro inosservanza configurerebbe violazione di legge (sono richiamate a conforto alcune sentenze di questa Corte) ed è formulato il seguente quesito di diritto: una volta accertato il diritto all’equo indennizzo lo stesso va liquidato per l’intera durata del processo (come sancito dalla giurisprudenza di Strasburgo) ovvero solo per il periodo eccedente tale durata (come previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, n. 3, lett. a) ? (quarto motivo).
Ad avviso dell’istante, sarebbero vincolanti anche i parametri di liquidazione del risarcimento stabiliti dalla Corte EDU, salvo che non sussistano particolari circostanze, eccepite e dimostrate dalla resistente, che giustifichino il discostamento dai medesimi, ed è quindi formulato il seguente quesito di diritto una volta accertato il diritto all’equo indennizzo lo stesso va liquidato nella misura annua di Euro 1.000,00-1.500,00 ? (quinto motivo) ed è dedotto che la motivazione del decreto sarebbe viziata, in quanto non sono state esplicitate congrue ragioni a conforto della mancata applicazione di detto parametro (sesto motivo).
Secondo la parte, nelle cause aventi ad oggetto la materia previdenziale dovrebbe essere liquidato un bonus di Euro 2.000,00 (sono richiamate alcune sentenze della Corte EDU), e sono formulati i seguenti quesiti di diritto: spetta un’ulteriore somma rationae materiae (bonus di Euro 2.000,00) trattandosi di materia previdenziale come stabilito dalla CEDU, o comunque l’equo indennizzo per tali materie va calcolato in misura maggiore ? (settimo motivo);
il giudice del merito non ha pronunciato sulla domanda concernente detto bonus, ciò costituisce violazione dell’art. 112 c.p.c. ? (ottavo motivo) e, comunque, il decreto sarebbe carente di motivazione sul punto (nono motivo).
Il vizio di motivazione in riferimento a detti profili (concernenti la mancata osservanza dei parametri della Corte EDU e del bonus) è, infine, denunciato anche nell’ultimo motivo (dodicesimo motivo).
1.1.- I motivi decimo, undicesimo, ed in parte il dodicesimo, denunciano violazione dell’art. 6, p. 1 CEDU e dell’art. 1 del protocollo addizionale, della L. n. 89 del 2001, art. 2, degli artt. 91 e 92, c.p.c., delle tariffe professionali, nonchè difetto di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, art. 112 c.p.c.), nella parte concernente la liquidazione delle spese del giudizio e, in sintesi, sono poste le seguenti questioni:
a) la liquidazione delle spese del giudizio in misura insufficiente incide sul diritto della parte e dell’avvocato e le stesse devono essere poste a carico del soccombente, specie nel giudizio nel quale vi è una parte debole (sono richiamate alcune sentenze della Corte EDU) ed è formulato il seguente quesito di diritto è legittimo, con riferimento alla fattispecie che ci occupa, un accoglimento della domanda con liquidazione di spese insufficiente o parziale compensazione delle spese, anche in considerazione dell’art. 1 prot.
add. CEDU direttamente applicabile al caso di specie ? (decimo motivo);
b) nella specie dovrebbe aversi riguardo alle tariffe per il giudizio innanzi alla Corte EDU e, comunque, non alla tariffa concernente i procedimenti di volontaria giurisdizione, poichè questa Corte, in alcune sentenze (richiamate) avrebbe escluso che quello in esame sia riconducibile a detta categoria di procedimenti, con conseguente applicabilità della tabella B, p. 1 per i diritti e della tabella A, p. 3 per gli onorari ed è formulato il seguente quesito di diritto alla fattispecie concreta e con riguardo alle spese di lite, premesso che trattasi di un procedimento ordinario contenzioso (e non di v.g.) vanno applicate le tariffe professionali per i procedimenti ordinari contenziosi (e non quelli di volontaria giurisdizione)? (motivo 11).
Infine, il decreto sarebbe, comunque, carente di motivazione sul capo della liquidazione delle spese (motivo 12).
2.- I motivi indicati nel p. 1, che possono essere esaminati congiuntamente, perchè logicamente connessi, sono in parte manifestamente infondati, in parte manifestamente inammissibili.
Sono manifestamente inammissibili censure (ed i corrispondenti profili dei quesiti) non correlate alla ratio decidendi del decreto, che ha accolto in parte la domanda. Analoga conclusione si impone in ordine alle censure che contengono generiche affermazioni sulla diretta applicabilità delle sentenze della Corte di Strasburgo, formulate in modo non collegato alla motivazione del decreto e che prospettano la inadeguatezza della L. n. 89 del 2001, rispetto allo scopo di dare attuazione alle norme della CEDU ed ai principi enunciati dalla Corte EDU. Posta questa premessa, sì osserva:
a) relativamente alle questione sub a) , ammissibile e rilevante per l’incidenza su quelle ulteriori, va ribadito il principio enunciato dalle S.U., in virtù del quale il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla L. n. 89 del 2001, deve interpretare detta legge in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea. Siffatto dovere opera entro i limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa L. n. 89 del 2001 (sentenza n. 1338 del 2004). In termini analoghi è il principio enunciato dalla Corte costituzionale, che, contrariamente all’assunto dell’istante, che si palesa perciò manifestamente erroneo, ha affermato che al giudice nazionale spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme.
Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale interposta, egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117 Cost., comma 1 (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007).
Resta dunque escluso che, in caso di contrasto, possa procedersi alla non applicazione della norma interna, in virtù di un principio concernente soltanto il caso del contrasto tra norma interna e norma comunitaria.
In questi termini è il principio che può essere enunciato in relazione al quesito formulato con il primo motivo e che, applicato nel caso qui in esame, richiede di accertare se il decreto abbia correttamente applicato le norme della CEDU, nell’osservanza della regola della interpretazione conforme.
b) In ordine alle questioni sintetizzate sub b), va ricordato che, secondo l’orientamento espresso da questa Corte, al quale va data continuità, la precettività, per il giudice nazionale, non concerne anche il profilo relativo al moltiplicatore di detta base di calcolo:
mentre, infatti, per la CEDU l’importo assunto a base del computo in riferimento ad un anno va moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento (e non per ogni anno di ritardo), per il giudice nazionale è, sul punto, vincolante la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole, non incidendo questa diversità di calcolo sulla complessiva attitudine della citata L. n. 89 del 2001, ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo (Cass. n. 14955 del 2008; n. 1354 del 2008; n. 23844 del 2007).
In questi termini è il principio di diritto che può essere enunciato in relazione ai motivi 2 e 4 e che è stato correttamente applicato dal decreto impugnato, con conseguente insussistenza del denunciato vizio di motivazione (oggetto del terzo motivo), peraltro non configurabile in relazione ad una questione che implica un problema interpretativo della norma, non la ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa (tra le molte, Cass. S.U. n. 10313 del 2006; Cass. n. 10127 del 2006; n. 15499 del 2004; n. 6224 del 2002) Relativamente ai criteri di determinazione del quantum della riparazione, questa Corte si è consolidata nell’affermare che quelli applicati dalla Corte EDU non possono essere ignorati dal giudice nazionale, che deve riferirsi alle liquidazioni effettuate in casi simili, tenendo conto che i giudici europei lo hanno individuato nell’importo compreso fra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00. Il danno non patrimoniale deve dunque essere quantificato in applicazione di detto parametro, con la facoltà di apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda (quali: l’entità della posta in gioco.
Il numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento ed il comportamento della parte istante; per tutte, Cass., n. 1630 del 2006; n. 1631 de 2006; n. 19029 del 2005;
n. 19288 del 2005), purchè motivate e non irragionevoli (tra le molte, Cass. n. 6898 del 2008; n. 1630 del 2006; n. 1631 de 2006).
Resta invece escluso che le norme disciplinatrici della fattispecie permettano di riconoscere – come ha invece sostenuto l’istante – una ulteriore somma a titolo di bonus, arbitrariamente indicata in una data entità, svincolata da qualsiasi parametro e dovuta in considerazione dell’oggetto e della natura della controversia.
Infatti, come ha chiarito questa Corte, i giudici europei hanno affermato che il bonus in questione deve essere riconosciuto nel caso in cui la controversia riveste una certa importanza ed ha quindi fatto un elenco esemplificativo, comprendente le cause di lavoro e previdenziali. Tuttavia, ciò non implica alcun automatismo, ma significa soltanto che dette cause, in considerazione della loro natura, è probabile che siano di una certa importanza (Cass. n. 18012 del 2008). Siffatta valutazione rientra nella ponderazione del giudice del merito che deve rispettare il parametro sopra indicato, con la facoltà di apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda (quali: l’entità della posta in gioco, il numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento ed il comportamento della parte istante; per tutte, Cass. n. 1630 del 2006; n. 1631 del 2006; n. 19029 del 2005; n. 19288 del 2005), purchè motivate e non irragionevoli (tra le molte, Cass. n. 6898 del 2008; n. 1630 del 2006; n. 1631 del 2006).
Il giudice del merito può, quindi, attribuire una somma maggiore – anche il succitato bonus – qualora riconosca la causa di particolare rilevanza per la parte, senza che ciò comporti uno specifico obbligo di motivazione, da ritenersi compreso nella liquidazione del danno, sicchè se il giudice non si pronuncia sul c.d. bonus, ciò sta a significare che non ha ritenuto la controversia di tale rilevanza da riconoscerlo (Cass. n. 18012 del 2008).
In questi termini sono i principi che possono essere enunciati in relazione ai quesiti posti con i motivi 5 e 7, che fanno escludere la fondatezza delle censure svolti con i corrispondenti motivi, nonchè con i motivi 6, 8, 9 e 12.
Al riguardo, va osservato che lo standard della Corte EDU di Euro 1.000,00 per anno comporta un parametro di Euro 83,33 al mese, la cui applicazione nella specie, in riferimento al ritardo di venti mesi.
(1 anno ed 8 mesi) avrebbe comportato la fissazione dell’equa riparazione nella misura di Euro 1.666,6.
Il decreto ha liquidato la somma di Euro 1.500,00, pari a Euro 75,00 al mese, sicchè risulta palese che il discostamento rispetto al parametro CEDU è assai limitato ed all’evidenza ragionevole ed è confortato da una motivazione non illogica, riferita alla natura della controversia ed all’incidenza della stessa sulla parte, sufficiente, tenuto appunto conto del lieve scostamento.
Siffatta motivazione non è stata per nulla specificamente censurata, mediante l’indicazione di elementi concreti attinenti alla situazione della parte e la deduzione che sarebbero stati dedotti nel giudizio di merito, avendo svolto l’istante argomentazioni del tutto astratte e svincolate dalla fattispecie in esame.
2.1.- I motivi indicati nel p. 1.1, che possono essere esaminati congiuntamente, perchè logicamente connessi, sono in parte manifestamente infondati, in parte manifestamente inammissibili.
Sono manifestamente inammissibili le argomentazioni (ed i corrispondenti profili dei quesiti) incongrue, non correlate alla ratio decidendi del decreto e che in nessun modo tengono conto della fattispecie, risolvendosi in argomentazioni astratte e prive di pertinenza con il caso di specie. Tanto va rilevato in relazione ai motivi: decimo, laddove si fa riferimento astratto al caso dell’insufficienza delle spese ed alla parziale compensazione delle spese, dato che quest’ultima non è stata disposta dal decreto impugnato; undicesimo, nella parte in cui si deduce che la Corte territoriale avrebbe applicato la tariffa per i procedimenti di volontaria giurisdizione, mancando ogni accenno al riguardo.
Posta questa premessa, le questioni poste vanno risolte facendo applicazione dei seguenti principi, già enunciati da questa Corte:
la L. n. 89 del 2001, non reca nessuna specifica norma in ordine al regime delle spese all’esito dello svolgimento del processo camerale di cui all’art. 3, comma 4 e, in virtù del richiamo ivi effettuato, si applicano sul punto le norme del codice di rito, avendo anche il legislatore dimostrato attenzione a questo profilo, esonerando il ricorrente dal contributo unificato (L. n. 89 del 2001, art. 5 bis, e, successivamente, D.Lgs. n. 115 del 2002, artt. 10 e 265) (Cass. n. 23789 del 2004);
le disposizioni dell’art. 91 c.p.c. e segg., in tema di spese processuali trovano applicazione, in linea generale, nel procedimento camerale nel caso in cui questo statuisca su posizioni soggettive in contrasto, come accade nella specie, senza che nessun ostacolo all’applicazione di detta normativa provenga dalla Convenzione CEDU, ovvero dal Protocollo aggiuntivo (Cass. n. 12021 del 2004), restando esclusa l’applicazione analogica delle disposizioni sulle spese vigenti per i procedimenti innanzi alla Corte di Strasburgo (Cass. n. 1078 del 2003);
dalla CEDU non discende un obbligo, a carico del legislatore nazionale, di conformare il processo per l’equa riparazione da irragionevole durata negli stessi termini previsti, quanto alle spese, per il procedimento dinanzi agli organi istituiti in attuazione della Convenzione, dovendosi escludere che l’assoggettamento del procedimento alle regole generali nazionali, e quindi al principio della soccombenza, possa integrare un’attività dello Stato che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti dalla Convenzione o ad imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione (Cass. n. 18204 del 2003);
la configurazione del procedimento disciplinato dalla L. n. 89 del 2001, quale procedimento contenzioso comporta l’applicabilità della Tab. A-4^ e della Tab.B-1^ e non la Tab.A-3^, erroneamente indicata dall’istante, posto che questa riguarda le cause innanzi ai giudici amministrativi.
In questi termini sono i principi che possono essere enunciati in riferimento ai quesiti qui in esame.
Inoltre, va ricordato che, secondo un principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, la parte che censura in sede di legittimità la liquidazione delle spese processuali è tenuta ad indicare in modo specifico ed autosufficiente quali siano le voci della tabella forense non applicate dal giudice del merito, elencando in dettaglio le prestazioni effettuate, per voci ed importi, così consentendo al giudice di legittimità il controllo di tale error in iudicando, pena l’inammissibilità del ricorso (Cass. n. 17059 del 2007; n. 8160 del 2001), senza bisogno di svolgere ulteriori indagini in fatto e di procedere alla diretta consultazione degli atti (Cass. n. 3651 del 2007; n. 2626 del 2004). La doglianza richiede, inoltre, che dall’erronea applicazione delle voci della tariffa applicata sia conseguita la lesione del principio dell’inderogabilità (stante l’inapplicabilità, ratione temporis, del D.L. n. 223 del 2006, art. 2, comma 1, lett. a), convertito nella L. n. 248 del 2006) ed il ricorrente non può, dunque, limitarsi alla generica denuncia dell’avvenuta violazione del principio di inderogabilità della tariffa professionale o del mancato riconoscimento di spese che si asserisce essere state documentate, in quanto, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, tenuto conto della natura del vizio, devono essere specificati gli errori commessi dal giudice e precisate le voci di tabella degli onorari, dei diritti di procuratore che si ritengono violate, nonchè le singole spese asseritamente non riconosciute (Cass. n. 14744 del 2007; n. 9082 del 2006; n. 13417 del 2001).
Inoltre, con riguardo alla liquidazione degli onorari a carico della parte soccombente, nel caso di difesa di più parti aventi la stessa posizione processuale, il riconoscimento della maggiorazione del venti per cento (D.M. 8 aprile 2004, n. 127, art. 5), con riguardo ad ognuna delle parti assistite e non solo per quelle oltre alla prima, non comporta l’introduzione di un minimo inderogabile della tariffa, bensì importa l’esercizio di un potere discrezionale del giudice, non sindacabile in sede di legittimità (Cass. n. 2254 del 2007; n. 2605 del 1999).
Nella specie siffatto onere non risulta adempiuto, posto che il ricorrente ha dedotto che il decreto avrebbe erroneamente individuato le voci della tariffa forense applicabili, omettendo di procedere alla specifica indicazione dell’attività svolta (in punto di numero di udienze in CC alle quali ha partecipato, di atti depositati) sia alla trascrizione delle singole voci per le quali ciò sarebbe accaduto (con precisa e specifica indicazione per ciascuna di esse della corrispondente voce della tariffa ritenuta applicabile), nell’osservanza del principio sopra indicato. Tale non può ritenersi l’allegazione al ricorso di una specifica che è anche erronea, laddove fa indicazione, per gli onorari, alla Tab.A-3^, contiene in modo indifferenziato la richiesta in relazione ad una pluralità di scaglioni, manca della puntuale indicazione delle voci di riferimento della tariffa indicandone alcune per le quali non si rinviene corrispondenza nella tariffa (indennità di trasferta, per gli onorari), con conseguente inammissibilità delle censure.
Peraltro, siffatta indicazione sarebbe stata viepiù necessaria, posto che il decreto neppure ha esposto di avere fatto riferimento alla tariffa per i procedimenti di volontaria giurisdizione, liquidando una somma (Euro 1,000,00, di cui Euro 500,00, per onorario ed Euro 450,00 per diritti) che è anche superiore ai minimi".
3.- Il Collegio condivide le valutazioni e la conclusione della relazione sopra trascritta, che fondano il rigetto del ricorso.
Le spese di questa fase seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare le spese della presente fase, che liquida in complessivi Euro 900,00, oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2009.
Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2009