D.P.A. chiede, per sei motivi, la cassazione del decreto, emesso l’11 aprile 2005, con cui la Corte d’appello di Roma ne ha respinto domanda di equa riparazione relativamente a un giudizio, avente a oggetto interessi e rivalutazione di indennità di mobilità, promosso davanti al giudice del lavoro di Nola il 23 luglio 1998, definito con sentenza del 22 ottobre 2002 e ancora pendente in grado di appello.
Replica con controricorso il Ministero della Giustizia.
Il ricorso viene trattato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., sulle conclusioni del P.G. in atti.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il secondo, il terzo e il quarto motivo, logicamente prioritari e congiuntamente esaminabili poichè interconnessi, il ricorrente, denunziando violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU e "della L. n. 1034 del 1971", nonchè vizi motivazionali, ascrive alla Corte di avere: a) escluso la configurabilità del danno non patrimoniale per il modesto valore economico della pretesa azionata, laddove pregiudizio siffatto consegue automaticamente alla violazione del termine di ragionevole durata del processo; b) obliterato, ai fini della valutazione del ritardo, la fase stragiudiziale di costituzione in mora della P.A., necessaria per la formazione del silenzio-rigetto, a sua volta prodromica alla proposizione del ricorso giurisdizionale al tribunale amministrativo regionale.
Con il quinto motivo, il ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 6, paragrafo 1, CEDU, artt. 132 e 112 c.p.c., rilevando di avere diritto, per il danno morale patito, a Euro 1.500,00 per ogni anno di durata del processo presupposto.
Con il sesto motivo, il ricorrente denunzia la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU e "della L. n. 89 del 2001", sottolineando la necessità che i giudici nazionali applichino le norme della CEDU secondo i principi di ermeneutica espressi nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, e recepiti dalle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, anche per quanto riguarda la valutazione dei danni morali.
Con il primo motivo, denunziando (incomprensibilmente) la violazione dell’art. 96 c.p.c., si duole della condanna alle spese, che per costante giurisprudenza della Corte EDU andrebbero sempre compensate nei giudizi di equa riparazione per durata non ragionevole del processo.
Le doglianze contenute nei primi tre motivi (2^, 3^ e 4^) sopra compendiati si appalesano manifestamente fondate nei limiti appresso precisati.
Senza neanche determinare la durata ragionevole del processo presupposto (nè, simmetricamente, il lasso di tempo in cui esso si sarebbe irragionevolmente protratto), la corte capitolina ha escluso in radice la possibilità che dall’eventuale ritardo siano conseguite sofferenze psichiche per la ricorrente, atteso il "modesto valore economico" della somma richiesta.
A parte la rilevata omissione, il giudice a qua non considera come costituisca ormai ius receptum presso la giurisprudenza di questa Corte che in tema di equa riparazione, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorchè non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari le quali facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente. In altre parole, la sofferenza di un danno non patrimoniale per la lungaggine del processo, avendo natura meramente psicologica, non è suscettibile di ricevere una obiettiva dimostrazione, ma si verifica nella normalità dei casi, secondo l’id quod plerumque accidit. Può parlarsi in proposito, non di danno insito nella violazione (in re ipsa), ma di prova (del danno) di regola in re ipsa, nel senso che, provata la sussistenza della violazione, ciò comporta, nella normalità dei casi, anche la prova che essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali a discapito della parte processuale. Ma tale consequenzialità, proprio perchè normale e non necessaria o automatica, può trovare, nel singolo caso concreto, una positiva smentita qualora risultino circostanze atte a dimostrare che quel nocumento non si è verificato. D’altra parte, l’indennizzabilità del danno non patrimoniale non può essere esclusa sul rilievo dell’esiguità della posta in gioco nel processo presupposto, dacchè l’ansia e il patema d’animo conseguenti alla pendenza del processo si verificano normalmente anche nei giudizi in cui sia esiguo il valore degli interessi dibattuti, onde tale aspetto può avere un effetto riduttivo dell’entità del risarcimento, ma non totalmente esclusivo del relativo diritto.
In contrasto con i sopra riportati principi, la Corte di appello ha introdotto nella formazione del convincimento circostanza irrilevante ai fini in discorso quale la scarsa entità della posta in gioco. Al contrario, il danno morale è presunto e per vincere detta presunzione devono essere dedotte e provate circostanze specifiche dalle quali possa positivamente escludersi che l’irragionevole protrarsi del giudizio abbia prodotto siffatta conseguenza al richiedente. Il modesto valore della controversia, semmai, può essere indice di un minore impatto psichico e quindi autorizzare una deroga in peius ai parametri di indennizzo elaborati per analoghe controversie dalla Corte europea.
Inammissibile per la sua assoluta incomprensibilità (cfr. Cass. n. 11501/2006) è la doglianza relativa alla necessità di considerare, ai fini del computo della durata ragionevole, la fase della formazione del silenzio rifiuto prodromica alla tutela giurisdizionale davanti al T.a.r., laddove nella specie il giudizio presupposto aveva ad oggetto la condanna dell’I.n.p.s. al pagamento di interessi su trattamento di disoccupazione corrisposto con ritardo, ovviamente richiesta al competente giudice ordinario.
Del pari inammissibili si rivelano le doglianze relative alla quantificazione dell’equo indennizzo, avendo la corte territoriale rigettato nell’an la relativa domanda.
Rimane, invece, assorbito il motivo riguardante la condanna alle spese di lite.
Il ricorso va, dunque, accolto nei punti sopra evidenziati con la conseguente cassazione dell’impugnato decreto e il rinvio della causa ad altro giudice il quale procederà, con ampia libertà di apprezzamento, a nuovo esame della controversia per stabilire, tenendo presente gli enunciati principi, se il termine in cui si è protratto il processo de quo sia irragionevole, tenuto conto dei criteri di contestualizzazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, e, in particolare, della complessità del caso; e, nell’affermativa, se nella fattispecie sussistano situazioni particolari idonee a superare la presunzione che dal processo eventualmente ritenuto eccedente la durata ragionevole sia derivato per il ricorrente un danno non patrimoniale.
Al giudice del rinvio, designato nella stessa corte distrettuale, ma diversamente composta, si demanda anche la regolazione delle spese di questa fase.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa il decreto impugnato e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 9 dicembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 7 gennaio 2009