Con ricorso depositato il 30 Giugno 2004 il sig. T.E. chiedeva l’equa riparazione, ex art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per la violazione del termine ragionevole di durata di un processo da lui promosso in data 2 Marzo 1990 dinanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio nei confronti della regione Lazio, di cui egli era dipendente, al fine di conseguire il riequilibrio tra l’anzianità giuridica ed economica, nonchè di percepire gli emolumenti previsti dalla L.R. Lazio 11 Gennaio 1985, n. 6, (Modifiche dell’ordinamento e del trattamento economico del personale, approvazione, ai sensi della L. 29 Marzo 1983, n. 93, art. 10, u.c., – legge quadro sul pubblico impiego – della disciplina contenuta nell’accordo relativo ai dipendenti delle regioni e degli enti pubblici non economici da esse dipendenti).
Esponeva:
– che la sua domanda era stata accolta con sentenza 11 Giugno 1992, confermata poi, sul gravame della Regione Lazio, dal Consiglio di Stato, con sentenza 26 settembre 2001;
– che nell’inerzia della pubblica amministrazione ad adeguarsi al giudicato, egli aveva dovuto promuovere il giudizio di ottemperanza con ricorso 19 Novembre 2003, tuttora pendente: onde il processo, unitariamente considerato, si era svolto con grave ritardo, causa di danno risarcibile.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel costituirsi in giudizio, eccepiva l’infondatezza della domanda.
Con decreto emesso il 3 Febbraio 2005 la Corte d’appello di Roma, ritenuto che nella specie si dovessero ravvisare due autonomi processi, con finalità nettamente distinte – l’uno di cognizione, iniziatosi di fronte al TAR del Lazio nel 1990 e conclusosi con sentenza del Consiglio di stato del 26 Settembre 2001, ed il secondo di ottemperanza, promosso il 19 Novembre 2003 tuttora pendente – dei quali non era ammissibile l’unificazione ai sensi e per gli effetti della L. 24 Marzo 2001, n. 89, artt. 2 – 4, accertava la decadenza della domanda relativamente al processo amministrativo, per decorso del termine di sei mesi decorrente dal passaggio in giudicato della decisione il Consiglio di Stato, e l’insussistenza, nel merito, della violazione del termine ragionevole in ordine al giudizio di ottemperanza, in conformità con i consolidati parametri di valutazione della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Rigettava, pertanto, il ricorso, con condanna del T. alla rifusione delle spese di giudizio.
Avverso il provvedimento, non notificato, proponeva ricorso per cassazione, notificato il 23 Febbraio 2006, il T., deducendo la violazione della L. n. 89 del 2001, artt. 2 e 4, e dell’art. 6, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, nonchè l’omessa o insufficiente motivazione, giacchè il giudizio di cognizione e quello di ottemperanza dovevano considerarsi fasi di un unico iter procedimentale, in accordo con la giurisprudenza della Corte Europea; nonchè l’inosservanza del principio di effettività del rimedio interno, approntato dall’ordinamento nazionale per la violazione del termine ragionevole del processo: principio, desumibile dagli artt. 117 e 111 Cost., italiana e dagli artt. 26 e 35 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. All’udienza del 7 Novembre 2008 il P.G. ed il difensore precisavano le conclusioni come da verbale, in epigrafe riportate.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Il vaglio critico della tesi di fondo in cui si sostanzia il ricorso – volta ad una configurazione unitaria del processo presupposto, senza soluzione di continuità tra i due segmenti di cognizione e di ottemperanza, al fine di censurare la ritenuta preclusione della domanda di equa riparazione proposta oltre il termine di sei mesi dalla sentenza definitiva del Consiglio di Stato, L. n. 89 del 2001, ex art. 4, (ratio decidendi del decreto impugnato) – esige la previa verifica di conformità del processo amministrativo, nelle due forme predette, con il paradigma legale del processo civile ordinario, di cognizione e di esecuzione, di consolidato inquadramento sistematico.
Al riguardo, giova premettere che l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, rubricato come Diritto a un processo equo, riconosce ad ogni persona il diritto "ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole" (nel testo inglese: everyone is entitled to a fair and public hearing within a reasonable time; in quello francese: droit a un proces public et equitable dans un delai raisonnable). Nel disegnare il perimetro di applicabilità della disposizione, il dato positivo rimane quindi costrittivo, grazie al riferimento testuale al singolo processo (e non al sistema – giustizia nel suo complesso), la cui nozione tecnica non viene enunciata contestualmente dalla Convenzione, con rinvio implicito a quella elaborata in ogni ordinamento giuridico.
A sua volta, la L. 24 Marzo 2001, n. 89, dopo aver richiamato all’art. 2, la norma convenzionale suddetta, fissa all’art. 4, il termine e le condizioni di proponibilità della domanda di riparazione, prescrivendo che essa "può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è diventata definitiva".
La medesimezza del procedimento, ai fini anzidetti, va identificata in funzione di un atto introduttivo di parte e del corrispondente provvedimento conclusivo di natura decisoria, qualunque ne siano natura e contenuto, processuale o di merito, di accoglimento o rigetto. Entro quest’ambito, l’identità unitaria del processo non viene meno per effetto della sua distinzione in gradi (relativi alle impugnazioni) ed in fasi (istruttoria, collegiale, cautelare), che si collocano al suo interno e tutti concorrono alla determinazione della durata complessiva sottoposta allo scrutinio di ragionevole durata. La definitività della decisione, che segna il dies a quo del termine semestrale di decadenza L. n. 89 del 2001, ex art. 4, coincide con il conseguimento dell’irrevocabilità ed immodificabilità del dictum del giudice: e cioè, nell’ambito del giudizio di cognizione, con la cosa giudicata formale, ex art. 324 c.p.c., (Cass., sez. 1^, 7 Marzo 2007, n. 5212).
Nella cornice sistematica del codice di rito, sarebbe quindi palesemente contraddittorio ricollegare organicamente al processo conclusosi con la decisione passata in giudicato la conseguente azione esecutiva, eventualmente promossa; che, in tal modo, fungerebbe quasi da condizione risolutiva della stessa definitività (presupposto per la decorrenza del termine di decadenza L. n. 89 del 2001, ex art. 4), potendo essere promossa ad libitum, senza preclusione temporale, in quanto soggetta alla sola prescrizione decennale dell’actio judicati (art. 2953 c.c.), per di più suscettibile d’interruzione (art. 2943 c.c.). La contraria opinione dell’unicità processuale avrebbe, in ultima analisi, l’effetto paradossale di una rimessione in termini della parte decaduta dalla domanda di equa riparazione, in ipotesi tardivamente proposta rispetto al processo di cognizione irrevocabilmente definito: onde, annettere continuità di svolgimento al processo di cognizione ed a quello d’esecuzione susseguente, al fine di escludere il decorso intermedio del termine preclusivo in questione, appare incompatibile – per la contraddizion che nol consente – con la definitività della cosa giudicata formale.
Sulla scorta di tali considerazioni, questa Corte ha già avuto modo di statuire che il processo esecutivo promosso dalla parte vittoriosa in caso di mancato adempimento spontaneo della sentenza civile di condanna (previa notifica di un atto di precetto, cui si riconosce natura non dissimile dalla domanda di merito), è distinto da quello di cognizione, di cui, in nessun modo, potrebbe essere considerato un prolungamento (Cass., sez. 1^, 30 Novembre 2006, n. 25529): come dimostrato anche dalla normale diversità dell’organo giudiziario competente rispetto a quello che ha emesso la sentenza definitiva e dalla stessa possibilità che al suo interno germoglino ulteriori processi autonomi, inizialmente in forma di sub procedimenti esecutivi (art. 615 c.p.c.: opposizione all’esecuzione; art. 617 c.p.c.: opposizione agli atti esecutivi; art. 619 c.p.c.: opposizione di terzo; art. 548 c.p.c.: accertamento dell’obbligo del terzo ecc.), ciascuno dei quali sindacabile, singolarmente, sotto il profilo della ragionevole durata.
La ricostruzione dualistica valida in materia civile non si presta, peraltro, prima facie, ad una meccanica trasposizione nell’ambito del processo amministrativo, alla luce degli indubbi profili di specificità che connotano il giudizio di ottemperanza.
Sono gli stessi parametri costituzionali (art. 24 Cost., e art. 113 Cost., comma 1) ad imporre anche nelle cause che vedono come parte la Pubblica amministrazione l’effettività della tutela giurisdizionale per il privato vittorioso, mediante il conseguimento del bene della vita riconosciuto.
Prima del riconoscimento formale, da parte del legislatore, con la L. 6 Dicembre 1971, n. 1034, art. 37, istitutiva dei T.a.r., il giudizio di ottemperanza si era venuto storicamente enucleando per gradi.
A seguito della creazione, con L. 31 Marzo 1889, n. 5992, della quarta sezione del Consiglio di Stato, l’unico presidio di tale esigenza risiedeva nel R.D. 17 Agosto 1907, n. 642, art. 88, – Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato (che recita: "L’esecuzione delle decisioni si fa in via amministrativa"), prescrivente alla stessa autorità amministrativa l’adeguamento concreto al dictum del giudice. Il passaggio successivo dell’esecuzione coattiva fu segnato sul formante giurisprudenziale dall’indirizzo della quarta sezione, inaugurato con la decisione 2 Marzo 1928, n. 181, che estese il giudizio di ottemperanza anche alla sentenza de giudice amministrativo rimasta inadempiuta, mediante l’utilizzo del ricorso per l’esecuzione delle sentenze del giudice ordinario previsto dal R.D. 26 Giugno 1924, n. 1054, art. 27, n. 4, (Approvazione dei Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato).
Sotto il profilo formale, la principale asimmetria del giudizio di ottemperanza rispetto al processo esecutivo civile è, senza dubbio, la competenza estesa al merito. Non che essa sia del tutto estranea al processo esecutivo ordinario (artt. 610 – 612 c.p.c.); ma certo, il carattere assolutamente vincolato dell’esecuzione in senso stretto, entro i limiti del titolo, non lascia spazio ad integrazioni sostanziali: tanto meno, affidate alla discrezionalità del giudice, il cui intervento resta circoscritto alle modalità tecniche di attuazione del decisum.
Per contro, è innegabile che il giudizio di ottemperanza presenti connotati misti, sui generis, grazie alla coesistenza, in misura sensibile, di una sfera di cognizione. Questa si concreta, innanzitutto, nella verifica dell’effettivo adempimento da parte della Pubblica amministrazione dell’obbligo di conformarsi agli obblighi derivanti dalla sentenza, il cui contenuto il giudice è quindi chiamato ad enucleare e precisare. Inoltre, allorchè la decisione emessa si sostanzi in un comando in termini di eliminazione, ripristinazione e conformazione a seguito di annullamento di un provvedimento, si rende altresì necessaria un’ulteriore attività di accertamento, sconosciuta al processo esecutivo civile, per la determinazione del rimedio all’inadempimento imputabile all’amministrazione.
In tesi generale, se il processo esecutivo mira ad adeguare il fatto al diritto, il giudizio di ottemperanza deve rendere altresì esplicita e concretare la "regola di prevalenza" enunciata in sentenza all’esito del bilanciamento degli interessi in giuoco; traducendo – com’è stato detto da autorevole dottrina – dal negativo al positivo gli accertamenti del primo giudice sul corretto modo di esercizio del potere. Il processo amministrativo non ha, infatti, solo efficacia demolitoria, ma anche definitoria della norma agendi produttiva dell’effetto conformativo per la successiva azione amministrativa. Di qui, la natura complessa del giudizio di ottemperanza, in cui si fa sentire in modo più evidente la tensione fra l’esercizio dei poteri giudiziari e di quelli di amministrazione; e, quindi la non perfetta assimilabilità al paradigma civilistico.
Sotto questo profilo, il sistema risente della contaminazione tra il modello francese (separazione tra amministrazione e giurisdizione) e quello tedesco (integrazione).
La non perfetta coincidenza del giudizio di ottemperanza con l’archetipo civilistico ha, del resto, radici storiche e trova rispondenza normativa nei più penetranti poteri del giudice, L. 6 Dicembre 1971, n. 1034, ex art. 33, istitutiva dei tribunali amministrativi regionali, e R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, art. 27, comma 1, n. 4, (Testo Unico delle leggi sul Consiglio di Stato). Un riflesso immediato di tale dissonanza è costituito dal rispetto del principio del contraddittorio, che non trova rispondenza nel processo esecutivo ordinario, informato invece al più blando principio dell’audizione, consacrato dall’art. 485 c.p.c., e successivamente richiamato in vari snodi topici (art. 512 – Risoluzione delle controversie in tema di distribuzione della somma ricavata; art. 496 – Riduzione del pignoramento; art. 530 – Provvedimento per l’assegnazione o l’autorizzazione della vendita, ecc.).
Per contro, nel giudizio di ottemperanza si esige la medesima integrità del contraddittorio propria del processo amministrativo ordinario: normativamente prevista solo tra la ricorrente e la P.A. competente ( art. 91, Regolamento n. 642/1907), ma poi estesa dalla giurisprudenza anche ai controinteressati, una volta riconosciuta l’immanenza di aspetti di cognizione, la cui ampiezza è prefigurata in nuce nell’art. 24, n. 4, citato T.U. Cons. di Stato, che annovera il giudizio di ottemperanza tra le ipotesi di giurisdizione "anche in merito".
I poteri del giudice di ottemperanza sono quindi ben più ampi di quelli del giudice dell’esecuzione ordinaria, sebbene investano il merito solo in ordine alle modalità di traduzione pratica del titolo giudiziario. Anche nell’ambito del processo esecutivo, infatti, conserva pieno vigore il limite generale di cui alla L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 4, all. E, (Per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia) che inibisce al giudice ordinario la revoca o modifica dell’atto amministrativo. Se dunque per l’esecuzione della sentenza si richieda l’emanazione di un provvedimento discrezionale, la scelta del mezzo è rimessa all’amministrazione, sulla quale grava l’obbligo di adempiere ( R.D. n. 642 del 1907, art. 88, che esclude dall’esecuzione in via amministrativa la sola statuizione sulle spese), previa assegnazione di un termine sollecitatorio; o, in alternativa ad un commissario ad acta all’uopo nominato, che funge da ausiliario del giudice e non da organo della pubblica amministrazione. Salvo sopravvenienze di fatto che giustifichino, nel pubblico interesse, l’inesecuzione della sentenza, dando luogo, in tal caso, al risarcimento per equivalente del pregiudizio subito. La natura non meramente esecutiva del giudizio di ottemperanza rende ammissibili, al suo interno, financo misure cautelari, il cui carattere coessenziale al processo di merito vizierebbe d’illegittimità la loro esclusione ( Corte costituzionale, 16 luglio 1996, n. 249).
Premessa, quindi, la natura eclettica del giudizio di ottemperanza, partecipe anche di profili di accertamento di merito, resta da esaminare se tale indubbia differenza rispetto al processo esecutivo civile valga a configurarlo come fase postuma del medesimo processo amministrativo di cognizione, senza soluzione di continuità: e dunque senza varco, al suo interno, per la decorrenza del termine di decadenza della domanda di equa riparazione, L. n. 89 del 2001, ex art. 4.
La risposta negativa emerge, prima ancora che dall’opzione interpretativa che riconduca al genus del processo esecutivo, nonostante le differenze rimarcate, la species del giudizio di ottemperanza, dall’analisi strutturale del procedimento, che ne rende impraticabile l’assimilazione al giudizio principale nonostante il tessuto connettivo della comune competenza di merito.
Innanzitutto, se il giudicato amministrativo è efficace ultra partes, l’ottemperanza può essere richiesta da qualunque interessato, anche se rimasto estraneo al giudizio; e reciprocamente, anche nei confronti di un soggetto pubblico diverso da quello che abbia resistito nel giudizio di merito, purchè tenuto all’adempimento di un obbligo puntuale derivante dal dictum del giudice (Cons. di Stato 14 Febbraio 2000, n. 757; Cons. di Stato 6 Maggio 1997, n. 690): evenienze, in radice escluse all’interno di un singolo processo, in cui l’intervento di ulteriori soggetti, che non siano litisconsorti necessari, è ancorato a limiti rigidi di ammissibilità.
Ma l’autonomia del giudizio di ottemperanza emerge con ancor maggiore evidenza dal regime d’impugnabilità della relativa sentenza. La L. n. 1034 del 1971, non prevedeva l’appello, la cui ammissibilità, inizialmente negata (Consiglio di Stato, ad. plenaria, 14 Luglio 1978, n. 23), è stata, nel prosieguo, a partire dal revirement giurisprudenziale (Cons. di Stato 29 Gennaio 1980, n. 2), sempre più latamente affermata in ordine alla sussistenza dei presupposti di legge (Cons. Stato 26 Aprile 2005, n. 1905; Cons. Stato 21 Febbraio 2005, n. 625). Nè l’appello esaurisce la gamma dei mezzi d’impugnazione esperibili, comprendente anche l’opposizione di terzo (Cons. di Stato 3 marzo 2001, n. 1999) e, teoricamente, lo stesso ricorso per cassazione per difetto di giurisdizione (unico sindacato consentito dall’art. 111 Cost., e art. 362 c.p.c.: Cass., sez. unite, 19 Luglio 2006, n. 16.469); sebbene sia difficile ipotizzare, in subiecta materia, la violazione di un limite esterno della giurisdizione amministrativa.
Ne risulta un iter processuale duplicato, rispetto a quello di cognizione, incompatibile con una valutazione unitaria della durata ragionevole: come già ritenuto, analogamente, da questa Corte in tema di scissione del processo in punto an e quantum debeatur (Cass., sez. 1^, 7 Luglio 2008, n. 18603).
Ancora più manifesta è la rottura dell’unità procedimentale dopo la Novella 21 Luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa), che ha dato ingresso al giudizio di ottemperanza anche per le sentenze del T.a.r. provvisoriamente esecutive e non sospese dal Consiglio di Stato (superando così il presupposto del giudicato); e financo per le ordinanze cautelari (L. n. 1034 del 1971, art. 21, comma 14, novellato dalla L. n. 205 del 2000, art. 3). Al riguardo, la L. n. 1034 del 1971, art. 33, nel testo originario, esordiva con l’enunciazione dell’esecutività (provvisoria) delle sentenze dei T.a.r., ma restava lex imperfecta, dato che la giurisprudenza di legittimità aveva affermato l’imprescindibile requisito del giudicato per dare ingresso al giudizio di ottemperanza (Cass., sez. unite 18 Settembre 1970, n. 1563); seguita poi dal conforme indirizzo del Consiglio di Stato (Adunanza plenaria 23 Marzo 1979 n. 12).
Anche a tal riguardo è da escludere, dopo la Novella n. 205/2000, che il giudizio di ottemperanza di una sentenza provvisoriamente esecutiva (in pendenza del gravame), e ancor più di un provvedimento cautelare, sia una fase, in senso tecnico, del medesimo giudizio di cognizione – che, nelle more, proseguirebbe, parallelamente, il suo iter ordinario nel grado d’impugnazione (o nello stesso grado, se l’ottemperanza riguardi una misura cautelare) – non essendo ipotizzabile una doppia fase coeva, tanto più se dinanzi ai giudici diversi, del medesimo processo. Non si saprebbe più, in tale concomitanza, a quale dies a quo ancorare l’inizio del termine semestrale per proporre la domanda di equa riparazione.
Non meno sintomatica della rottura dell’unità dell’iter procedimentale appare la possibile regressione del giudizio di ottemperanza ad un giudice inferiore rispetto a quello che ha emesso la sentenza esecutiva. La L. 6 Dicembre 1971, n. 1034, art. 37, u.c., (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali) prevede infatti per il giudizio di ottemperanza la competenza del T.A.R. anche quando si tratti di una decisione resa dal Consiglio di Stato, in sede di appello, di contenuto meramente confermativo della pronuncia impugnata. Il fatto che competente possa essere un giudice diverso, ed inferiore, costituisce un sintomo evidente della cesura irriducibile, in sede sistematica, tra i due processi e una conferma dell’impossibilità di ritenere l’uno la prosecuzione dell’altro. La fisiologica evoluzione ascensionale, dal giudice inferiore a quello superiore, verso la formazione del giudicato, verrebbe in questo caso interrotta da un disarmonico ritorno al primo giudice nei casi, non infrequenti, in cui il Consiglio di Stato si limiti a rigettare l’impugnazione.
In questo senso, postulare la perdurante unitarietà del giudizio, dal ricorso introduttivo del primo grado fino all’esaurimento del giudizio di ottemperanza, significherebbe configurare un modello processuale atipico, caratterizzato da un andamento pendolare e dalla possibile reiterazione di pronunce da parte del medesimo giudice in fasi successive.
Nè appare valida obiezione, al riguardo, che non mancano nel processo civile ordinario ipotesi di translatio judicii per ragioni di competenza (artt. 38 e 616 c.p.c., art. 619 c.p.c., comma 3, e prima della Novella 26 Novembre 1990 n. 353, anche art. 667 c.p.c., comma 1), pur nell’indubbia conservazione dell’unità processuale, trattandosi di evenienze confinate alla fase iniziale di individuazione del giudice competente. Quando poi il trasferimento del processo si verifichi a seguito di sentenza (artt. 353, 354 e 383 c.p.c.), ciò dipende da patologie processuali che ne impongono la regressione a scopo di rinnovazione, totale o parziale: finalità del tutto assente, com’è ovvio, nel giudizio di ottemperanza, che anzi presuppone la validità ed efficacia esecutiva della sentenza "a monte".
Resta, in ultima analisi, eccentrica all’ordine sistematico la regressione al giudice inferiore come fase fisiologicamente successiva a quella già definita con pronunzia formalmente inattaccabile con i mezzi ordinari (art. 324 c.p.c.).
Si aggiunga ancora che, ai sensi del R.D. 17 Agosto 1907, n. 642, art. 90, comma 2, (Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato), il giudizio di ottemperanza può essere avviato "finchè duri l’azione di giudicato"): e cioè, non entro un rigido termine di decadenza, come per tutte le impugnazioni ordinarie, bensì entro il termine di prescrizione di 10 anni proprio dell’actio judicati (art. 2953 c.c.). Poichè è comunemente ammesso il concorso del processo esecutivo civile con il giudizio di ottemperanza per sentenze che condannino l’amministrazione al pagamento di somme di denaro -ad esempio, per spese di lite – ritenere che il giudizio di ottemperanza sia la prosecuzione di quello di cognizione, senza alcuno iato intermedio, significherebbe, di riflesso, sottoporre il ricorso per equa riparazione ad un doppio binario sotto il profilo del termine semestrale di decadenza L. n. 89 del 2001, ex art. 4: a seconda che si segua la strada del processo esecutivo civile (dies a quo: definitività della sentenza di merito), o per contro, quella del giudizio di ottemperanza, al cui esaurimento verrebbe ad essere posposto il medesimo termine. Con una dilatazione temporale, potenzialmente sine die, della proponibilità della domanda indennitaria, stante la prescrizione decennale dell’actio judicati, passibile, altresì, di interruzione.
In questo caso, l’indeterminatezza potenziale del termine consentirebbe di procrastinare, pressochè ad libitum, il termine di decadenza di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 4, restando sempre opponibile alla relativa eccezione della parte pubblica convenuta in equa riparazione – motivata col decorso del termine semestrale rispetto alla sentenza definitiva – la potenziale reviviscenza del processo, con conseguente riapertura del termine, legata alla perdurante esperibilità dell’azione di ottemperanza.
Nè si può eludere l’insostenibilità degli effetti di ordine sistematico cui condurrebbe la ricostruzione unitaria del processo di cognizione e di ottemperanza (c.d. argomento apagogico) sottraendo dalla durata complessiva, valutabile sotto il profilo della ragionevolezza, il periodo di tempo intercorrente tra la sentenza definitiva e l’inizio del giudizio di ottemperanza (che nel processo presupposto promosso dal T. è stato di un anno e dieci mesi: dal 26 Settembre 2001 al 19 Novembre 2003): imputando, cioè, il ritardo ad un comportamento della parte rilevante in senso esimente, ai sensi della L. 24 Marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 2.
Non si tratta, infatti – contrariamente a quanto sostenuto dal difensore – di un periodo neutro (paragonabile alle richieste di rinvio di udienza o alla stasi durante il termine lungo per impugnare, ex art. 327 c.p.c.), dal momento che ad esso non si può riconoscere natura endoprocessuale, incompatibile con la decorrenza della prescrizione (che resta, invece, sospesa, in corso di processo: art. 2945 c.c., comma 2).
Alla luce dei rilievi sopra esposti, si deve quindi concludere che la definizione del giudizio di ottemperanza come prosecuzione del processo di cognizione, non infrequente nella prassi, riveste mera natura empirica (si parla anche di giudicato a formazione progressiva), in accezione descrittiva dello specifico mezzo processuale satisfattivo a disposizione della parte vittoriosa in forza di una sentenza non autoesecutiva. Resta però innegabile il suo carattere di spiccata autonomia, irriducibile sotto il profilo strutturale ad una mera fase (e tanto meno, ad un grado) dello stesso processo di cognizione; autonomia, resa vieppiù evidente dal requisito della procura ad hoc (Cons. di Stato, 28 Luglio 1977, n. 708).
Sul tema, appare quindi meritevole di riesame critico e di conclusione dissenziente la contraria opinione espressa da questa Corte (sez. 1^, 18 Aprile 2005, N. 7978; adesivamente richiamata, senza ulteriori approfondimenti, da Cass., sez. 1^, 30 Maggio 2008, n. 14595), motivata con la funzione del giudizio di ottemperanza di realizzare "lo scopo di dare piena ed effettiva soddisfazione al medesimo interesse sostanziale riconosciuto dalla sentenza da adempiere, con un provvedimento che spesso si palesa integrativo di tale sentenza e che comunque ne specifica il contenuto": trattandosi di connotazione che, seppur non priva di fondamento empirico, si palesa inidonea a giustificare, in sede concettuale, l’unificazione di due processi tecnicamente distinti.
Ne consegue che correttamente la Corte d’appello di Roma ha rilevato la dicotomia dei processi presupposti promossi dal T., oggetto di scrutinio di ragionevole durata, statuendo la decadenza, per tardività, della domanda di equa riparazione rispetto al passaggio in giudicato della decisione del Consiglio di Stato e ravvisando, simmetricamente, l’insussistenza della violazione del termine ragionevole in ordine al giudizio di ottemperanza.
Il ricorso è dunque infondato e va respinto.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 7 novembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2009