Con ricorso ai sensi della legge 24.3.2001 n. 89, depositato il 16.12.2008, B.A., D.P.R., L.B.G., P.G., T.L. si sono rivolti alla Corte di Appello di Torino, chiedendo l’accertamento della violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, e della conseguente piena responsabilità del Ministero della Economia e delle Finanze, con riferimento alla eccessiva durata di un procedimento giurisdizionale amministrativo (r.g. 800/98) incardinato con ricorso 29.4.1998 al TAR Piemonte, con cui essi (tutti appartenenti al Corpo Forestale dello Stato) avevano chiesto l’annullamento del provvedimento di determinazione dirigenziale n. 79/prot. 20383 del 21.11.1997 relativo alla commisurazione di somme dovute a titolo di restituzione per il pregresso riconoscimento indebito di buoni pasto.
I ricorrenti esponevano che, nonostante il deposito di istanza di fissazione di udienza contestualmente all’iscrizione a ruolo, di nuova istanza di fissazione di udienza in data 20.12.2007 e di istanza di prelievo in data 26.11.2008, la causa era ancora pendente in primo grado.
L’Amministrazione resistente si costituiva, depositando e scambiando comparsa di costituzione e risposta, producendo documenti e chiedendo riunirsi il procedimento ad altro connesso e dichiararsi inammissibile o in subordine infondato il ricorso avversario, con favore di spese.
La Corte, all’udienza camerale del 20.5.2009, dopo la replica di parte ricorrente, si é riservata di provvedere sulle conclusioni in epigrafe.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Osservazioni preliminari in tema di ammissibilità e competenza.
Nulla quaestio sia circa l’osservanza del termine di cui all’art. 4 della legge 89 del 2001 (risultando ancora pendente il giudizio di primo grado, ancorché dalla prodotta relazione informativa risulti imminente la sua definizione), sia circa la competenza territoriale della Corte di Appello di Torino ai sensi dell’art. 25 c.p.c., sia circa l’ammissibilità della proposizione del ricorso cumulativo.
2 Premessa.
L’art. 2 della legge 24.3.2001 n. 89 prevede il diritto ad una equa riparazione a favore di chi abbia subito un danno, patrimoniale o non patrimoniale, per effetto di violazione della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4.8.1955 n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione.
Il secondo comma della stessa norma prevede che nell’accertare la violazione il giudice debba considerare la complessità del caso e in relazione a tale complessità, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonché quello di ogni altra Autorità chiamata a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.
Il terzo comma dello stesso articolo, infine, detta le regole per la determinazione della riparazione, richiamando il disposto dell’art. 2056 c.c., escludendo l’indennizzabilità del periodo temporale non eccedente il termine ragionevole e specificando le modalità ripristinatorie del danno morale.
All’opportuno inquadramento normativo e sistematico, faticosamente tentato dalla giurisprudenza per superare le difficoltà di armonizzazione del nuovo istituto nel nostro ordinamento, giova l’insegnamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. SS.UU 26.1.2004 n. 1339 e n. 1340), che è il caso di ricapitolare brevemente:
– il fatto giuridico che fa sorgere il diritto all’equa riparazione è costituito dalla violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4.8.1955 n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo 1 della Convenzione;
– la legge n. 89 del 2001 identifica il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo per relationem, riferendosi ad una specifica norma della CEDU;
– il Giudice convenzionalmente legittimato all’interpretazione delle disposizioni contenute nella CEDU è la Corte europea dei diritti dell’uomo con sede a Strasburgo;
– il fatto giuridico della violazione è "conformato" dalla giurisprudenza della Corte europea che si impone ai fine dell’applicazione della legge n. 89 del 2001 ai Giudici italiani;
– l’applicazione diretta nell’ordinamento italiano di una norma della CEDU non può discostarsi dall’interpretazione che al proposito ne dà la Corte di Strasburgo;
– una diversa interpretazione nel senso dell’autonomia della legge n. 89 del 2001 la renderebbe priva di giustificazione ed esporrebbe lo Stato italiano alla violazione dell’art. 1 della Convenzione stessa;
– la legge 89 del 2001 ha quindi la funzione di rimedio giurisdizionale interno, dotato di concreta effettività (art. 35 Convenzione) contro le violazioni relative alla durata dei processi, sì da realizzare la sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo, sancita espressamente dall’art. 35 della Convenzione ;
– il giudice della completezza ed effettività della tutela apprestata dai singoli sistemi nazionali è la Corte di Strasburgo, ai sensi dell’art. 41 della CEDU;
– ne consegue, come affermato dalla Corte di Strasburgo nella sentenza 27.3.2003 Scordino e altri/Italia, che il giudice italiano deve – quanto piè è possibile – applicare e interpretare il diritto nazionale in conformità alla Convenzione, per come essa vive nella giurisprudenza della Corte;
– che in tale attività interpretativa, che trova ostacolo solo nella insuperabile lettera della norma nazionale, il Giudice italiano deve peraltro tener conto del fondamentale canone ermeneutico che gli impone di interpretare la norma nel senso in cui sia compatibile con la Carta Costituzionale;
– che non vi è dubbio, anche alla stregua della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che il danno patrimoniale va provato in tutte le sue componenti con rigore;
– che, per contro, la Corte di Strasburgo è solita liquidare il danno non patrimoniale alla vittima della violazione, senza bisogno che la sua sussistenza sia provata, anche solo in via presuntiva, in modo pressoché automatico una volta accertata la violazione del termine ragionevole di durata;
– che tuttavia, anche in presenza di tale orientamento, il danno non patrimoniale non può ritenersi insito, quale danno in re ipsa, nella mera esistenza della violazione, come del resto prevede la stessa Convenzione, il cui art. 41 considera l’eventualità dell’attribuzione dell’indennizzo;
– non è quindi accettabile la teoria del c.d. "danno-evento" ed anche il danno non patrimoniale viene in considerazione quale conseguenza della violazione, ma a differenza del danno patrimoniale si riscontra normalmente, e cioè di regola, per effetto della violazione stessa (per la prima affermazione del principio: Cass. 8.8.2002 n. 11.987);
– è quindi normale che l’anomala lunghezza del processo produca nella parte coinvolta patema d’animo, ansia e sofferenza morale, che ne costituiscono conseguenze normalmente ricorrenti, e che quindi non bisognano di prova alla stregua dell’id quod plerumque accidit;
– possono peraltro verificarsi situazioni concrete in cui tali conseguenze normali debbono essere escluse o perché il protrarsi del giudizio corrisponde ad un interesse della parte, o è comunque destinato a produrre conseguenze percepite dalla parte come favorevoli, ovvero in presenza di una situazione di piena consapevolezza della parte istante dell’infondatezza o della inammissibilità delle proprie pretese;
– la legge 89/2001 non è quindi in contrasto con la CEDU, dovendosi parlare, quanto al danno non patrimoniale, non già di danno in re ipsa, ma di prova del danno di regola in re ipsa, suscettibile di smentita nella situazione concreta, proprio perché conseguenza normale ma non necessaria e automatica;
– i criteri di determinazione del quantum elaborati dalla Corte di Strasburgo non possono essere ignorati dal Giudice nazionale, anche se compete la facoltà di un ragionevole scostamento;
– la liquidazione operata dalle Corti di appello a norma dell’art. 2 della legge 89/2001, pur conservando la sua natura equitativa, è tenuta a muoversi entro un ambito definito dal diritto, perché segnato dall’esigenza del rispetto della CEDU, quale essa vive nelle decisioni della Corte;
– in ogni caso nella determinazione del quantum il giudice è vincolato al rispetto della domanda e al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, sicché non deve mai superare quanto richiestogli dall’attore.
3. Il fondamento della responsabilità per durata non ragionevole del processo.
Operate tali necessarie premesse, la Corte ritiene opportuno mettere a fuoco con precisione il fondamento della responsabilità per durata non ragionevole del processo, alla luce della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e dell’ordinamento interno italiano, procedendo all’inquadramento sistematico della legge n. 89 del 2001, tenendo conto del suo preciso e insostituibile collegamento funzionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, quale delineato nella richiamata e autorevole lettura operata dalle Sezioni Unite della Corte Suprema.
Non sono quindi condivisibili gli assunti che pretendano di individuare una violazione dei tempi ragionevoli del processo, senza riferirsi alla giurisprudenza di Strasburgo (con il rifiuto del c.d. "cronografo"), o soprattutto di correlare la tempistica processuale esclusivamente all’ordinamento giuridico e processuale italiano, sì da riconoscere l’eccessiva dilazione dei tempi processuali solo in situazioni di violazione delle regole vigenti o di comportamenti colposi o negligenti di pubblici funzionari.
La violazione della durata ragionevole va invece apprezzata in linea puramente oggettiva, anche se ovviamente occorre tener presente il parametro fondamentale della complessità del caso (che va integrata con la considerazione dei comportamenti di tutti i soggetti coinvolti nel processo) a prescindere da ogni concreta responsabilità personale (neppure pensabile al di fuori di qualsiasi tutela dei diritti di contraddittorio e difesa in capo ai singoli interessati) e a prescindere da ogni disfunzione dell’apparato giustizia rispetto alle regole (nazionali) che ne governano il funzionamento.
Ciò che viene infatti in considerazione è la responsabilità complessiva dello Stato-giurisdizione nel fornire le proprie risposte nei confronti del singolo cittadino coinvolto, titolare del diritto fondamentale al rispetto dei tempi "ragionevoli" del processo, tutelato attraverso l’art. 6 CEDU e la legge 89/2001.
Pertanto, anche alla stregua dell’insegnamento delle Sezioni Unite, non sarà mai possibile in presenza di una durata "irragionevole" del processo, rispetto agli standards della Corte di Strasburgo, escludere la responsabilità dello Stato Italiano sul presupposto dello scrupoloso rispetto di tutte le norme ordinamentali e processuali che disciplinano l’esercizio della giurisdizione, o, ancor meno, giustificarla alla luce di carenze di organici, risorse e fondi che ne compromettano l’efficienza, o ancora, sotto altro profilo, esigerne comparativamente una diversa (e più benevola) considerazione sul presupposto della maggior effettività della tutela dei diritti di difesa asseritamente assicurata dal nostro ordinamento.
Analogamente, quanto al danno non patrimoniale, se è vero che la legge 89/2001 non autorizza a configurare una sorta di danno evento, e quindi un danno in re ipsa, va ricordato che è la prova del danno non patrimoniale ad essere di regola in re ipsa, suscettibile peraltro di patir smentita nella situazione concreta, proprio perché conseguenza normale, ma non necessaria e automatica della violazione.
4. La questione di ammissibilità temporale.
In passato altra Sezione di questa Corte ha ritenuto che la responsabilità dello Stato non potesse esser fatta valere per fatti anteriori all’entrata in vigore della c.d. "Legge Pinto", potendo "essere azionata nel momento in cui il fatto generatore di esso si è perfezionato, con l’effetto per cui solo i fatti generatori di responsabilità consumatisi dopo l’entrata in vigore delle legge stessa sono indennizzabili, posto che prima di allora la fattispecie neppure esisteva nel nostro ordinamento". (Corte di Appello di Torino, sez.IV°, decr.17.5.2002).
La tesi così argomentata non può essere condivisa giacché la legge 24.3.2001 n. 89 si è limitata ad introdurre nel nostro ordinamento, sia pure con alcune specifiche peculiarità lo strumento processuale di tutela di un diritto soggettivo comunque già preesistente, ossia quello alla durata ragionevole del processo e all’indennizzo della sua lesione, già comunque riconosciuto nel nostro ordinamento per effetto della ratifica della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
In questo senso ha del resto opinato, oltre alla giurisprudenza di gran lunga prevalente di questa Corte di Appello, la stessa Corte di Cassazione, che al riguardo ha affermato:
– "L’art. 2 l. 24 marzo 2001 n. 89, che prevede il diritto ad un’equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo, contempla, senza limitazioni di sorta, le violazioni dell’art. 6, paragrafo 1, convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e, quindi, riguarda le inosservanze del canone della ragionevole durata del processo verificatesi dopo la ratifica di detta convenzione da parte dell’Italia (avvenuta con l. 4 agosto 1955 n. 848), anche se prima dell’entrata in vigore della medesima legge n. 89 del 2001. Tale ambito applicativo non incide, però, sull’efficacia "ex nunc" della disposizione – in quanto costitutiva del diritto a riparazione in dipendenza di quelle circostanze – in assenza di un’espressa previsione di retroattività, con la conseguenza che la morte della vittima di tempi irragionevoli del processo, se intervenuta prima dell’entrata in vigore della legge n. 89 del 2001, osta alla nascita del diritto in questione e, quindi, alla sua trasmissione agli eredi."(Cass. civ. sez.I°, 11.12.2002 n. 17650).
5. La necessità di riferirsi al solo periodo eccedente la durata ragionevole del processo.
La Corte ritiene di precisare che il riconoscimento dell’indennizzo non può essere ragguagliato all’intera durata del processo ma va proporzionato solamente all’ambito temporale eccedente la durata non ragionevole.
Spesso questa Corte si è trovata a dover esaminare richieste (ora esplicite, ora implicite) rivolte a far liquidare l’indennizzo non già con riferimento al solo periodo di ritardo del processo rispetto alla sua ragionevole durata, ma piuttosto con riferimento alla complessiva durata del processo gravato dall’irragionevole ritardo.
In tale prospettiva non sarebbe fuor di luogo la citazione della pronuncia della Corte Europea nel caso Musci/Italia, ric. 64699/01, datata 10.11.2004 (in cui effettivamente la Corte di Strasburgo all’inizio del § 27 fa riferimento a parametri commisurati ad anno di durata della procedura e non ad anno di ritardo rispetto alla durata ragionevole del processo).
Questa impostazione non può tuttavia essere seguita, ostandovi l’ineludibile argomento ritratto dal diritto positivo, giacché il 3° comma dell’art. 2, alla lettera a), prescrive al Giudice di aver riguardo solamente al "danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole di cui al comma 1".
Fra l’altro, la diversa impostazione appare semplicemente priva di senso comune nell’ottica di ristorare un pregiudizio conseguente alla violazione del diritto al rispetto di una durata ragionevole del processo, assicurato prima ancora che dalla legge n. 89 del 2001, dall’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; è infatti evidente che esiste una durata fisiologica del processo, nell’ambito della quale la parte non subisce alcuna lesione del proprio diritto, sicché non si comprende in base a quale logica dovrebbe essere indennizzato anche il periodo di tempo corrispondente alla durata ragionevole del processo; oltretutto, un minimo di omogeneità di trattamento di casi simili autorizzerebbe ad estendere, del tutto paradossalmente, tale indennizzo anche a favore dei soggetti che abbiano ottenuto la risposta giurisdizionale in un tempo congruo e ragionevole.
La giurisprudenza della Suprema Corte non lascia peraltro adito a dubbi circa l’erroneità dell’opzione caldeggiata da parte ricorrente:
– "L’equa riparazione di cui alla l. 24 marzo 2001 n. 89, compete solo nella misura in cui essa valga ad indennizzare un pregiudizio che sia conseguenza immediata e diretta della violazione del diritto della parte alla ragionevole durata del processo, e in quanto sia riferibile al periodo eccedente il termine di durata ragionevole, sicchè è da escludere che, mancando un nesso di tal fatta, siano indennizzabili a tale titolo le spese che la parte medesima abbia sopportato per far valere, nel giudizio presupposto, la tutela del proprio diritto. La definizione delle spese legali relative al giudizio di merito, infatti, deve circoscriversi nell’ambito di quella vicenda processuale."(Cassazione civile, sez. I, 5 agosto 2004, n. 15106);
– "Ai fini dell’equa riparazione ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89, rileva solamente il periodo eccedente il termine di durata ragionevole del processo che non sia imputabile alla parte istante; sicché, una volta accertato che il ritardo nella definizione della lite è dipeso da disfunzioni riferibili all’ufficio giudiziario, il giudice non può escludere l’indennizzo sul solo rilievo che, nella specie, altri ritardi erano imputabili al comportamento della parte medesima."(Cassazione civile, sez. I, 3 settembre 2003, n. 12808).
6. Particolarità della valutazione di eccessiva durata del processo con riferimento ai giudizi amministrativi dinanzi al TAR.
Merita una specifica riflessione la valutazione di eccessiva durata del processo con riferimento ai giudizi amministrativi dinanzi al TAR.
Dopo alcune oscillazioni iniziali, dopo l’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la pronuncia del 23.12.2005, n. 28507, la giurisprudenza si è orientata a negare rilievo al ricorso, più o meno solerte e tempestivo, della parte ricorrente agli strumenti sollecitatori previsti dal rito giurisdizionale amministrativo prima della riforma del 2000, e in particolare alla c.d. "istanza di prelievo" (istituto insorto nella prassi applicativa sulla base dell’applicazione per relationem ai giudizi dinanzi ai TAR dell’art. 51 del Regolamento di procedura di cui al r.d. 642/1907), quantomeno ai fini della determinazione della durata ragionevole del processo.
La ricordata giurisprudenza ha ammesso tuttavia che il Giudice dell’equa riparazione possa tener conto dell’omessa proposizione dell’istanza in sede di valutazione del comportamento negligente della parte ed al solo fine dell’apprezzamento dell’entità del patito pregiudizio:
"In tema di equa riparazione ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89, la lesione del diritto alla definizione del processo in un termine ragionevole, di cui all’art. 6, paragrafo 1, della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, va riscontrata, anche per le cause davanti al giudice amministrativo, con riferimento al periodo intercorso dall’instaurazione del relativo procedimento, senza che una tale decorrenza del termine ragionevole di durata della causa possa subire ostacoli o slittamenti in relazione alla mancanza dell’istanza di prelievo od alla ritardata presentazione di essa. La previsione di strumenti sollecitatori, infatti, non sospende né differisce il dovere dello Stato di pronunciare sulla domanda, in caso di omesso esercizio degli stessi, né implica il trasferimento sul ricorrente della responsabilità per il superamento del termine ragionevole per la definizione del giudizio, salva restando la valutazione del comportamento della parte al solo fine dell’apprezzamento della entità del lamentato pregiudizio. (Principio affermato con riferimento al "sistema vigente prima dell’entrata in vigore della legge n. 205 del 2000")."
La giurisprudenza successiva si è allineata con l’arresto delle Sezioni Unite:
– "In tema di equa riparazione per durata irragionevole del processo amministrativo, tale durata deve computarsi dalla data del deposito del ricorso dinanzi agli organi di giustizia amministrativa fino a quella della decisione o della domanda di indennizzo in caso di processo ancora pendente, indipendentemente dal fatto che sia stata o meno presentata la c.d. istanza di prelievo."(Cassazione civile, sez. I, 4 dicembre 2006, n. 25668);
– "In tema di equa riparazione ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89, la lesione del diritto alla definizione del processo in un termine ragionevole, di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, va riscontrata, anche per le cause davanti al giudice amministrativo, con riferimento al periodo intercorso dall’instaurazione del relativo procedimento, senza che una tale decorrenza del termine ragionevole di durata della causa possa subire ostacoli o slittamenti in relazione alla mancanza dell’istanza di prelievo od alla ritardata presentazione di essa. La previsione di strumenti sollecitatori, infatti, non sospende né differisce il dovere dello Stato di pronunciare sulla domanda, in caso di omesso esercizio degli stessi, né implica il trasferimento sul ricorrente della responsabilità per il superamento del termine ragionevole per la definizione del giudizio, salva restando la valutazione del comportamento della parte al solo fine dell’apprezzamento della entità del lamentato pregiudizio."(Cassazione civile, sez. I, 16 novembre 2006, n. 24438);
– "Ai fini della valutazione di ragionevolezza, la durata del processo davanti al giudice amministrativo va computata con riferimento al tempo intercorso dalla instaurazione del procedimento fino alla sua definizione, indipendentemente dal fatto che la parte abbia omesso o ritardato la presentazione della istanza prelievo, salva restando la valutazione del comportamento negligente della parte al solo fine dell’apprezzamento dell’entità del patito pregiudizio."(Cassazione civile, sez. I, 2 novembre 2006, n. 23519).
In materia è intervenuto l’art. 54, 2° comma, del d.l. 25.6.2008 n. 112, successivamente modificato in sede di conversione dall’articolo 1, 1° comma, della legge 6 agosto 2008, n. 133, secondo il quale
"La domanda di equa riparazione non é proponibile se nel giudizio dinanzi al giudice amministrativo in cui si assume essersi verificata la violazione di cui all’articolo 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89, non é stata presentata un’istanza ai sensi del secondo comma dell’articolo 51 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642".
Tale disposizione è applicabile alla presente fattispecie in quanto il ricorso è stato depositato dopo la sua entrata in vigore; la parte ricorrente ha provato di aver provveduto a depositare l’istanza in parola, come risulta dal prodotto dettaglio del ricorso estratto dal sito ufficiale del Tar Piemonte (da cui emerge la proposizione di una nuova istanza di fissazione di udienza il 20.12.2007 e la proposizione di domanda di prelievo in data 26.11.2008) e come risulta altresì dalla relazione informativa prodotta da parte dell’Amministrazione resistente.
La Difesa Erariale (cfr pag.3 della comparsa costitutiva) sostiene peraltro che il ricorso sarebbe inammissibile con riferimento al citato art. 54, comma 2°, della legge 133 del 2008, la cui ratio viene colta nell’intento di scongiurare la presentazione di ricorsi da parte di chi non abbia dimostrato – attraverso la proposizione dell’istanza di prelievo – di avere interesse alla pronta definizione del giudizio amministrativo.
La norma risponderebbe altresì all’ulteriore funzione di impedire l’accesso all’equo indennizzo a coloro che abbiano contribuito con la loro condotta processuale a determinare l’eccessiva durata del giudizio da cui lamentano essersi originato il danno non patrimoniale lamentato, in sostanziale specificazione di un principio già enunciato dall’art. 2 della legge n. 89 del 2001.
Le tesi così esposte non possono essere condivise.
Il Legislatore del 2008 ha indubbiamente voluto responsabilizzare le parti del giudizio amministrativo, chiamandole ad una attività di carattere sollecitatorio, volta a dimostrare la sussistenza di un persistente interesse alla decisione della controversia, onde evitare che situazioni di pendenza meramente apparente del giudizio amministrativo, non suffragate da un sottostante e persistente interesse alla decisione, potessero contribuire, da un lato, alla formazione del carico degli Uffici, e legittimare, dall’altro, speculative richieste di risarcimento del danno da irragionevole durata del processo.
Pertanto è stata introdotta una vera e propria condizione di proponibilità che non consente l’attivazione del rimedio giurisdizionale interno della c.d. "Legge Pinto" allorché la parte interessata non si sia fatta preventivamente parte diligente sollecitando la rapida definizione del giudizio amministrativo presupposto.
E’ quindi esatta la prima diagnosi proposta dall’Avvocatura allorché individua la ratio della norma nell’intento di scongiurare la presentazione di ricorsi da parte di chi non abbia dimostrato – attraverso la proposizione dell’istanza di prelievo – di avere interesse alla pronta definizione del giudizio amministrativo.
Se è corretta l’individuazione della ratio non lo sono punto le conseguenze che ne vengono poco linearmente ritratte, in violazione dei fondamentali principi della normale irretroattività della legge e dell’eccezionalità delle limitazioni frapposte all’esercizio del diritto costituzionalmente tutelato di azione giurisdizionale.
Si è detto che il diritto vivente, cristallizzato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, pronunciatasi sul punto anche a Sezioni Unite, riteneva che la mancata proposizione di iniziative sollecitatorie da parte dell’interessato (e, in particolare, dell’istanza di prelievo) non precludesse l’esperibilità del rimedio giurisdizionale per la riparazione del danno da eccessiva durata del processo ai sensi dell’art. 2 della legge 89 del 2001, giacché si trattava di attività non obbligatorie e la cui omissione non era in alcun modo sanzionata, ma potesse solamente essere oggetto di valutazione in sede di liquidazione dell’indennizzo, quale elemento potenzialmente rivelatore di uno scarso interesse della parte alla sollecita definizione della controversia e di conseguenza di un modesto grado di sofferenza psicologica per la durata irragionevole del giudizio.
La norma introduttiva della condizione di proponibilità non è retroattiva (art. 11 disp. pre. c.c.), né avrebbe potuto esserlo senza sanzionare in modo irragionevole comportamenti tenuti nel rispetto delle prescrizioni in quel momento in vigore.
E’ quindi necessario ritenere che l’introduzione della condizione di proponibilità di cui al ridetto art. 54 operi solo per il futuro e quindi solo successivamente all’entrata in vigore della legge 1333 del 2008, così pretendendo da tutti i soggetti che avessero in corso a quella data un giudizio amministrativo la proposizione di una istanza di prelievo prima di poter instaurare il ricorso ai sensi della "Legge Pinto".
Non può viceversa essere autorizzata una interpretazione antiletterale e anticostituzionale della norma che sanzioni con l’improponibilità – ora per allora – tutti i ricorsi in cui alla data di entrata in vigore della legge 133 del 2008 non fosse stata già presentata l’istanza di prelievo, così come parrebbe opinare l’Amministrazione resistente.
Pertanto i ricorrenti, che non avevano formulato l’istanza di prelievo prima della legge del 2008 – non avendone alcun obbligo e alcun onere – hanno legittimamente presentato l’istanza dopo l’approvazione del ridetto art. 54 con l’introduzione della condizione di proponibilità e hanno conseguentemente instaurato il ricorso ai sensi della legge n. 89 del 2001.
Né pare possibile ritenere che le parti di un giudizio amministrativo che abbiano proposto istanza di prelievo dopo l’introduzione dell’art. 54 della legge 133 del 2008 abbiano l’onere di attendere un qualche periodo di tempo (peraltro del tutto indeterminato) prima di radicare il ricorso per l’equa riparazione al fine di consentire all’Amministrazione di definire il contenzioso così sollecitato: non vi è infatti la benché minima previsione normativa in tal senso che suffraghi l’ipotesi di una eccezionale situazione di temporanea, improponibilità, fra l’altro indeterminata quantitativamente, della domanda di equa riparazione.
Va sottolineato poi che non può certo ipotizzarsi che la disposizione in parola abbia sanato retroattivamente le durate irragionevoli dei giudizi amministrativi già intercorse prima della sua entrata in vigore, come la tesi dell’Avvocatura implicitamente finirebbe con l’accreditare (con plurime violazioni costituzionali e della Convenzione Europea).
Così operando, i ricorrenti hanno pertanto soddisfatto alla condizione di proponibilità richiesta dalla legge n. 133 del 2008 ed hanno comunque dimostrato il loro interesse alla decisione del ricorso, per vero concretatosi nella proposizione dell’istanza di prelievo solo dopo la sua introduzione quale requisito di proponibilità del ricorso ex legge Pinto.
Di tale circostanza la Corte terrà conto in sede di apprezzamento e liquidazione del pregiudizio non patrimoniale patito (come la giurisprudenza sopra ricordata ritiene ammissibile) trattandosi di comportamento non particolarmente diligente della parte rivelatore di scarso interesse alla decisione sollecita della controversia.
7. La durata del processo nel caso concreto.
Occorre ora procedere alla valutazione della durata ragionevole del processo nel caso concreto.
Nella fattispecie il procedimento amministrativo è durato già dieci anni e sette mesi dall’aprile del 1998 al dicembre del 2008 ( data di deposito del ricorso).
Ne deriva che il procedimento si è protratto per sette anni e sette mesi anni in più del ragionevole (che secondo gli usuali criteri seguiti dalla Corte Europea può essere stimato in 3 anni) e che possono essere quindi riconosciuti come ritardo non ragionevole patito dai ricorrenti, come da essi richiesto.
8. Il danno non patrimoniale
E’ il caso preliminarmente di richiamare tutte le considerazioni svolte in premessa al §1. e di considerare che a fronte dei 7 anni e 7 mesi di eccessiva durata del processo in questione possa considerarsi provato, secondo la regola della prova in re ipsa sopra illustrata, un pregiudizio non patrimoniale da sofferenza e disagio provocati dalla pendenza della causa in capo ai ricorrenti.
Non risultano comprovate particolari circostanze atte a dimostrare la radicale inesistenza del pregiudizio.
9. Il criterio della posta in gioco.
La Corte ritiene che occorra tener in debita considerazione ai fini della commisurazione dell’indennizzo anche il criterio della c.d. "posta in gioco", che non si pone in rotta di collisione i principi giurisprudenziali elaborati dalla Corte di Strasburgo e avallati dagli importanti interventi delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
La correttezza della valutazione del criterio della posta in gioco come criterio di commisurazione del patema psichico e quindi come elemento per la determinazione del danno morale concretamente subito dal ricorrente trova invero evidente riscontro nel nostro diritto positivo, che richiama espressamente i criteri di cui all’art. 2056 c.c. e presuppone pur sempre una riparazione di un pregiudizio definito in termini di danno non patrimoniale.
La nota pronuncia delle Sezioni Unite n. 1340 del 2004, sopra illustrata, in termini di quantificazione della riparazione ha pur sempre sostenuto:
– che il danno non patrimoniale viene in considerazione quale conseguenza della violazione, ma a differenza del danno patrimoniale si riscontra normalmente, e cioè di regola, per effetto della violazione stessa;
– che è quindi normale che l’anomala lunghezza del processo produca nella parte coinvolta patema d’animo, ansia e sofferenza morale, che ne costituiscono conseguenze normalmente ricorrenti, e che quindi non bisognano di prova alla stregua dell’ id quod plerumque accidit;
– che possono peraltro verificarsi situazioni concrete in cui tali conseguenze normali debbono essere escluse o perché il protrarsi del giudizio corrisponde ad un interesse della parte, o è comunque destinato a produrre conseguenze percepite dalla parte come favorevoli, ovvero in presenza di una situazione di piena consapevolezza della parte istante dell’infondatezza o della inammissibilità delle proprie pretese.
Merita poi di essere ricordato che anche la sentenza n. 1339 del 2004 delle Sezioni Unite della Cassazione aveva pur sempre considerato il criterio della posta in gioco quale elemento rilevante per la determinazione dell’indennizzo:
– "Ove la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia già accertato che il ritardo non giustificato nella definizione di un processo, in violazione dell’art. 6 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno del ricorrente, e abbia quindi riconosciuto in suo favore un’equa riparazione ex art. 41 della convenzione, da tale pronuncia deriva che il giudice nazionale adito ai sensi della (sopravvenuta) l. 24 marzo 2001 n. 89 – una volta che abbia accertato, con riferimento allo stesso processo presupposto, il protrarsi della medesima violazione nel periodo successivo a quello considerato dai giudici di Strasburgo – non può non indennizzare, in applicazione della citata legge, l’ulteriore danno non patrimoniale subito dalla medesima parte istante, e liquidarlo prendendo come punto di riferimento la liquidazione già effettuata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (dalla quale è peraltro consentito differenziarsi, sia pure in misura ragionevole). Né detta indennizzabilità può essere esclusa sul rilievo dell’esiguità della posta in gioco nel processo presupposto: sia perché trattasi di ragione resa, nel caso, non rilevante dal fatto che la Corte europea ha ritenuto sussistente il danno non patrimoniale per il ritardo nello stesso processo; sia perché, più in generale, l’entità della posta in gioco nel processo ove si è verificato il mancato rispetto del termine ragionevole non è suscettibile di impedire il riconoscimento del danno non patrimoniale, dato che l’ansia ed il patema d’animo conseguenti alla pendenza del processo si verificano normalmente anche nei giudizi in cui sia esigua la posta in gioco onde tale aspetto può avere un effetto riduttivo dell’entità de risarcimento, ma non totalmente escludente dello stesso."
E’ poi la stessa Corte di Strasburgo, proprio nella sentenza Musci sopra citata ad annettere importante rilievo al criterio della posta in gioco ("enjeu du litige": cfr § 27 e 30) ai fini della determinazione della riparazione in concreto.
Sempre al proposito del criterio della "posta in gioco", non meritano accoglimento le censure talora svolte basata sulla pratica inapplicabilità di una concreta indagine circa l’entità delle ripercussioni psicologiche e soggettive della violazione nella sfera intima del singolo soggetto pregiudicato, quasi che ciò potesse giustificare lo svincolo dell’entità dell’indennizzo dalla consistenza della posta in gioco in un giudizio nel quale ricorrente ha subito la dedotta sofferenza per la violazione del termine ragionevole di durata del processo.
La Corte può tuttalpiù riconoscere che la prova della concreta consistenza di tale forma di pregiudizio può essere disagevole; va ricordato, tuttavia, da un lato, che la legge ha espressamente previsto il ricorso alla tecnica di liquidazione equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c. e, dall’altro, che la giurisprudenza delle Sezioni Unite del Supremo Collegio, sopra illustrata, ha di fatto notevolmente alleviato gli oneri della parte istante, con la presunzione juris tantum di pregiudizio non patrimoniale da sofferenza e patema d’animo in caso di durata irragionevole del processo.
Non è comunque possibile sostenere la necessità di trattare in modo uguale casi evidentemente diversi; e ciò tanto più che a tal fine possono soccorrere ragionevolissime presunzioni semplici (dello stesso genere di quelle che hanno indotto il Supremo Collegio a presumere la sussistenza di patema d’animo e di una sofferenza psichica per la durata irragionevole di qualsiasi processo) che inducono chiunque a pensare che, salvo casi eccezionali (che indubbiamente dovrebbero essere opportunamente dimostrati), chi veda protrarsi una causa per un modesto importo di denaro, di fatto ininfluente ai fini dell’ordinario svolgersi della sua esistenza, soffre in maniera molto diversa rispetto a chi attenda l’esito di una controversia in cui si discute di una somma di denaro assai rilevante ai fini delle sue scelte di vita e delle sue prospettive future o addirittura si controverta, per esempio, intorno a diritti della personalità o rapporti familiari.
La giurisprudenza della Suprema Corte ha varie volte riconosciuto la correttezza del criterio, sia pur consigliandone un uso attento e circospetto, censurandone l’utilizzo talora effettuato al fine di rendere irrisorio l’indennizzo:
– "In tema di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo ai sensi della l. n. 89 del 2001, il giudice di merito, ai fini della determinazione del quantum dell’indennizzo, deve procedere ad un giudizio di comparazione tra la natura e l’entità della pretesa patrimoniale ("cosiddetta posta in gioco") e la condizione socio-economica del richiedente, al fine di accertare l’impatto dell’irragionevole ritardo sulla psiche di questo; ne discende che il giudice di merito può discostarsi dai parametri indennitari fissati dal giudice sopranazionale, sia in senso migliorativo che peggiorativo, solo sulla base delle allegazioni e delle prove fornite dalla parti, dandone puntuale spiegazione, e tale comparazione costituisce valutazione di merito non sindacabile nel giudizio di legittimità, se congruamente motivata."(Cassazione civile, sez. I, 2 novembre 2007, n. 23048)
– "In tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89, l’esistenza di un danno non patrimoniale – la cui prova è di regola insita nello stesso accertamento della violazione – può essere esclusa in presenza di circostanze particolari che facciano positivamente ritenere che tale danno non sia stato subito dal ricorrente, come tipicamente avviene, ad esempio, nelle ipotesi in cui il protrarsi del giudizio appaia rispondente ad uno specifico interesse della parte o sia comunque destinato a produrre conseguenze che la parte stessa percepisce come a sé favorevoli. La valutazione circa la sussistenza, nel caso concreto, di tali particolari circostanze si risolve in un apprezzamento di fatto, riservato al giudice del merito e non sindacabile in sede di legittimità, ove sorretto da motivazione congrua e scevra da vizi logici e giuridici. (Fattispecie relativa ad una procedura di esecuzione immobiliare, in relazione alla durata della quale il giudice della equa riparazione, con motivazione ritenuta congrua dalla S.C., ha escluso la configurabilità di un danno non patrimoniale risarcibile, avuto riguardo all’interesse della ricorrente alla stasi del procedimento in questione al fine di coltivare la prospettiva, poi realizzatasi, di soddisfare i creditori, così determinando la estinzione della procedura)"(Cassazione civile, sez. I, 18 giugno 2007, n. 14053; cfr anche Cassazione civile, sez. I, 7 dicembre 2006, n. 26200; Cassazione civile, sez. I, 13 aprile 2006, n. 8714;Cassazione civile, sez. I, 28 marzo 2006, n. 6999).
10. La concreta valutazione del danno non patrimoniale.
Ai fini della valutazione del danno non patrimoniale la giurisprudenza di legittimità esige che il Giudice nazionale, in linea di massima, conformi la propria valutazione liquidatoria, tenendo conto dei parametri seguiti dalla Corte Europea, sia pur potendo commisurare motivati scostamenti legati alle peculiarità del caso concreto:
– "Ai fini della liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89, l’ambito della valutazione affidato al giudice del merito è segnato dal rispetto della convenzione europea dei diritti dell’uomo, come applicata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e di casi simili a quello portato all’esame del giudice nazionale; pertanto, è configurabile, in capo al giudice del merito, un obbligo di tener conto dei criteri elaborati dalla Cedu, pur conservando un margine di valutazione che gli consente di discostarsi, in misura ragionevole e motivatamente, dalle liquidazioni effettuate da quella Corte in casi simili. Poiché questa ha in linea di massima determinato in una somma oscillante tra euro 1000,00 e euro 1.500,00 per ogni anno di eccessiva durata l’importo relativo alla riparazione del danno, risulta illegittima una liquidazione nella misura di euro 500,00 per ogni anno di ritardo."(Cassazione civile, sez. I, 1 marzo 2007, n. 4845);
– "In tema di equa riparazione ai sensi dell’art. 2 l. 24 marzo 2001 n. 89, nella liquidazione del danno non patrimoniale, il giudice nazionale non può ignorare i criteri applicati in casi simili dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, pur avendo facoltà di apportare, motivatamente e non irragionevolmente, le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda, le quali, peraltro, non possono fondare la decisione di liquidare somme che non siano in relazione ragionevole con quella – tra i 1000 e i 1500 euro – accordata dalla predetta Corte negli affari consimili."(Cassazione civile, sez. I, 2 febbraio 2007, n. 2254).
Nella fattispecie occorre considerare, alla stregua di quanto puntualizzato nel corso del precedente § 6, che i ricorrenti hanno mostrato scarso interesse alla definizione del giudizio, almeno prima dell’entrata in vigore della legge che ha richiesto la presentazione dell’istanza di prelievo quale condizione di proponibilità del ricorso ai sensi della legge 89 del 2001.
Di per sé non costituisce circostanza negativa il fatto che il ricorso per l’attribuzione dell’equa riparazione sia stato proposto in modo collettivo e congiunto.
Infatti:
– "La liquidazione dell’equo indennizzo per la durata irragionevole del processo deve essere effettuata in favore di ogni singolo ricorrente e non può essere determinata in un solo importo globale e complessivo per più ricorrenti."(Cassazione civile , sez. I, 8 marzo 2007, n. 5338; conforme Cassazione civile , sez. I, 6 aprile 2006, n. 8034).
Tuttavia occorre considerare che il procedimento in questione riguardava un atto amministrativo generale (ossia una determinazione dirigenziale) e non un provvedimento specifico impingente solo sulla diretta sfera soggettiva di ciascuno dei ricorrenti; in tale ipotesi infatti l’interesse personale e l’ansia soggettiva, che riverberano consequenzialmente sulla sofferenza psichica ingenerata dal ritardo nella decisione, appaiono per loro natura assai più limitate rispetto al coinvolgimento della parte in un procedimento contenzioso di altro genere, afferente direttamente la sua libertà personale, la propria sfera non patrimoniale o il proprio patrimonio.
V’è da aggiungere, inoltre, che il fattore di ansietà collegato al timore di subire una condanna alla rifusione delle spese processuali della parte avversa perde concretezza e si annacqua notevolmente allorché il soggetto sia coinvolto in una causa o in ricorso amministrativo di tipo collettivo (in cui si trova implicato come mero compartecipe di un rischio fortemente demoltiplicato); non a caso proprio la natura collettiva del procedimento spesso induce con maggior tranquillità i ricorrenti a proporre una lite di cui altrimenti a titolo personale avrebbero rinunciato.
Sulla base di tali specifiche considerazioni la Corte ritiene equo il riconoscimento della somma di euro 600,00 in ragione di anno e così complessivamente la somma attualizzata di euro 4.550,00 a favore di ciascuno dei ricorrenti (600 euro x 7 anni e 7 mesi).
11. Le spese processuali.
Costante giurisprudenza è orientata a ritenere, sulla base della natura contenziosa del procedimento camerale regolato dalla legge n. 89 del 2001 (cfr Cass. 14.1.2000 n. 348; Cass. 24.2.1994 n. 1884; Cass. SS.UU. 26.6.1986 n. 4253) che il Giudice dell’equa riparazione debba procedere alla valutazione della soccombenza ai fini della regolazione delle spese processuali.
Tale interpretazione ha trovato, fra l’altro, un provvisorio riscontro normativo espresso nella disposizione di cui all’art. 6 bis della legge n. 89 del 2001 introdotto dall’art. 2 del d.l. 11.9.2002 n. 201, poi non convertito in legge.
In giurisprudenza:
– "Nei giudizi di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89 trova applicazione la disciplina della responsabilità delle parti per le spese processuali e della condanna alle spese in relazione al criterio della soccombenza. Tale principio non è in contrasto con l’art. 34 della convenzione europea per i diritti dell’uomo, come modificata dal protocollo n. 11, atteso che l’impegno a non ostacolare l’effettivo esercizio del diritto implica che lo Stato contraente della Cedu debba assicurare, nell’ambito dell’ordinamento interno, un efficiente strumento processuale di verifica e di tutela del diritto, quando esso sussiste, ma non postula che la parte, la cui pretesa si sia rivelata priva di fondamento, debba essere sottratta alla statuizione sulle spese giudiziali."(Cass. 10.9.2003 n. 13211);
– "Nei giudizi di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89 trova applicazione la disciplina della responsabilità delle parti per le spese processuali e della condanna alle spese in relazione al criterio della soccombenza."(Cass. 13.2.2003 n. 2140);
– "La domanda di equa riparazione del danno per violazione del termine ragionevole del processo, di cui all’art. 3 l. 24 marzo 2001 n. 89, introduce un procedimento camerale contenzioso, per la risoluzione di controversia su diritto soggettivo; nel detto procedimento trovano, pertanto, applicazione le disposizioni dettate in tema di responsabilità per le spese processuali dagli art. 91 ss. c.p.c."(Cassazione civile, sez. I, 1 luglio 2004, n. 12021).
L’Amministrazione, soccombente, va condannata alla rifusione dei 2/3 delle spese processuali della parte ricorrente, tenuto conto dell’accoglimento in misura significativamente ridotta della domanda, con il pagamento della somma della somma di euro 856,58, a fronte di una liquidazione complessiva in euro 1.284,87 (di cui euro 30,00 per esposti, euro 5,00 per spese imponibili, euro 581,00 per diritti, euro 530,00 per onorari, euro 138,87 per rimb. forfettario 12,5 % t.p.f.) oltre IVA e CPA come per legge sugli imponibili.
Il relativo importo va distratto ai sensi dell’art. 93 c.p.c. in favore del prof. avv. P.L.F., dichiaratosi antistatario.
12. Gli adempimenti di cui all’art. 5 della legge 89 del 2001.
Ai sensi dell’art. 5 della legge 89 del 2001 la Cancelleria dovrà provvedere alla comunicazione del decreto al Procuratore Generale della Corte dei Conti e ai titolari dell’azione disciplinare comunque interessati al procedimento; nessuna norma prevede che siffatta individuazione competa alla Corte di Appello adita ai sensi della legge n. 89 del 2001.

P.Q.M.
La Corte di Appello di Torino, sezione prima bis civile
accerta e dichiara che, in relazione al procedimento amministrativo per cui è causa svoltosi dinanzi al TAR Piemonte, sussiste la violazione dell’articolo 6, paragrafo 1, della CEDU, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole e che, pertanto, i ricorrenti hanno diritto all’equa riparazione ex art. 2 della legge 89/01;
dichiara tenuto e condanna il Ministero della Economia e delle Finanze nella persona del Ministro pro tempore a pagare a B.A., D.P.R., L.B.G., P.G., T.L. a titolo di equo indennizzo del danno non patrimoniale di cui alla legge 89/2001, la somma di euro 4.550,00 ciascuno, con gli interessi legali dalla data del presente decreto sino al saldo effettivo;
dichiara tenuto e condanna il Ministero della Economia e delle Finanze nella persona del Ministro pro tempore a pagare a B.A., D.P.R., L.B.G., P.G., T.L. , a titolo di rifusione dei 2/3 delle spese processuali, per il resto compensate, la somma complessiva di euro 856,58 oltre IVA e CPA come per legge sugli imponibili;
pronuncia ex art. 93 c.p.c. la distrazione di tale importo in favore del prof. avv. P.L.F.;
manda alla Cancelleria di provvedere agli adempimenti previsti dall’art. 5 della legge 89 del 2001;
si comunichi.
Così deciso nella camera di consiglio del 20 maggio 2009 dalla Sezione Civile Prima bis della Corte d’Appello di Torino
il Presidente
dott.Giorgio Riccomagno