Decidendo sulla domanda di riparazione per ingiusta detenzione presentata da T.L. al fine di ottenere un equo indennizzo per la detenzione "sine titulo" sofferta, nell’ambito del procedimento penale instaurato a suo carico per il delitto di cui all’art. 416 c.p., la Corte di Appello di Bari, con ordinanza del 10/10/2007, riconosceva la fondatezza del diritto fatto valere dall’istante, limitatamente ai 29 giorni di custodia in carcere sofferta ed alle conseguenze direttamente connesse alla privazione della libertà personale, e gli assegnava la somma di Euro 30.000,00.
In motivazione, i giudici della riparazione hanno qualificato la domanda di riparazione come proposta ai sensi dell’art. 314 c.p.p., comma 2 ed hanno affermato di non potere tenere conto, al fine di escludere il diritto alla riparazione, della condotta ex ante tenuta dal T. "nonostante che la stessa fosse di certo oggettivamente tale da indurre in errore l’autorità giudiziaria e si ponesse come casualmente sinergica alla perdita della libertà".
Al riguardo, la Corte di Appello di Bari ha menzionato diffusamente le specifiche condotte gravemente negligenti poste in essere ex ante dal T., ritenute idonee a dar causa alla custodia cautelare e, pur precisando che la loro "storicità è documentalmente accertala e ribadita sia dal Tribunale della Libertà che dalla sentenza definitiva di merito", tuttavia le ha valutate, non già come cause escludenti il riconoscimento del vantato diritto, ma solo come fattore di diminuzione del quantum dell’indennizzo liquidato.
Ciò in quanto, essendo, nella fattispecie, intervenuta una irrevocabile decisione cautelare che ha riconosciuto l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in relazione al delitto di cui alla disposta restrizione della libertà, secondo i giudici della riparazione, le condotte gravemente colpose del T., pur sussistenti, non sarebbero di ostacolo all’accoglimento della domanda, non potendosi applicare alle ipotesi disciplinate dall’art. 314 c.p.p., comma 2, gli stessi limiti al riconoscimento del diritto (l’insussistenza del dolo o della colpa grave dell’istante) che sono previsti per le distinte ipotesi di cui al cit. articolo, comma 1.
Avverso tale ordinanza propone ricorso per Cassazione il Ministero dell’Economia e delle Finanze il quale, per mezzo dell’Avvocatura dello Stato, deduce erronea applicazione della legge, rilevando, in primo luogo e in riferimento alla fattispecie concreta, che sarebbe errata l’opinione che tutta la carcerazione sofferta dal T. ricada nell’ambito delle ipotesi di cui all’art. 314 c.p.p., comma 2, e sia, quindi, da ritenere tutta "formalmente" illegittima; in secondo luogo ed in via generale, che sarebbe frutto di errata interpretazione della norma di cui all’art. 314 c.p.p., la distinzione tra casi di ingiustizia sostanziale o formale della detenzione, riconnettendo solo ai primi l’obbligo della verifica dell’efficacia causale della condotta, eventualmente dolosa o colposa, tenuta dall’indagato, escludendolo, invece, per i secondi casi (precisamente, per le ipotesi di riparazione contemplate nel cit. articolo, comma 2).
Con un terzo ed ultimo motivo, il Ministero ha dedotto vizio della motivazione nella parte in cui è stata determinata l’indennità spettante al T., avendo i giudici della riparazione a tal fine proceduto ad una ingiustificata scomposizione delle causali di ristoro, così pervenendo, tramite l’attribuzione a pregiudizi identici di nomi diversi, al risultato irrazionale di moltiplicare tra loro le voci da indennizzare, con mortificazione della natura squisitamente indennitaria e non risarcitoria dell’esborso a cui lo Stato è tenuto per ingiusta detenzione.
Il ricorso merita accoglimento, essendo fondate le prime due censure, aventi rilevanza pregiudiziale rispetto alla terza, della quale, pertanto, si omette l’esame.
Nel caso di specie, è d’uopo distinguere i periodi di restrizione ingiustamente sofferti dal T., in quanto due ne sono stati i provvedimenti impositivi.
Il primo provvedimento restrittivo nei confronti del T. è stato emesso dal G.I.P. del Tribunale di Foggia il 16 Agosto 1995 è stato eseguito dal 5 al 22 Settembre 1995, ma, investito dalla richiesta di riesame, è stato, con provvedimento del 22 Settembre 1995, dichiarato inefficace ai sensi dell’art. 309 c.p.p., comma 5, cioè in conseguenza della mancata trasmissione degli atti al Tribunale del riesame.
Il secondo provvedimento restrittivo, per lo stesso reato, è stato emesso dal medesimo G.I.P. il 28 Settembre 1995 ed, eseguito dal 2 al 14 ottobre 1995, è stato annullato, per insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, con ordinanza del Tribunale del Riesame del 14 ottobre 1995, divenuta irrevocabile.
Orbene, è evidente che, per la detenzione scaturita dal primo provvedimento custodiale, l’accoglimento della domanda è stato sancito erroneamente, in quanto la decisione adottata in relazione ad esso dal Tribunale del riesame non riguardava la ricorrenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle altre condizioni di applicabilità della misura di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p., ma si limitava a dichiarare la sopravvenuta inefficacia della stessa per omessa trasmissione degli atti.
In altri termini, la pronuncia del 22/9/1995 del Tribunale del riesame non poteva avere determinato, come hanno erroneamente divisato i giudici della riparazione, l’illegittimità "formale" della detenzione sofferta in forza del primo provvedimento restrittivo, per effetto di un accertamento dell’insussistenza delle condizioni di applicabilità di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p., posto che un tale accertamento è sicuramente mancato.
Atteso l’esito del giudizio di merito, definito poi, con sentenza del 2/12/2003 del Tribunale di Foggia, con l’assoluzione del T. con formula piena, i giudici della riparazione, se mai, avrebbero dovuto verificare se sussistevano i presupposti di cui al primo comma dell’art. 314 c.p.p. e, conseguentemente, valutare se alla detenzione, sofferta in forza del primo provvedimento custodiale, avesse dato o concorso a dare causa la condotta dolosa o gravemente colposa del T.. Tale verifica e tale valutazione sono state, però, ingiustificatamente omesse, nonostante i medesimi giudici, in seno all’ordinanza impugnata, si siano pronunciati diffusamente in senso favorevole alla sussistenza in concreto della condotta quanto meno gravemente colposa dell’istante, sinergicamente idonea a concorrere al verificarsi dell’evento-detenzione.
In riferimento all’altro periodo di restrizione ingiustamente sofferta dal T. dal 2 al 14 Ottobre 1995, quello cioè conseguente al secondo provvedimento custodiale annullato per mancanza dei gravi indizi di colpevolezza, l’ordinanza impugnata si palesa, comunque, illegittima. Invero, i giudici della riparazione hanno affermato che, nelle ipotesi di ingiustizia "formale" della detenzione di cui all’art. 314 c.p.p., comma 2, si debba prescindere dalla verifica in ordine alla sussistenza o meno dei limiti esplicitati nel comma 1 in riferimento ai casi di ingiustizia "sostanziale".
Ragioni esegetiche e di razionalità dell’istituto, tuttavia, militano a favore dell’operatività di detti limiti, anche nelle prime ipotesi c.d. di "ingiustizia formale".
Al riguardo, va considerato che, alla luce dei più recenti arresti giurisprudenziali di legittimità, la distinzione tra la prima e la seconda ipotesi dell’art. 314 c.p.p. non è più colta sulla base della natura dell’ingiustizia "formale" o "sostanziale" della detenzione cautelare sofferta. Con decisioni recentemente pronunciate dalla Corte di Cassazione è stato progressivamente esteso l’ambito delle decisioni irrevocabili di cui all’art. 314 c.p.p., comma 2, che accertino l’insussistenza dei presupposti di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p., in quanto esse non sono più individuate nei soli provvedimenti resi in sede di procedimento de libertate ai sensi dell’art. 309 c.p.p. e segg., – come si era ritenuto in sede di prima applicazione dell’istituto – ben potendo esse consistere nelle sentenze rese all’esito del dibattimento che, seppure ex post, accertino l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione della custodia cautelare (cfr. Cass. Sez. 4 penale n. 10983^2007; ibidem n. 36907/2007; n. 8869/2007; n. 23896/2008).
In particolare, con sentenza n. 36907 del 2007, questa Corte – disattendendo i rilievi secondo cui gli accertamenti intervenuti ex post potrebbero avere valenza ai fini della riparazione per ingiusta detenzione solo nel caso in cui la custodia venga illegittimamente mantenuta e limitatamente a tale custodia – ha ritenuto non ostativa alla riparazione per ingiusta detenzione ai sensi dell’art. 314 c.p.p., comma 2, la circostanza che la riqualificazione dei fatti e la ridefinizione dell’originaria imputazione in altra meno grave (i cui limiti edittali di pena non consentivano ex art. 280 c.p.p. l’applicazione della custodia cautelare) siano avvenute in sede di merito, per effetto di elementi emersi soltanto nell’istruzione dibattimentale e non già nel corso del giudizio cautelare. Non v’è dubbio che in tale ipotesi, la custodia cautelare è eseguita in forza di un provvedimento formalmente legittimo, in quanto non annullato nè revocato; ma ciò nondimeno è riconosciuto il diritto all’equa riparazione, anche in caso di successiva condanna, sebbene solamente ex post e finanche sulla base di elementi di fatto, insussistenti al momento dell’adozione dell’ordinanza cautelare, idonei a dimostrare che i presupposti previsti dall’art. 280 c.p.p. per l’applicazione delle misura difettavano ab initio.
Ad analoghe conclusioni, deve pervenirsi anche nel diverso caso (sostanzialmente analogo a quello scrutinato dalla Suprema Corte con la citata decisione) in cui solo in sede dibattimentale si accerti che i fatti, per i quali sia stata applicata la misura cautelare, erano stati commessi in presenza di una causa di giustificazione o di non punibilità, ovvero si dichiari la sussistenza, sin dal momento dell’applicazione della misura, di una causa di estinzione del reato o della pena irrogabile. Anche in tali ipotesi, infatti, si verrebbe a dichiarare ex post, eventualmente sulla scorta di emergenze probatorie emerse solo in sede dibattimentale, l’insussistenza dei requisiti di cui all’art. 273 c.p.p. con riguardo ad una misura custodiale eseguita in forza di un provvedimento che, sul piano formale, appare legittimamente adottato.
L’ampliamento del novero dei provvedimenti definitivi di cui all’art. 314 c.p.p., comma 2, è frutto di un approdo interpretativo che trova fondamento nella considerazione che il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione non può trovare ostacolo nella legittimità del provvedimento applicativo della misura, nè richiede che la detenzione sia conseguenza di una condotta illecita, rilevando, all’indicato fine, esclusivamente l’obiettiva ingiustizia della privazione della libertà personale che, per la qualità del bene coinvolto, postula una misura riparatoria e riequilibratrice, in parte compensatrice della ineliminabile componente di alea, per la persona, propria della giurisdizione penale cautelare.
E’, allora, evidente che, assumendo rilievo esclusivamente l’obiettiva ingiustizia della misura, nel caso in cui detta ingiustizia risieda nell’insussistenza dei presupposti di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p., a nulla rileva che il relativo accertamento sia intervenuto solo all’esito del dibattimento e, quindi, ex post rispetto all’applicazione della misura ed ai connessi giudizi impugnatori cautelari, eventualmente azionati dall’indagato.
Tale conclusione ha il suo fondamento nella natura eminentemente solidaristica dell’istituto regolato dall’art. 314 c.p.p. e segg., ben evidenziata, peraltro, dal Giudice delle leggi con la sentenza n. 446 del 1997.
E’ proprio la natura solidaristica dell’istituto che giustifica la scelta del Legislatore, compatibile con i parametri costituzionali, di escludere il diritto alla riparazione in tutti i casi in cui l’interessato, per dolo o colpa grave, abbia dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare sofferta.
Il principio solidaristico sotteso all’istituto trova, infatti, il suo naturale contemperamento nel dovere di responsabilità che incombe in capo a tutti i consociati, i quali evidentemente non possono invocare benefici tesi a ristorare pregiudizi da essi stessi colposamente o dolosamente cagionati.
E’, quindi, chiaro che proprio in ragione della natura e del fondamento dell’istituto in parola, deve ritenersi che la previsione dei limiti al riconoscimento del diritto all’equa riparazione, lungi dal configurare una condizione negativa limitata soltanto all’ipotesi di cui all’art. 314 c.p.p., comma 1, costituisce un limite interno allo "stesso diritto" che opera, sempre ed in ogni caso, nei confronti dei richiedenti che hanno colposamente o dolosamente dato causa o concorso a dare causa alla detenzione ingiusta.
Ne deriva che non è possibile operare una distinzione tra il diritto alla riparazione nei casi di cui al comma 1 e in quelli di cui all’art. 314 c.p.p., comma 2, sì da giungere ad affermare, come ha fatto la Corte territoriale nell’ordinanza gravata, che solo nel primo caso si impone la verifica dell’efficacia causale della condotta, in ipotesi dolosa o gravemente colposa, tenuta dall’imputato.
Tale distinzione, infatti, finisce per rendere disomogenee, rispetto al fondamento e alla ratio legis, le due ipotesi di riparazione, con evidenti problemi di compatibilità costituzionale, quanto meno sotto il profilo della ragionevolezza.
Alla luce anche di una lettura costituzionalmente orientata della norma in contestazione, si deve, allora, ritenere che la condotta ex ante tenuta dalla persona sottoposta a misura custodiale debba essere necessariamente valutata anche nell’ipotesi di cui all’art. 314 c.p.p., comma 2.
Nè ostativa a tale conclusione è l’interpretazione meramente letterale della norma, valorizzata dalla Corte territoriale sulla scorta del rilievo che nell’art. 314 c.p.p., comma 2, non è richiamato pedissequamente l’ultimo inciso del comma 1.
Invero, la norma richiamata che riconosce nel comma 1 il diritto in favore dei soggetti assolti con formula di merito e pone come limite all’operatività del diritto l’insussistenza della condotta dolosa o gravemente colposa del richiedente, sancisce nel comma 2 "lo stesso diritto" in favore di soggetti prosciolti o anche di condannati nei cui confronti venga riconosciuta l’insussistenza delle condizioni di applicabilità del provvedimento custodiale emesso.
La norma, dunque, con tutta evidenza, riconosce in questo secondo caso lo stesso diritto, e cioè una parità della relativa estensione che, ove insussistente, non sarebbe stata esplicitata.
Va aggiunto, ancora sotto il profilo esegetico, che, una volta intesa la condotta della persona sottoposta a misura restrittiva come un limite interno del diritto all’equa riparazione, è evidente che il richiamo allo stesso diritto operato dall’art. 324 c.p.p., comma 2, vale anche quale rinvio all’ultima parte del comma 1.
Peraltro, una volta superata la tesi secondo cui l’ipotesi dell’art. 314 c.p.p., comma 2 debba essere confinata ai casi di mera illegittimità "formale" del provvedimento cautelare ed affermato, in assonanza anche ai principi affermati dalla Corte Costituzionale, che anche in tale ipotesi assume rilievo l’oggettiva ingiustizia della detenzione sofferta (ove pure essa sia accertata ex post e sulla base di elementi acquisiti solo al dibattimento), sarebbe davvero irrazionale distinguere, come ha fatto la Corte barese, situazioni sostanzialmente analoghe, ed affrancare dal limite interno del diritto – rispetto ai casi di assoluzione nel merito, in cui il contrasto tra esito del giudizio e restrizione sofferta è più marcato – i casi di proscioglimento o addirittura di condanna previsti dall’art. 314 c.p.p., comma 2, per di più anche nell’ipotesi in cui sia accertato il contributo causale alla detenzione dato dall’imputato.
A questo punto, per completezza espositiva, è opportuno chiarire sotto quale profilo si distinguano le ipotesi del comma 1, rispetto a quelle del comma 2 della richiamata disposizione.
La risposta è agevole sulla scorta di sopra esposto: le due ipotesi si distinguono solo per le ragioni dell’obiettiva ingiustizia della privazione della libertà personale.
Nell’ipotesi di cui al comma 1, dette ragioni vanno ravvisate nella accertata insussistenza di qualsivoglia addebito penale all’imputato in relazione ai fatti per i quali ha sofferto la custodia cautelare, di talchè solo il proscioglimento con le formule assolutorie indicate nell’art. 314 c.p.p., comma 1 giustifica il riconoscimento del diritto all’equa riparazione.
Nell’ipotesi di cui al comma 2, dette ragioni vanno ravvisate nell’accertata insussistenza dei presupposti di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p., di talchè la riparazione è dovuta anche nei casi di condanna, seppure con il temperamento di cui all’art. 314 c.p.p., comma 4.
In conclusione, alla luce del fondamento solidaristico dell’istituto in esame – fondamento che non non può non essere comune ad entrambe le ipotesi previste dall’art. 314 c.p.p. – il diritto all’equa riparazione, essendo diretto a ristorare in ogni caso l’obiettiva ingiustizia della privazione della libertà personale, può essere riconosciuto, in concorso con gli altri presupposti previsti dalla norma richiamata, solo in favore di coloro che non hanno dato o concorso a dare causa, per dolo o colpa grave, alla detenzione cautelare sofferta.
Nella fattispecie, la Corte di Appello di Bari ha errato nel ritenere di non dovere considerare, ai fini del riconoscimento del diritto invocato dall’istante, la condotta "quanto meno gravemente negligente" da costui tenuta e che, per dirla con le stesse parole usate nell’ordinanza impugnata, era consistita nella "violazione di ogni regola bancaria posta in essere deliberatamente dal T., che consentì agli usurai di avere la immediata disponibilità di denaro in assenza della necessaria provvista", ed era stata valutata "di certo aggettivamente tale da indurre in errore l’autorità giudiziaria" al punto da porsi " come causalmente sinergica alla perdita della libertà". A tale errore dovrà rimediare in sede di rinvio la medesima Corte di Appello, la quale, nel procedere a nuovo esame della domanda avanzata dal T., è tenuta ad uniformarsi ai principi di diritto sopra affermati.
Il regolamento delle spese di assistenza e difesa sostenute nel presente grado di giudizio dalle parti, è, per ragioni di opportunità, demandato alla medesima Corte in sede di rinvio.

P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame alla Corte di Appello di Bari, cui demanda anche il regolamento delle spese tra le parti.
Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2009.
Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2009