Con decreto in data 30 novembre 2005, la Corte d’appello di Roma accertò l’irragionevole durata del processo instaurato dal signor G.C. contro l’Inps. La causa, che aveva ad oggetto il pagamento di interessi e rivalutazione su somme tardivamente erogate dall’INPS per indennità di disoccupazione e mobilità, era cominciata con ricorso del 26 febbraio 1996, si era conclusa con la sentenza definitiva del Tribunale di Napoli in data 7 maggio 2003. La corte ritenne che la causa si fosse protratta per quattro anni oltre il termine ragionevole, e liquidò all’istante, a titolo d’equo indennizzo per il danno non patrimoniale, Euro 800,00 per ogni anno.
La corte condannò inoltre l’amministrazione al pagamento degli interessi dalla domanda, e alla metà delle spese processuali, compensando tra le parti la restante metà.
Contro questo decreto, non notificato, ricorre il signor G. con atto notificato il 23 novembre 2006, affidato a sette mezzi.
L’amministrazione non ha svolto difese.
Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta per la dichiarazione in camera di consiglio di manifesta infondatezza del ricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso verte sulla violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e art. 6, p.1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in relazione alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Si censura l’accertamento della corte territoriale circa la ragionevole durata del processo. Si deduce che, trattandosi di causa di lavoro, la durata ragionevole dovrebbe essere determinata utilizzando come parametro i termini stabiliti dalla L. n. 533 del 1973.
Censure sostanzialmente dello stesso contenuto sono formulate con i mezzi quinto e sesto, che, pertanto, devono essere esaminate unitamente al primo mezzo. Esse sono manifestamente infondate.
Premesso che il riferimento alla giurisprudenza della CEDU, enunciato in epigrafe, non è poi sviluppato con l’indicazione delle sentenze della medesima corte, che dovrebbero valere da fondamento della doglianza, si osserva che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa corte in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo non discende, come conseguenza automatica, dall’inosservanza di termini posti dal legislatore al manifesto scopo di imprimere un’accelerazione al processo (come quelli, previsti dal rito del lavoro, per l’individuazione della data entro cui deve tenersi l’udienza di discussione "ex" art. 415 cod. proc. civ.), l’inosservanza di detti termini rilevando solo in quanto (e nei limiti in cui) determini a sua volta il mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, richiamato dall’art. 2 della citata Legge, il quale è cosa diversa dai termini "legali", risultando da una sorta di media che tenga conto della durata del processo considerata fisiologica in linea di massima, salve le peculiarità del caso concreto (v. per tutte Cass. 18 febbraio 2004 n. 3143).
Con il secondo mezzo si censura per violazione delle medesime norme di diritto di cui al primo mezzo il decreto impugnato, nella parte in cui esso assume che il modesto valore della controversia incide sulla sussistenza di uno stimabile danno morale". Si assume che, seppure si volesse valutare modesta la posta in gioco, ciò comporterebbe una variazione dell’indennizzo fra i 1.000,00 e 1.500,00 per anno d’eccedenza della causa, fermi restando i 2.000,00 da aggiungere trattandosi di materia previdenziale.
Il mezzo è manifestamente infondato. La posta in gioco, infatti, se è irrilevante nell’accertamento del diritto all’equa riparazione nascente dal superamento del termine di ragionevole durata del processo, è un criterio legittimamente concorrente alla determinazione equitativa della somma dovuta a titolo d’equa riparazione, e può giustificare nel caso concreto una riduzione dei parametri inferiori di liquidazione mediamente applicati, semprechè sia contenuta nella sua incidenza e sorretta da congrua motivazione, com’è avvenuto nella specie.
Con il terzo mezzo si formula una censura basata sul rapporto tra normativa nazionale e sopranazionale, ma svolta senza alcun riferimento al caso da decidere, se non per quanto dedotto specificamente con altri mezzi, e pertanto inammissibile.
Con il quarto mezzo si deduce che, in relazione al primato delle norme della convenzione europea dei diritti dell’uomo, la corte territoriale avrebbe dovuto liquidare il danno non patrimoniale in ragione della durata del processo e non del ritardo irragionevole della sua decisione.
Il mezzo è manifestamente infondato. Secondo il costante insegnamento di questa corte, la precettività, per il giudice nazionale, degli indirizzi interpretativi vi ed applicativi della Convenzione nella giurisprudenza della CEDU in tema di liquidazione del danno non patrimoniale non concerne il profilo relativo al moltiplicatore della base di calcolo costituita dall’indennità per ciascun anno: mentre, infatti, per la CEDU l’importo come sopra quantificato va moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento (e non per ogni anno di ritardo), per il giudice nazionale è, sul punto, vincolante il terzo comma, lettera a), della L. n. 89 del 2001, art. 2 ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole. Detta diversità di calcolo, peraltro, non tocca la complessiva attitudine della citata L. n. 89 del 2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, e, dunque, non autorizza dubbi sulla compatibilità di tale norma con gli impegni internazionali assunti dalla Repubblica italiana mediante la ratifica della Convenzione europea e con il pieno riconoscimento, anche a livello costituzionale, del canone di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione medesima (art. 111 Cost., comma 2, nel testo fissato dalla Legge Costituzionale 23 novembre 1999, n. 2).
L’ultimo mezzo d’impugnazione censura il regolamento delle spese del processo per violazione e falsa applicazione dell’art. 6, p.1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e per omessa motivazione in ordine alla compensazione della metà delle spese. Dal rango internazionale della norma sostanziale fatta valere il ricorrente deduce che le spese del processo dovrebbero essere liquidate nello stesso modo davanti alle giurisdizioni internazionale e nazionale.
Entro questi limiti la doglianza è manifestamente infondata, perchè la materia della determinazione tariffaria dei compensi professionali è autonoma rispetto a quella dell’equo indennizzo per irragionevole durata del processo. Questa corte ha già affermato il principio che, nei giudizi di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89 trova applicazione la disciplina della responsabilità delle parti per le spese processuali e della condanna alle spese in relazione al criterio della soccombenza, e che tale principio non è in contrasto con l’art. 34 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, come modificata dal protocollo n. 11, atteso che l’impegno a non ostacolare l’effettivo esercizio del diritto non postula che la parte, la cui pretesa si sia rivelata priva di fondamento, debba essere sottratta alla statuizione sulle spese giudiziali (10 settembre 2003 n. 13211). E’ consequenziale che, anche nel caso di accoglimento parziale della domanda, o quando sussistano giusti motivi, l’autonomia della normativa nazionale comporti l’applicabilità della regola dettata dall’art. 92 c.p.c..
Quanto alla compensazione parziale delle spese del giudizio, si tratta di provvedimento discrezionale del giudice di merito, non sindacabile in cassazione, nel regime vigente ratione temporis.
Generica ed inammissibile, da ultimo, è la doglianza per la mancata attribuzione delle spese al procuratore antistatario, non riportandosi nel ricorso la relativa domanda, nella sua formulazione testuale e con l’indicazione dell’atto nel quale sarebbe stata formulata, indispensabile per il riscontro di legittimità ad opera della corte.
Il ricorso deve essere in conclusione respinto per manifesta infondatezza. In mancanza di difese svolte dall’amministrazione non v’è luogo a pronuncia sulle spese.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della prima sezione della Corte suprema di cassazione, il 19 maggio 2009.
Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2009