Decidendo sulla domanda di riparazione per ingiusta detenzione presentata da F.I. al fine di ottenere un equo indennizzo per la detenzione "sine titulo" sofferta a seguito di ordinanza di custodia cautelare contro di lui emessa per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 ascrittogli in concorso con altri, la Corte di Appello di Cagliari, con ordinanza del 12/2/2008, la rigettava, rilevando l’esistenza di una causa di esclusione del diritto, per avere l’istante concorso a dare causa, per colpa grave, all’emissione del provvedimento coercitivo.
Costituivano fattori che causalmente avevano contribuito a determinare la genesi della ordinanza cautelare – spiegava in ordinanza la Corte di merito – le condotte pregresse, ritenute sussumibili nella colpa grave, quali l’essersi il F. portato con la sua autovettura in compagnia di S.G. presso l’abitazione di So.Gi. e poi presso l’ovile di quest’ultimo, il quale, scambiate poche parole, cedette ai due una partita di cocaina pari a gr. 48,5 (sufficiente a preparare 164 dosi), prelevandola da un recipiente nascosto nella campagna circostante in cui furono poi trovate dagli investigatori n. 24.242 pastiglie di ecstasy e altri gr. 442 di eroina. Altrettanto sinergiche al mantenimento della misura cautelare erano considerate dai giudici della riparazione le dichiarazioni rese dall’indagato nel corso dell’interrogatorio di garanzia che, con mendacio totale e coincidente con quello del correo S., miravano a scagionare il fornitore So., nonchè le dichiarazioni successive, con le quali l’indagato ha propugnato la versione giustificatrice della destinazione della droga acquistata per farne uso personale, in un caso in cui si trattava di una quantità (n. 164 dosi) non consumabile nell’immediato, nemmeno da incalliti tossicodipendenti.
Avverso tale ordinanza propone ora ricorso per cassazione il F., deducendo, con un primo motivo, violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla affermata ricorrenza della colpa grave, sul rilievo che dalla versione dei fatti declinata dal medesimo nel corso del suo interrogatorio, emergerebbe l’irrilevanza penale della sua condotta, riconducibile alla sua intenzione di acquistare dal S. una parte della cocaina cedutagli dal fornitore So., allo scopo di destinarla al consumo personale.
Con un secondo motivo, il ricorrente si duole che non sia stato considerato che le false dichiarazioni, rese dal F. in sede di interrogatorio di garanzia, erano giustificate dalla necessità di evitare le sanzioni amministrative previste per chi fa uso personale degli stupefacenti, sicchè avrebbero dovuto ritenersi coperte dall’esimente del reato di falsa testimonianza, di cui all’art. 384 c.p..
Con un terzo motivo, viene sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 314 c.p.p. nella parte in cui prevede che la colpa grave esclude il diritto all’indennizzo; ciò per violazione della Legge – delega del codice procedura penale, nonchè per violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 19/12/1966 e reso esecutivo in Italia con L. n. 881 del 1977.
Ritiene il Collegio che il ricorso non sia meritevole di accoglimento.
Giova premettere che nel procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione, ai fini dell’accertamento della sussistenza della condizione ostativa della colpa grave dell’interessato, è necessario che essa si sostanzi in comportamenti specifici e certi e non in mere congetture e, altresì, che sia accertato il rapporto tra tali comportamenti ed il provvedimento restrittivo della libertà personale, con la precisazione che deve intendersi gravemente colposo il comportamento dell’indagato caratterizzato da eclatante leggerezza o macroscopica trascuratezza, tale, cioè, da superare i limiti del comune buon senso e da porre in essere un meccanismo di imputazione del fatto praticamente non dissimile dal dolo e, così, da giustificare l’esclusione del diritto all’indennità.
Applicando tali principi al caso in esame, è agevole rilevare come siano presenti nel provvedimento impugnato argomentazioni coerenti con la decisione di escludere il richiedente dal diritto all’indennizzo per ingiusta detenzione.
Anzitutto, il vaglio delle circostanze di fatto idonee ad integrare la colpa grave è stato dai giudici della riparazione legittimamente operato con giudizio ex ante e sulla base dell’idoneità della condotta dell’indagato a trarre in inganno l’A.G. ed a porsi come situazione sinergica alla causazione dell’evento detenzione.
Nel procedere a tal giudizio, inoltre, i medesimi giudici hanno seguito correttamente un iter motivazionale del tutto autonomo, attribuendosi il compito di stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se queste si siano poste come fattore condizionante, anche nel concorso dell’altrui errore, all’adozione e al mantenimento della misura coercitiva.
Sotto questo aspetto, la Corte territoriale ha legittimamente valutato in piena ed ampia libertà il materiale acquisito nel processo, non già per rivalutarlo, bensì per controllare la ricorrenza o meno delle condizioni dell’azione di natura civilistica, e, in tal modo ha accertato e, quindi, evidenziato nell’ordinanza impugnata, che sussisteva una causa di esclusione del diritto alla riparazione.
La logicità del convincimento è, all’evidenza, espressa nella esposizione della condotta del richiedente, antecedente all’emissione della ordinanza di custodia cautelare, il quale, conducendo la propria autovettura fino all’abitazione del fornitore di droga e poi nella campagna ove costui teneva l’ovile, aveva assistito direttamente alla consegna al correo S. della cocaina prelevata dal So. dal nascondiglio, in tal modo ponendosi nella posizione di colui che appare essere interessato personalmente a partecipare con il S. all’acquisto dello stupefacente.
La coerenza logica della decisione di rigettare la domanda non è scalfita nemmeno dalla seconda censura riferita alla pretesa erroneità della valorizzazione, ai fini dell’esclusione del diritto all’indennizzo, della discolpa dell’indagato, il quale ha mentito, fornendo diverse versioni contrastanti tra loro a proposito del ruolo avuto nella intera vicenda in stretto contatto con l’amico – socio nell’acquisto della cocaina poi sequestrata.
Consapevoli che il mancato contributo a chiarire la propria posizione, da parte di chi soffre una detenzione rivelatasi ingiusta, in tanto può essere valutato in chiave di colpa grave, in quanto la valutazione, condotta con particolare rigore, si risolva, al fine di evitare inammissibili compressioni del diritto di difesa, nell’accertamento di una condotta difensiva scorretta o macroscopicamente dissennata, legata, in ogni caso, con rapporto di causa ad effetto con la detenzione, i giudici della riparazione, tuttavia, sul punto contestato offrono nel provvedimento impugnato una chiave di lettura logica.
Appaga, infatti, le esigenze di particolare rigore sopra avvertite la spiegazione che la palese incoerenza e inverosimiglianza delle discolpe, delineando la posizione dell’istante come quella di un’indagato che, indirettamente confermando le accuse a suo carico, aveva seriamente rafforzato nel magistrato il convincimento sulla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e, quindi, concorso causalmente alla decisione di mantenere la misura custodiale.
Ne consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
E’, infine, doveroso spiegare le ragioni della ritenuta manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 314 c.p.p., sollevata dal ricorrente.
A parere del Collegio non sussiste la violazione della Legge delega – che ad avviso del ricorrente non avrebbe previsto il criterio dell’assenza del dolo o della colpa grave – per la ragione che, nell’affidare al Legislatore delegato il compito di disciplinare la riparazione dell’ingiusta detenzione, il Legislatore delegante ha inteso fissare appunto il criterio direttivo che la detenzione fosse "contra ius"; ne deriva che la causa di esclusione fondata sul comportamento doloso o gravemente colposo non può che ritenersi implicita in tale criterio direttivo, non potendosi dire ingiusta una detenzione che colui che l’ha subita abbia concorso a determinare con il proprio comportamento improntato a grave leggerezza ovvero al dolo.
Non sussiste neppure la pretesa violazione della CEDU, posto che da un lato, l’indennizzo, come previsto dalla fonte sopranazionale citata, spetta a chi sia stato "vittima" di una detenzione in violazione dell’art. 5, comma 5, con ciò escludendo dal beneficio colui che, in quanto non vittima, abbia dato causa a tale restrizione.
Dall’altro lato, va considerato che, come di recente ritenuto da questa Corte (Sezione, 1^ civile, n. 10145 del 2009), le norme della CEDU integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub – costituzionale, sicchè va valutata anche la conformità della CEDU alla Costituzione Italiana.
Orbene, non v’è chi non veda come un’interpretazione della CEDU, che riconosca il diritto all’indennizzo anche a quanti hanno concorso a determinare l’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale, finirebbe per contraddire il fondamento solidaristico dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione e per comportare una violazione dell’art. 2 Cost., non foss’altro perchè, seguendo quella interpretazione, verrebbe meno la necessità che chi richiede l’indennizzo abbia "patito" (e non concorso alla) l’adozione del provvedimento restrittivo della libertà, quale ratto e fondamento del ristoro assicurato dall’ordinamento giuridico. Quanto, infine, all’art. 9 del Patto di New York, questo prevede un indennizzo in favore di "chiunque sia stato vittima di arresto o detenzione illegali", sicchè non solo si richiede che l’avente diritto sia "vittima" del provvedimento restrittivo (e, quindi, si esclude dal beneficio chi vi abbia dato causa), ma l’indennizzo è riconosciuto solo nel caso di detenzione "illegale" e non – come nella fattispecie – nel caso di misura restrittiva adottata in presenza dei presupposti di legge per un’accusa, rivelatasi solo ex post infondata.
Il ricorrente, in quanto soccombente, dovrà rimborsare al Ministero dell’Economia e delle Finanze, che vittoriosamente ha resistito all’impugnazione, le spese sostenute in questo giudizio di Cassazione, equitativamente liquidate ex actis in complessivi Euro 500,000, oltre accessori se dovuti per legge.

P.Q.M.
Dichiara manifestamente infondata la dedotta questione di legittimità costituzionale. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese a favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che liquida in complessivi Euro 500,00.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 luglio 2009.
Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2009