1. Nel presente procedimento per equa riparazione, proposto a norma della L. n. 89 del 2001, il processo presupposto era stato intentato da P.A. con ricorso, in data 26.11.99, davanti al Giudice del Lavoro di Napoli. Il ricorrente, a seguito di licenziamento ed iscrizione al collocamento, era stato ammesso alla fruizione del trattamento di disoccupazione previsto per legge. Le prestazioni periodiche, a carico dell’INPS, erano state corrisposte sempre in ritardo. Per effetto della L. n. 223 del 1991, al ricorrente, iscritto nelle liste di mobilità, avrebbe dovuto essere corrisposta, parimenti a carico dell’INPS, anche l’indennità c.d. "di mobilità" ed anche questa era stata corrisposta in ritardo. Il giudizio veniva definito con sentenza in data 14.10.2000.
In data 30.5.2001, P.A. presentava impugnazione davanti al Giudice del Lavoro di secondo grado per ottenere il riconoscimento dei maggiori interessi e della rivalutazione. Tale procedimento si concludeva con sentenza del 19.3.2004, depositata il 5.4.2004.
2. Il ricorrente adiva quindi la Corte d’Appello di Roma, chiedendo la riparazione del danno patito a causa dell’eccessivo protrarsi del processo con il riconoscimento di un risarcimento nella misura di Euro 6.125,00 (Euro 625,00 per 5 mesi del primo grado; Euro 3.500,00 per 28 mesi del secondo grado, oltre ad Euro 2.000,00 di bonus). La Corte, con decreto depositato il 3.11.2005, affermata la propria competenza, riteneva infondata la pretesa del ricorrente, posto che la durata del processo, pari a meno di tre anni, tenuto conto della natura della controversia, appariva ragionevole. Respingeva, quindi, il ricorso e compensava le spese di lite tra le parti.
Avverso tale pronuncia, P.A. presentava ricorso davanti a questa Corte, deducendo i seguenti motivi di censura:
– contrasto tra giurisprudenza nazionale e CEDU in relazione alla fissazione del periodo eccedente la ragionevole durata del processo.
Sosteneva il ricorrente che, trattandosi di causa di lavoro, avrebbe dovuto essere definita in tempi molto più rapidi;
– violazione o falsa applicazione dell’art. 6 della CEDU, nonchè violazione della L. n. 89 del 2001. Il ricorrente ricordava che la Corte di Strasburgo, in varie sentenze, aveva condannato l’Italia al pagamento degli indennizzi, avendo considerato l’inadeguatezza della legge italiana a garantire i parametri CEDU, per la mancanza di iniziative atte ad abbreviare i tempi della giustizia, per il mancato adeguamento della giurisprudenza nazionale alla giurisprudenza europea in tema di determinazione della durata ragionevole e di ammontare degli indennizzi dovuti, nonchè per il mancato adeguamento ai criteri di determinazione delle spese legali.
3. Il Ministero della Giustizia, in data 7.12.2006, notificava controricorso, deducendo:
– che non vi erano stati, nel caso di specie, ritardi imputabili agli uffici giudiziari;
– che la durata del processo, inferiore a tre anni, era da considerarsi assolutamente ragionevole anche in relazione al tipo di controversia;
– che non era stata fornita dalla controparte alcuna prova del danno non patrimoniale subito, risultando quindi sproporzionata la relativa richiesta di risarcimento, ove peraltro la stessa domanda del giudizio di merito dinnanzi al Tribunale di Napoli era stata di entità molto inferiore;
– che non era stata fornita dal ricorrente neppure la prova del nesso di causalità tra il preteso danno e la violazione del principio di ragionevole durata.
4. In data 7.4.2008 il Procuratore Generale presso la Cassazione presentava le sue conclusioni, sostenendo l’inammissibilità del proposto ricorso.
La difesa del ricorrente depositava memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
5. Questa Corte ritiene che il ricorso sia fondato limitatamente al superamento del termine di ragionevole durata del giudizio di secondo grado. Si deve, innanzitutto, escludere che il giudizio del lavoro o previdenziale sia di per sè suscettibile di essere risolto in tempi più rapidi rispetto al processo civile ordinario, posto che, dopo la riforma di cui alla L. n. 353 del 1990, anche quest’ultimo partecipa dei medesimi principi di speditezza e concentrazione che avevano ispirato la riforma del processo del lavoro del 1973, onde non si ravvisano ragioni per cui ridurre i termini che secondo la giurisprudenza sono da considerare ragionevoli per il giudizio ordinario di primo grado (tre anni) e per quello di secondo grado (due anni). Tuttavia, nel caso in esame, mentre il giudizio di primo grado si è svolto in tempi rapidi (11 mesi), il giudizio di appello si è protratto oltre il termine di due anni solitamente giudicato come ragionevole (essendo durato due anni e dieci mesi).
La motivazione resa sul punto dalla Corte territoriale, che ha invece ritenuto congruo il periodo di circa tre anni in cui si è protratto il giudizio di secondo grado, non appare sufficiente al fine di illustrare le ragioni che potrebbero supportare una simile diversa valutazione. Non sono stati, infatti, indicati elementi di complessità del giudizio, richieste di rinvii a cura della parte ricorrente, altre cause di rallentamento imputabili a quest’ultima;
la Corte si è limitata ad affermare: "la durata del processo ….risulta essere assolutamente ragionevole, tenuto conto della natura di esso e del carico dell’ufficio per siffatte controversie".
Tale affermazione risulta generica ed errata laddove sembra giustificare la maggior durata con riferimento al carico dell’ufficio. La fonte del diritto al risarcimento nasce proprio sulla base della considerazione dell’inadeguatezza del sistema giudiziario ad offrire una risposta in termini ragionevoli alle istanze di giustizia avanzate dalle parti, senza che possano costituire causa di esonero da una simile responsabilità il carico del lavoro dei singoli uffici o problemi contingenti di carattere organizzativo, comunque riferibili all’amministrazione giudiziaria.
6. Deve, pertanto, procedersi alla cassazione del provvedimento impugnato, ritenendosi che, a norma dell’art. 384 c.p.c., possa seguire la decisione nel merito. A tale riguardo si deve altresì aver presente che, non avendo nè il decreto impugnato, nè la difesa del Ministero, che pure si è costituito nel presente grado, indicato particolari difficoltà del giudizio presupposto, può affermarsi la non complessità di tale giudizio. Nessun profilo di danno patrimoniale e stato dedotto dal ricorrente, che si è limitato a chiedere il risarcimento del danno morale.
La sola voce di danno che può essere riconosciuta attiene quindi al c.d. danno non patrimoniale, da individuarsi in quelle sofferenze di tipo psichico che in via presuntiva può ritenersi derivino a chi, avendo proposto una domanda in giudizio, non veda in tempi ragionevoli intervenire una decisione sulle proprie istanze, positiva o negativa che sia. Ai fini della liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, l’ambito della valutazione equitativa, affidato al giudice del merito, è segnato dal rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per come essa vive nelle decisioni, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, di casi simili a quello portato all’esame del giudice nazionale, di tal che è configurabile, in capo al giudice del merito, un obbligo di tener conto dei criteri di determinazione della riparazione applicati dalla Corte europea, pur conservando egli un margine di valutazione che gli consente di discostarsi, purchè in misura ragionevole, dalle liquidazioni effettuate dalla Corte europea, la quale (con ripetute decisioni adottate a carico dell’Italia) ha individuato nell’importo compreso fra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 per anno la base di partenza per la quantificazione di tale indennizzo, ferma restando la possibilità di superare tali limiti, minimo e massimo, in relazione alla particolarità delle fattispecie. La precettività, per il giudice nazionale, di tale indirizzo non concerne tuttavia anche il profilo relativo al moltiplicatore di detta base di calcolo: mentre, infatti, per la CEDU l’importo come sopra quantificato va moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento (e non per ogni anno di ritardo), per il giudice nazionale è, sul punto, vincolante la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole. Detta diversità di calcolo, peraltro, non tocca la complessiva attitudine della citata L. n. 89 del 2001, ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, e, dunque, non autorizza dubbi sulla compatibilità di tale norma con gli impegni internazionali assunti dalla Repubblica italiana mediante la ratifica della Convenzione europea e con il pieno riconoscimento, anche a livello costituzionale, del canone di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione medesima (art. 111 Cost., comma 2, nel testo fissato dalla Legge Costituzionale 23 novembre 1999, n. 2).
Procedendo quindi alla liquidazione di tale danno, per il solo periodo eccedente la ragionevole durata (dieci mesi), secondo le indicazioni di cui alla stessa L. n. 89, necessariamente in via equitativa, e facendo riferimento ai criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo per tale tipo di danno ed ai parametri utilizzati da questa Corte in casi analoghi, si ritiene di liquidare in favore del ricorrente P.A., per il periodo di 10 mesi di esubero rispetto al termine ritenuto come ragionevole per il giudizio d’appello, la somma di Euro 750,00, oltre interessi legali dalla domanda.
7. Va poi disattesa la pretesa alla liquidazione del bonus (a tale titolo è stata richiesta l’ulteriore somma di Euro 2.000,00), in aggiunta al risarcimento del danno non patrimoniale, per la semplice ragione che si tratti di causa in materia previdenziale, posto che ciò non costituisce fondamento per un’automatica dazione ulteriore, che non trova ragione in un disagio maggiore per la durata del processo rispetto a quello connesso a simile situazione in altre fattispecie. Il risarcimento, infatti, non può essere ragguagliato alla tipologia dei diritti per cui si procede o alla situazione di minore o maggiore indigenza o necessità dell’accipiens, bensì al disagio avvertito in relazione al ritardo nella decisione, disagio che in relazioni a somme modeste non può certo essere sopravvalutato.
8. Per quanto riguarda le ragioni di doglianza riguardanti la liquidazione delle spese processuali della fase davanti alla Corte d’appello, le stesse, peraltro assolutamente incoerenti rispetto alla compensazione delle spese disposta in quel grado, rimangono comunque assorbite, posto che l’accoglimento della domanda di equa riparazione determina la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento della spese processuali del giudizio di primo grado. Per il presente giudizio, in considerazione della soccombenza del ricorrente in relazione ad alcuni dei motivi di ricorso proposti, si ritiene di disporre la compensazione per metà delle spese, ponendo la residua metà a carico del Ministero. Tali spese sono liquidate come in dispositivo, con riferimento al valore della causa in base alla somma liquidata.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito ex art. 384 c.p.c., condanna il Ministero della Giustizia a pagare al ricorrente la somma di Euro 750,00, oltre interessi al tasso legale dalla domanda;
condanna il Ministero al pagamento delle spese del giudizio di merito, che liquida in Euro 289,00 per diritti, Euro 270,00 per onorari, Euro 50,00 per esborsi, oltre al rimborso spese generali ed accessori come per legge, spese che dispone siano distratte a favore dell’avv. Alfonso Luigi Marra, antistatario; compensa le spese processuali in misura di metà per il presente giudizio di legittimità, gravando l’Amministrazione della residua metà;
determina detta metà in Euro 350,00 di cui Euro 50,00 per esborsi, Euro 300,00 per onorari, oltre al rimborso spese generali ed accessori come per legge, da distrarsi in favore dell’avv. Alfonso Luigi Marra antistatario.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 luglio 2009.
Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2009