Con decreto in data 28 giugno/19 luglio 2005 la Corte d’appello di Torino condannava il Ministero della Giustizia al pagamento in favore di T.G. della complessiva somma di Euro 3.790,71, di cui Euro 3.262,23, a titolo di indennizzo del danno non patrimoniale, ed Euro 528,48, quale indennizzo del danno patrimoniale, in conseguenza del superamento del termine di ragionevole durata di un processo fallimentare aperto dal Tribunale di La Spezia, con sentenza in data 11 gennaio 1990, nei confronti di M.T., di cui la T. era creditrice ammessa al passivo, e non ancora concluso.
A fondamento della decisione, la Corte di merito – premesso che la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo pronunciata su istanza di altro soggetto nei confronti dello Stato italiano e riguardante la durata del medesimo processo fallimentare oggetto del presente giudizio (sentenza CEDU 1 marzo 2001, in causa (OMISSIS) e/Italia) rendeva non più contestabili sia la violazione del termine ragionevole di durata del processo fallimentare nei confronti di M.T., che la potenziale lesione della sfera morale dei creditori in conseguenza dell’eccessiva dilatazione dei tempi processuali, restando invece soggetti ad autonomo scrutinio della Corte di merito sia il concreto pregiudizio subito dalla ricorrente (non automaticamente sovrapponibile a quello degli altri creditori istanti che avessero ricevuto tutela in sede europea), che l’individuazione della frazione di tempo eccedente il limite di durata ragionevole (non avendo la Corte di Strasburgo operato alcuna chiara enunciazione sul caso specifico) – affermava che la durata ragionevole del processo avrebbe dovuto essere determinata ®in circa otto o nove anni¯, in considerazione della non comune complessità della procedura; sosteneva inoltre che il danno non patrimoniale poteva essere stimato nella misura di euro 3.262,23 pari al 20 per cento del credito ammesso al passivo, "tenuto conto che le vicende del fallimento e la sua incapienza per il chirografo erano circostanze largamente prevedibili e dunque anche psicologicamente scontate, sin dal momento in cui lo stato passivo fu reso esecutivo (aprile 1992)", e che il danno di natura patrimoniale ammontava ad euro 528,48, in considerazione del fatto che il credito della ricorrente avrebbe potuto essere soddisfatto nella procedura fallimentare in misura non superiore a Euro 1.468,00, e che il pregiudizio consisteva nel "mancato rimpiego al 6%" di tale importo per il periodo di durata non ragionevole del processo.
Per la cassazione di tale decreto ricorre la T. sulla base di due articolati motivi, illustrati con memoria.
Resiste con controricorso e ricorso incidentale, fondato su di un motivo, il Ministero della Giustizia.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente deve disporsi, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., la riunione dei ricorsi, in quanto proposti avverso il medesimo decreto.
Con i due motivi di ricorso la T. censura il decreto impugnato, deducendo che:
1.1. la Corte di appello di Torino ha errato nel ritenere non applicabile alla fattispecie il precedente della CEDU in data 1 marzo 2001 nella causa (OMISSIS) e/Italia, "perfettamente identico quanto a petitum e causa petendi e quindi, a tutta evidenza, tout court sovrapponile", che ha portato alla condanna dello Stato italiano a rifondere al ricorrente ( V.A.) – creditore del Fallimento (OMISSIS) al pari del C. – la somma di L. 28.000.000, in conseguenza della durata irragionevole della procedura fallimentare accertata nella misura di sette anni;
1.2. la Corte di merito ha errato anche nel ritenere ragionevole la durata del processo fallimentare di cui trattasi nella misura di otto o nove anni, laddove la Corte di Strasburgo aveva valutato in tre anni la durata ragionevole dello stesso giudizio;
1.3. la durata ragionevole del processo è stata comunque determinata in modo del tutto generico e approssimativo ("otto o nove anni"), che non consente di stabilire nemmeno implicitamente il periodo di durata irragionevole, che deve essere necessariamente accertato onde procedere successivamente alla liquidazione dell’indennizzo;
1.4. il danno non patrimoniale è stato liquidato in misura del tutto insufficiente, pari a Euro 500,00, per ogni anno di accertato ritardo, e in contrasto con la quantificazione operata dalla Corte di Strasburgo nella causa (OMISSIS) e/Italia e comunque disapplicando i parametri utilizzati in generale dalla stessa Corte e recepiti anche dalla Corte di cassazione;
1.4. il danno patrimoniale, se pur valutato con ragionamento "condivisibile e tutto sommato accettabile", dovrebbe essere oggetto di revisione in caso di accoglimento del gravame sulla determinazione della durata irragionevole della procedura;
1.5. con riferimento alle spese processuali, nulla è stato liquidato per gli esborsi, oggetto di completa elencazione nella nota spese.
2. Con il ricorso incidentale il Ministero della giustizia deduce che l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la disciplina dell’equa riparazione per la irragionevole durata del processo di cui alla L. n. 89 del 2001, si riferiscono ai processi di cognizione, ma non si applicano alle procedure esecutive e concorsuali.
3. Esaminando congiuntamente entrambi i ricorsi, osserva preliminarmente il collegio che i principi costituzionali del giusto processo e della sua ragionevole durata impongono al giudice di legittimità di rilevare d’ufficio l’esistenza di un eventuale giudicato esterno (Cass. 2007/14014; cfr. Cass. 2006/23370;
2009/5360) ed inoltre che, nel caso in cui tale giudicato esterno si sia formato a seguito di una sentenza della Corte di cassazione, i poteri cognitivi del giudice di legittimità possono prescindere da eventuali allegazioni in tal senso delle parti e fondarsi sugli strumenti informatici e sulle banche dati elettroniche interne all’ufficio, ove siano archiviati i ricorsi e le decisioni, o su quell’attività d’istituto (relazioni preliminari ai ricorsi, massime ufficiali) che costituisce corredo della ricerca del collegio giudicante, in tal senso deponendo non soltanto il preminente interesse pubblico sotteso ai principi costituzionali sopra ricordati, ma anche il principio generale che impone di prevenire il contrasto tra giudicati e il divieto del "ne bis in idem" e il rilievo secondo cui la conoscenza dei propri precedenti costituisce un dovere istituzionale della Corte di legittimità (cfr. Cass. 2007/1564; 2007/14014).
4.1. Nel caso di specie, risulta che questa Corte, con sua sentenza n. 2195/09, non allegata dalle parti, ma conosciuta dal collegio nella sua attività di ricerca dei precedenti, ha respinto il ricorso per cassazione proposto da T.G. avverso il decreto della Corte di appello di Torino del 17 agosto 2005, con il quale era stato dichiarato inammissibile il ricorso per equa riparazione dalla medesima proposto per violazione del termine ragionevole di durata della procedura fallimentare aperta a carico di M.T. nel gennaio 1990, nel cui passivo era stato ammesso anche il credito della T..
Risulta, in particolare, dalla richiamata sentenza di legittimità che la Corte di appello di Torino, su eccezione del Ministero della Giustizia che aveva opposto alla domanda della T. la preclusione derivante da precedenti ricorsi riguardanti casi analoghi, ha dichiarato la inammissibilità del ricorso per equa riparazione della T. stessa sul rilievo che la circostanza che la menzionata ricorrente "fosse titolare di più posizioni creditorie nei confronti del fallito non consentiva la reiterazione di più ricorsi per equa riparazione, data la medesimezza del procedimento concorsuale e tenuto conto che la domanda non era limitata a conseguire il maggior danno derivato dall’ulteriore protrazione del fallimento dopo l’ultimo ricorso depositato".
4.2. Con la citata sentenza n. 2195/2009 la Corte di cassazione ha respinto il ricorso avverso il richiamato decreto della Corte di appello di Torino del 17 agosto 2005, osservando che "se il processo è unico, la pluralità di domande in esso proposte da solo adito al fenomeno del cumulo, in cui le varie domande si sommano nel valore ai fini della competenza (art. 10 c.p.c., comma 2), ma lasciano salva la unicità della posizione soggettiva esaminabile sotto il profilo dell’equa riparazione.
Il frazionamento di un credito dipendente da un’unica causa petendi in più domande è suscettibile, anzi, di costituire un esempio di "abuso del diritto" (Cass. sez. unite 15 novembre 2007, n. 23726), se non giustificato da specifiche circostanze e dunque artificioso.
Ma anche al di fuori di quest’ipotesi, lo stato d’animo di ansia ed il patema in cui si sostanzia il danno non patrimoniale risarcibile ex art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, concretano, evidentemente, un evento unico, riferibili come sono alla durata di uno stesso processo; ed il valore dell’oggetto (la c.d.
posta in giuoco) – sia esso correlato ad unico petitum o effetto di cumulo tra più domande – può solo influire sull’entità dell’indennizzo".
La Corte di cassazione ha pertanto ritenuto immune da mende la statuizione – pronunciata dalla Corte di appello – di inammissibilità della domanda di equa riparazione della T., in quanto reiterativa di altre già proposte in precedenza, tenuto anche conto che tale domanda ®non si è limitata ad un’ammissibile richiesta di indennizzo per l’ulteriore ritardo maturato dopo l’ultima decisione emessa su analogo ricorso", nè è stata "volta a far valere un ritardo ritenuto insussistente in precedenti decreti e maturato in seguito, in conseguenza dell’ulteriore durata del processo".
4.3. Alla stregua del contenuto decisorio della menzionata sentenza n. 2195/2009 di questa Corte, deve pertanto ritenersi formato il giudicato in ordine alla circostanza che la T. ha proposto più domande di equa riparazione per la violazione del termine di ragionevole durata della stessa procedura fallimentare aperta a carico di M.T. nel gennaio 1990, e sulla inammissibilità delle domande reiterative di altre dalla medesima T. proposte in precedenza e non riguardanti richieste di indennizzo per ritardi maturati dopo l’ultima decisione emessa su analogo ricorso. In particolare, dal decreto della Corte di appello di Torino del 17 agosto 2005, oggetto della richiamata sentenza di questa Corte n. 2195/2009, risulta che la T. ha proposto per la violazione del termine ragionevole di durata della proceduta fallimentare a carico di M.T., oltre ai ricorsi n. 148/05 e 167/05, oggetto del presente giudizio, ed al ricorso n. 212/05, oggetto della pronuncia della Corte di appello di Torino confermata dalla questa Corte con sentenza n. 2195/2009, anche il ricorso n. 125/05, oggetto di autonoma decisione di merito.
Poichè con il ricorso in esame la T. ha chiesto l’indennizzo non per ritardi maturati successivamente alle precedenti decisioni pronunciate su analoghi suoi ricorsi, ma per la violazione del termine di ragionevole durata della procedura fallimentare a carico di M.T., reiterando analoghe domande già proposte in precedenza, in applicazione del giudicato formatosi per effetto della sentenza di questa Corte n. 2195/2009, il decreto della Corte di appello di Torino in questa sede impugnato da entrambe le parti deve essere annullato.
Poichè non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, con la dichiarazione d’inammissibilità degli originari ricorsi introduttivi per equa riparazione proposti dalla T. in data 16 e 21 marzo 2005, davanti alla Corte di appello di Torino, nei giudizi iscritti ai nn. 148/05 e 167/05.
La peculiarità della fattispecie e l’esito del giudizio giustificano la compensazione delle spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e pronunciando sui medesimi, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, dichiara inammissibili le domande proposte da T.G. in data 16 e 21 marzo 2005, davanti alla Corte di appello di Torino, nei giudizi iscritti ai nn. 148/05 e 167/05. Compensa le spese dell’intero giudizio.
Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2009.
Depositato in Cancelleria il 18 novembre 2009