Con ricorso per denuncia di nuova opera il condominio di via (OMISSIS) ed i condomini M.I., M. P., D.R. e S.M. denunziavano l’inizio di lavori di sopraelevazione sul terrazzo di copertura dell’edificio condominiale da parte di B.L. deducendo che tali lavori contrastavano con le prescrizioni pattuite dalla società costruttrice.
L’adito pretore di Napoli ordinava la sospensione dei lavori e rimetteva le parti innanzi al tribunale (competente per valore) innanzi al quale gli attori riassumevano il giudizio chiedendo la condanna della B. alla rimozione della sopraelevazione ed al ripristino dello stato dei luoghi.
La convenuta resisteva alla domanda che il tribunale di Napoli accoglieva con sentenza 3533/02 impugnata dalla B. con atto di appello al quale resistevano il condominio ed i condomini M., D. e M.P. mentre il condomino S. restava contumace nel giudizio di secondo grado.
Con sentenza 28/4/2004 la corte di appello di Napoli: 1) in parziale riforma dell’impugnata sentenza dichiarava inammissibile la domanda proposta dal condominio; 2) confermava la pronuncia del tribunale con riferimento all’accoglimento della domanda degli altri attori. La corte di merito osservava: che era fondato il primo motivo di gravame con il quale la B. aveva sostenuto che l’amministratore del condominio – controvertendosi su un patto contrattuale relativo a beni esclusivi – non aveva legittimazione processuale a promuovere un giudizio in difesa di asseriti diritti contrattuali di proprietari esclusivi di, singole unità immobiliari ubicate nell’edificio condominiale; che nella specie si trattava di azione reale concernente l’esistenza e il contenuto dei diritti spettanti ai singoli condomini in virtù dei rispettivi acquisti, diritti rimanenti nell’esclusiva disponibilità dei titolari; che l’appello era invece infondato con riferimento all’accoglimento della domanda proposta dai singoli condomini; che nell’atto di compravendita 14/4/1981, con il quale la B. aveva acquistato l’unità immobiliare in questione, era espressamente sancito il riferimento "ai diritti, oneri, e limitazioni di cui all’atto di acquisto del dante causa della venditrice" del 23/12/1963 che la B. aveva dichiarato "di conoscere ed accettare"; che quindi l’appellante era a conoscenza del seguente divieto di cui all’art. 7: "resta vietata qualsiasi costruzione sulle terrazze di copertura, sui balconi e su qualsiasi altro spazio libero aggregato alla varie unità immobiliari…… Resta altresì vietata qualsiasi modificazione od innovazione alle finestre e balconi, nonchè alle facciate del fabbricato, onde evitare che possa essere turbata l’estetica e la statica del fabbricato stesso"; che il tenore di tale divieto non era discutibile prevedendo l’impossibilità di qualsiasi costruzione sulle terrazze di copertura e ciò a prescindere dall’influenza della costruzione sull’estetica e la statica dell’edificio; che al mancato rispetto di un patto contrattuale corrispondeva l’adeguata risposta giudiziaria intrapresa dagli attori; che la dicitura "terrazza di copertura" si riferiva non alle "terrazze a livello" ma ai lastrici solari di copertura; che, come emergeva dalla espletata c.t.u., la B. aveva eretto la costruzione sulla terrazza di copertura violando il divieto di cui alla prima parte del citato art. 7; che era infondato quanto dedotto dall’appellante in ordine alla nullità del detto divieto per mancanza di causa ben potendo le parti contrattuale convenzionalmente stabilire il divieto di ogni forma di innovazione; che di conseguenza non si doveva effettuare alcuna indagine sulla gravità dell’inadempimento giacchè, avendo le parti preventivamente valutato gli effetti sull’equilibrio giuridico- economico del contratto derivanti dall’innovazione o dalla modifica dell’immobile, non vi era più spazio per un diverso apprezzamento;
che l’innovazione e la modifica che anche in materia di condominio degli edifici l’autonomia privata consentiva alle parti di stipulare convenzioni limitative, nell’interesse comune ai diritti dei condomini, relativamente al contenuto del diritto del diritto domenicale sulle parti di esclusiva proprietà dei singoli condomini.
La cassazione della sentenza della corte di appello di Napoli è stata chiesta da B.L. con ricorso affidato a due motivi. Hanno resistito con controricorso M.I., Ma.
P. e D.R.. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
In via preliminare va rilevato che, al contrario di quanto eccepito dai resistenti nel controricorso, il ricorso è stata redatto nel pieno rispetto di quanto disposto dall’art. 366 c.p.c. in tema di contenuto del ricorso per cassazione. La B., infatti, ha specificamente indicato nell’atto: la data ed il numero della impugnata sentenza pronunciata dalla corte di appello di Napoli; la data dell’avvenuta notifica della detta sentenza; i fatti di causa e le vicende processuali; le parti della decisione impugnata oggetto delle articolate censure.
Tanto premesso va osservato che con il secondo motivo di ricorso – che sul piano logico va esaminato in via prioritaria rispetto al primo motivo – la B. denuncia violazione degli artt. 1362, 1363, 1369 e 1371 c.c. e dei canoni di ermeneutica interpretativa, nonchè vizi di motivazione, sostenendo che la corte di appello ha errato nell’interpretare la clausola contrattuale in questione (di cui all’art. 7 del contratto 23/12/1963) che andava considerata nel suo intero contenuto unitario della prima e della seconda parte tenendo conto che l’interesse posto a base della pattuizione non poteva essere (sia per la prima che per la seconda parte) che quello di vietare opere pregiudizievoli per la statica o per il decoro dell’edificio.
Anche questo motivo, al pari del primo, non è meritevole di accoglimento risolvendosi in una critica dell’interpretazione data dalla Corte di Appello alla clausola contrattuale sopra riportata.
Al riguardo è appena il caso di ribadire il principio giurisprudenziale, ormai comunemente recepito, secondo cui l’interpretazione degli atti di autonomia privata si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice del merito: tale accertamento è incensurabile in cassazione se sorretto da motivazione sufficiente ed immune da vizi logici o da errori di diritto e sia il risultato di un’interpretazione condotta nel rispetto delle norme di ermeneutica contrattuale di cui agli art. 1362 c.c. e segg..
L’individuazione della volontà contrattuale – che, avendo ad oggetto una realtà fenomenica ed obiettiva, si risolve in un accertamento di fatto riservato al giudice di merito – è censurabile non già quando le ragioni poste a sostegno della decisione siano diverse da quelle della parte, bensì quando siano insufficienti o inficiate da contraddittorietà logica o giuridica. Spetta in particolare al giudice del merito valutare il contenuto del contratto e di singole clausole contrattuali al fine di identificarne l’oggetto: il risultato di tale indagine è sindacabile in cassazione solo sotto il profilo della logicità e congruità della motivazione che nella specie come rilevato, si sottrae a critiche.
La giurisprudenza di questa Corte ha anche più volte rilevato che non è sindacabile in sede di legittimità la scelta da parte del giudice del merito del mezzo ermeneutico più idoneo all’accertamento della comune intenzione delle parti, qualora sia stato rispettato il principio del gradualismo, secondo il quale deve farsi ricorso ai criteri interpretativi sussidiari solo quando i cuori principali (significato letterale e collegamento tra le varie clausole contrattuali) siano insufficienti all’individuazione della comune intenzione stessa.
Nel caso in esame non sono ravvisabili nè i lamentati vizi di motivazione, nè le asserite violazioni di legge: la corte di appello ha ineccepibilmente proceduto all’interpretazione della clausola di cui al contratto del 23/12/1963, art. 7 trascritto il 19/2/1964, clausola il cui testo, nelle parti essenziali, è stato riprodotto nella decisione impugnata.
L’interpretazione data dalla corte di merito al contenuto della citata clausola è impeccabile: le argomentazioni al riguardo svolte nella sentenza impugnata sono esaurienti, logicamente connesse tra di loro e tali da consentire il controllo del processo intellettivo che ha condotto alla indicata conclusione. Il procedimento logico- giuridico sviluppato nell’impugnata decisione è coerente e razionale ed il giudizio di fatto in cui si è concretato il risultato dell’attività interpretativa è fondato su un’indagine condotta nel rispetto dei comuni canoni di ermeneutica operate dalle parti tenendo conto del significato letterale e logico delle espressioni adoperate dai contraenti.
Il giudice di secondo grado è giunto alla conclusione sopra riportata nella parte narrativa che precede (e dalla ricorrente criticata) attraverso argomentazioni complete ed appaganti, improntate a retti criteri logici e giuridici nonchè frutto di una precisa ricostruzione della volontà delle parti desumibile dal contenuto della pattuizione: in tal modo la corte di appello ha dimostrato di aver considerato e valutato il significato logico sotteso alle parti più significative per accertare la volontà degli autori dell’atto.
Il giudice di appello ha quindi dato conto delle proprie valutazioni esponendo le ragioni del suo convincimento: alle dette valutazioni la ricorrente contrappone le proprie, ma della maggiore o minore attendibilità di queste rispetto a quelle compiute dal giudice del merito non è certo consentito discutere in questa sede di legittimità.
Nella sentenza impugnata sono evidenziati i punti salienti della decisione e risulta chiaramente individuabile la "ratio decidendi" adottata. A fronte delle coerenti argomentazioni poste a base della conclusione cui è pervenuto il giudice di appello, è evidente che le censure in proposito mosse dalla ricorrente devono ritenersi rivolte non alla base del convincimento del giudice, ma inammissibilmente, al convincimento stesso e, cioè, all’interpretazione del contratto e delle clausole contrattuali in modo difforme da quello auspicato; la B. contrappone all’interpretazione del contratto ritenuta dalla corte di merito la propria interpretazione investendo essenzialmente il "risultato" interpretativo raggiunto, il che e inammissibile in questa sede.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 1418 c.c., art. 1325 c.c., n. 2, artt. 1174, 1027 e 1028 c.c. e dei principi generali dei contratti e delle servitù, nonchè vizi di motivazione. Deduce la ricorrente che, come accertato dalla espletata c.t.u. ignorata dalla corte di appello, nessuna incidenza ha avuto l’opera eseguita da essa B. sulla statica e sulla estetica dell’edificio condominiale. La corte di merito non ha inoltre considerato che l’appartamento di essa ricorrente è ubicato all’ultimo piano mentre gli appartamenti degli attori sono siti ai piani inferiori per cui non esiste alcun diretto rapporto, nemmeno di sola visibilità, tra i rispettivi beni delle parti in causa. Secondo il giudice di appello oggetto della controversia non è la violazione di una norma di regolamento di condominio, ma la violazione di un patto individuale contrattuale contenuto in un rogito di compravendita impositivo di un peso su un bene di proprietà esclusiva a favore di altri beni di proprietà esclusiva e, quindi, costitutivo di una servitù tra i soggetti contrattuali ed i loro aventi causa. Nessuna identificazione di un fondo dominante esiste però nell’art. 7 del contratto 23/12/1963 nè può essere individuato nell’edificio condominale o negli appartamenti dei resistenti privi di qualsiasi relazione con il lastrico solare per cui per tali appartamenti non sono concepibili utilità od interesse sì da poter configurare una servitù costitutiva di un divieto di eseguire opere sul lastrico solare inidonee ad arrecare pregiudizio all’estetica ed alla statica dell’edificio: da ciò la mancanza del requisito della causa prescritto dall’art. 1325 c.c. e di un qualsiasi interesse ai sensi dell’art. 1174 c.c. ad impedire nella altrui proprietà esclusiva opere non arrecanti nessun pregiudizio.
La corte di merito ha omesso ogni esame sulle ragioni di diritto poste a base dei motivi di appello ed è incorsa in contraddizione avendo da un lato escluso la legittimazione processuale dell’amministratore – trattandosi non di regolamento di condominio ma di patto contrattuale individuale costitutivo di servitù – e, da altro lato, non considerato l’insussistenza di qualsiasi relazione fisica tra il lastrico solare e gli appartamenti dei resistenti.
Il motivo è infondato.
Innanzitutto va segnalato che – come insindacabilmente accertato in fatto dalla corte di appello sulla base della relazione del c.t.u. e delle allegate fotografie – la B. effettivamente ha eretto sulla terrazza di copertura una "costruzione" ("meglio descritta nella relazione tecnica" come precisato alla pagina 7 della sentenza impugnata).
Le detta circostanza di fatto non è stata contestata dalla B. nel motivo di ricorso in esame, nè risulta che abbia formato oggetto delle censure mosse dalla ricorrente con l’atto di appello avverso la sentenza di primo grado.
Ciò posto va evidenziato che la corte di appello – rilevato che la prima parte dell’art. 7 del contratto 23/12/1963 richiamato nel contratto di compravendita stipulato dalla ricorrente vietava "qualsiasi costruzione sulle terrazze di copertura" senza alcun riferimento all’influenza della costruzione vietata sulla statica e sull’estetica dell’edificio – coerentemente non ha svolto alcuna indagine volta ad accertare l’incidenza dell’opera realizzata dalla B. sulla statica e sull’estetica dell’edificio condominiale in questione.
Devono ora richiamarsi i seguenti principi più volte affermati da questa Corte in tema di limitazioni dei diritti dei condomini sulla proprietà esclusiva e, in particolare, del diritto di sopraelevare spettante al proprietario esclusivo del lastrico solare o dell’ultimo piano di un edificio condominiale:
– il diritto di sopraelevare nuovi piani o nuove fabbriche spetta al proprietario esclusivo del lastrico solare o dell’ultimo piano di un edificio condominiale ai sensi e con le limitazioni previste dall’art. 1127 c.c., senza necessità di alcun riconoscimento da parte degli altri condomini, mentre limiti o divieti all’esercizio di tale diritto, assimilabili ad una "servitù altius non tollendi", possono esser costituiti soltanto con espressa pattuizione, che può esser contenuta anche nel regolamento condominiale, di tipo contrattuale (sentenza 6/12/2000 n. 15504);
– il divieto di sopraelevazione, avente sostanzialmente natura di "servitus altius non tollendi" a carico dell’ultimo piano dell’edificio ed a favore sia delle parti di proprietà comune che di quelle di proprietà esclusiva, può essere fatto valere da ciascuno dei condomini sia come tale, sia quale proprietario esclusivo di una porzione dell’edificio (sentenze 3/12/1994 n. 10397; 25/10/1988 n. 5776);
– il divieto assoluto previsto dal regolamento condominiale di innovazioni e modificazioni costituisce un diritto di servitù a vantaggio delle altre singole unità immobiliari e la reciprocità dei vincoli di tal genere collega singolarmente, in senso verticale, ognuno di coloro che ne beneficiano con ognuno di coloro che ne sono gravati, costituendo dei rapporti distinti anche se connessi (sentenze 773/2003 n. 3435; 28/6/2001 n. 8842);
– in ipotesi di sopraelevazione di edificio condominiale, i proprietari dei piani (o delle porzioni di piano) risultanti entrano a far parte del condominio ipso facto e ipso iure e, conseguentemente, ai sensi dell’art. 1117 c.c., acquistano senz’altro un diritto di comunione su tutte le parti di edificio ivi menzionate, ancorchè comprese nei piani preesistenti (sentenza 11/5/1984 n. 2889);
– l’indennità prevista dall’art. 1127 c.c., u.c. trae fondamento dalla considerazione che, per effetto della sopraelevazione, il proprietario dell’ultimo piano aumenta, a scapito degli altri condomini, il proprio diritto sulle parti comuni dell’edificio che, ai sensi dell’art. 1118 c.c., comma 1, è proporzionato al valore del piano o porzione di piano che gli appartiene (sentenza 16/6/2005 n. 12880).
Dall’applicazione dei detti principi giurisprudenziali – che il Collegio condivide e fa propri – discende che, al contrario di quanto dedotto dalla ricorrente a sostegno del motivo in esame, tra l’appartamento della B. sito all’ultimo piano dell’edificio condominiale in questione e le unità immobiliari dei resistenti, ubicate nei piani inferiori, pur se non vi è alcun diretto rapporto fisico e di visibilità, sussiste un vincolo di natura reale (assimilabile, secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, alla servitù "altius non tollendi") che li collega in virtù del divieto di costruire sulla terrazza di copertura previsto ed imposto in una specifica clausola del titolo di proprietà dell’appartamento della ricorrente.
La causa del detto divieto – come di altre analoghe clausole comportati l’obbligo di non apportare modifiche di sorta alle proprie unità abitative – va individuata essenzialmente nell’avvertita esigenza sia di non alterare il rapporto tra il valore dell’appartamento dell’ultimo piano rispetto al valore delle unità immobiliari ubicate nei piani sottostanti, sia di evitare l’accrescimento – a scapito degli altri condomini – del diritto del proprietario dell’ultimo piano sulle parti comuni dell’edificio conseguente all’incremento dell’utilizzo di tali parti comuni.
Così individuata la causa della clausola contrattuale in questione, emerge con evidenza ed immediatezza la natura, nonchè l’essenza, dell’utilitas dei fondi dominanti (immobili di proprietà esclusiva dei singoli condomini e parti comuni dell’edificio condominiale) che i contraenti – nel libero esercizio dei diritti disponibili e delle facoltà a questi connesse – hanno autonomamente ritenuto di dover assicurare e tutelare, nell’ambito dell’assetto negoziale meglio rispondente alle rispettive esigenze, con la costituzione della servitù "altius non tollendi" e con l’imposizione al fondo servente di un sacrificio consistente nella riduzione del diritto del condomino sull’immobile di proprietà esclusiva.
Va infine rilevato, con riferimento al vantaggio e all’utilitas dei fondi serventi, che come questa Corte ha avuto modo di precisare, in tema di servitù "altius non tollendi", il contenuto del diritto si concreta nel dovere del proprietario del fondo servente di astenersi da qualunque attività edificatoria che abbia come risultato quello di comprimere o ridurre le condizioni di vantaggio derivanti al fondo dominante dalla costituzione di detta servitù, quale che sia, in concreto, l’entità di siffatta compressione o riduzione e indipendentemente dalla misura dell’interesse del titolare del diritto a far cessare impedimenti e turbative del medesimo; ne consegue che non è possibile subordinare la tutela giudiziale di una tale servitù, come, in genere, di ogni diritto reale, all’esistenza di un concreto pregiudizio derivante dagli atti lesivi, attesa l’assolutezza propria di tali situazioni giuridiche soggettive, tutelate da ogni forma di compressione o ingerenza da parte di chiunque, col solo limite del divieto di atti emulativi (nella specie non configurabile) e salva la rilevanza dell’entità del pregiudizio al solo fine della quantificazione dell’eventuale risarcimento (nei sensi suddetti, sentenze 15/6/2001 n. 8151; 10/4/2000 n. 4499;
27/3/1990 n. 2468).
Il ricorso deve pertanto essere rigettato con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate nella misura indicata in dispositivo con attribuzione all’avvocato Franco Gualtieri che ha dichiarato di aver anticipato le spese e non riscossi gli onorari.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in complessivi Euro 200,00, oltre Euro 2.000,00 a titolo di onorari con attribuzione all’anticipatario avvocato Franco Gualtieri.
Così deciso in Roma, il 3 luglio 2009.
Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2009