L’estensione degli effetti di un giudicato a soggetti estranei alla lite, ma titolari di posizioni giuridiche del tutto analoghe alla fattispecie decisa, non costituisce per l’Amministrazione adempimento di uno specifico obbligo, atteso che l’art. 22, d.P.R. 1 febbraio 1986 n. 13 riconosce in materia ampia discrezionalità all’Autorità procedente. Secondo il principio stabilito dall’art. 2909 c.c., inoltre, anche il giudicato amministrativo fa stato esclusivamente tra le parti che hanno partecipato al relativo giudizio, per cui l’estensione del giudicato medesimo, che equivale a tutti gli effetti all’impegno di adempiere ad un’obbligazione naturale cui la legge non accorda azione alcuna (art. 2034, c.c.), ha carattere eminentemente discrezionale nell’an e nel quando (prima, ovviamente, del divieto all’uopo stabilito dall’art. 22 comma 34, l. 23 dicembre 1994 n. 724), per cui l’eventuale diritto di credito eventualmente scaturente da siffatta estensione non può nascere se non nello stesso momento in cui diventa efficace il provvedimento che la dispone, con conseguente insussistenza dell’obbligo, in capo alla P.A. emanante, del pagamento di interessi e rivalutazione monetaria, il cui debito, com’è noto, presuppone sì un’obbligazione, ma trova la sua causa immediata nel ritardo colpevole dell’adempimento.

Con l’atto introduttivo del giudizio i ricorrenti riferivano che il TAR, con sentenze n. 752-754-760 e 1069/1997, aveva disposto l’annullamento della circolare assessoriale 22 aprile 1991 n. 3361 affermando il principio per cui la previsione legislativa contenuta all’articolo 3, lettera c) della legge 18 dicembre 1973 n. 863 – che individua alcune categorie di dipendenti cui l’indennità di trasferta non spetta – è di stretta interpretazione e non può essere ampliata a mezzo di circolare dell’amministrazione. Riferivano altresì di essere rimasti estranei ai predetti giudizi e di non aver proposto ulteriori impugnazioni poiché le stesse sarebbero risultati inammissibili o improcedibili. Esponevano infine che l’amministrazione regionale, con nota 30 luglio 1998 n. 20.132, aveva disposto le modalità per il rimborso delle somme da corrispondere a titolo di indennità di missione per il periodo compreso tra il 22 aprile 1991 e il 31 dicembre 1997 senza tuttavia stabilire alcunché per i dipendenti rimasti estranei ai giudizi prima citati.
Tutto ciò premesso invocavano l’applicazione delle decisioni indicate perché, a loro giudizio, in ragione della peculiarità dell’atto impugnato non troverebbe applicazione il principio dell’efficacia inter partes del giudicato amministrativo; sempre secondo i ricorrenti, la pronuncia passata in giudicato produrrebbe effetti non solo nei confronti delle parti che sono state in giudizio, ma anche di coloro che, sebbene estranee al processo, si trovino nelle stesse condizioni stante anche l’impossibilità di ritenere l’atto annullato esistente per taluni e inesistente per gli altri.
Chiedevano quindi l’emissione di "tutti i provvedimenti idonei e necessaria affinché le sopra elencate sentenze possano trovare concreta attuazione, con il pagamento a favore degli odierni istanti delle somme agli stessi spettanti a titolo di indennità di missione a decorrere dal 22 aprile 1991 (data di emanazione della circolare n. 3361/1991) al 31.12.1997, maggiorate da rivalutazione di interessi legali sulle somme rivalutate a decorrere dalla scadenza dei singoli ratei all’effettivo soddisfo" (si vedano pagg. 8-9 ricorso introduttivo).
All’udienza pubblica del 21 luglio 2010 la causa passava in decisione.

DIRITTO
Il ricorso deve essere respinto.
Innanzitutto va ricordato che l’estensione degli effetti di un giudicato a soggetti estranei alla lite, ma titolari di posizioni giuridiche del tutto analoghe alla fattispecie decisa, non costituisce per l’Amministrazione adempimento di uno specifico obbligo, atteso che l’art. 22, D.P.R. 1 febbraio 1986 n. 13 riconosce in materia ampia discrezionalità all’Autorità procedente (Consiglio Stato, V, 17 settembre 2008, n. 4390; Sez. VI, 26-10-2006, n. 6410). Secondo il principio stabilito dall’art. 2909, c.c., inoltre, anche il giudicato amministrativo fa stato esclusivamente tra le parti che hanno partecipato al relativo giudizio, per cui l’estensione del giudicato medesimo, che equivale a tutti gli effetti all’impegno di adempiere ad un’obbligazione naturale cui la legge non accorda azione alcuna (art. 2034, c.c.), ha carattere eminentemente discrezionale nell’an e nel quando (prima, ovviamente, del divieto all’uopo stabilito dall’art. 22 comma 34, l. 23 dicembre 1994 n. 724), per cui l’eventuale diritto di credito eventualmente scaturente da siffatta estensione non può nascere se non nello stesso momento in cui diventa efficace il provvedimento che la dispone, con conseguente insussistenza dell’obbligo, in capo alla p.a. emanante, del pagamento di interessi e rivalutazione monetaria, il cui debito, com’è noto, presuppone sì un’obbligazione, ma trova la sua causa immediata nel ritardo colpevole dell’adempimento (Consiglio Stato , sez. V, 30 ottobre 1997 , n. 1224).
Ancora con riferimento all’estensione del giudicato nei rapporti di pubblico impiego il legislatore (con norma successivamente reiterata) all’art. 22, comma 34, l. 724/1994 ha stabilito che "per l’anno 1995 è fatto divieto a tutte le pubbliche amministrazioni di adottare provvedimenti per l’estensione di decisioni giurisdizionali aventi forza di giudicato o comunque divenute esecutive nella materia del pubblico impiego". Si tratta di disposizione per la quale non è ragionevole dubitare della costituzionalità, sotto il profilo della disparità di trattamento, in quanto la posizione giuridica di coloro che abbiano presentato un tempestivo ricorso si differenzia sotto il profilo soggettivo da quella degli altri dipendenti che rimanendo inattivi avevano prestato acquiescenza al provvedimento (Consiglio Stato , sez. V, 25 gennaio 2005 , n. 139; Consiglio Stato, sez. V, 2 aprile 2002, n. 1802).
A prescindere dalle considerazioni sino ad ora esposte, va ancora rilevato che nel caso di specie non appare concretamente dimostrato che quanto richiesto spetti effettivamente ai ricorrenti. La semplice affermazione – non documentata – di essere dipendenti della medesima amministrazione e di trovarsi in situazione analoga a quella di coloro che hanno instaurato ricorso innanzi al TAR non appare sufficiente a ritenerli legittimati; per altro verso non vi è la prova dell’effettiva spettanza degli emolumenti richiesti. A tale ultimo riguardo va rilevato che, trattandosi di diritti soggettivi, spetta alla parte ricorrente dimostrare tutti i fatti costitutivi del diritto invocato; nel caso di specie, oltre alla generica (e labiale) affermazione di essere dipendenti pubblici nella medesima situazione di coloro che hanno intentato un precedente ricorso giurisdizionale, non emergono i fatti dai quali potere desumere l’effettiva spettanza delle somme come concretamente richieste.
In conclusione il ricorso deve essere respinto; alla soccombenza segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese e degli onorari di giudizio nella misura complessiva di 2.000,00 (( duemila / 00 centesimi), oltre IVA e CP se dovuti.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia – Sezione staccata di Catania, sezione seconda, respinge il ricorso.
Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese e degli onorari di giudizio nei confronti dell’amministrazione resistente nella misura complessiva di 2.000,00 (( duemila / 00 centesimi), oltre IVA e CP se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Catania nella camera di consiglio del giorno 21 luglio 2010 con l’intervento dei Magistrati:
Filippo Giamportone, Presidente
Francesco Brugaletta, Consigliere
Vincenzo Neri, Primo Referendario, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 09 SET. 2010.