Svolgimento del processo
Con la sentenza del 25 settembre 1982, ora impugnata, la Corte di Appello di Catanzaro, riformando (all’esito del diffuso esame di questioni, che non rilevano in questa sede) la decisione del primo giudice, appellata da Caterina Trocino, nonché da Francesco Giuseppe ed Ermanno Cosentino, proprietari di alcuni suoli parzialmente occupati (ma non espropriati) dall’ANAS, per la costruzione della strada Cosenza-Crotone, ha determinato in L. 1.310 per metro quadrato il valore delle aree alla data presunta dell’occupazione e di inizio dei lavori.
Sulla base di tale valore – e ritenendo che esso non fosse successivamente aumentato, attesa “la qualità assai modesta dei terreni” – ha quindi liquidato i danni a favore degli appellanti per la perdita definitiva dei beni di rispettiva proprietà, con gli interessi legali (compensativi), a decorrere dal 1 luglio 1977 fino al pagamento.
Di queste statuizioni si dolgono la Trocino e i Cosentino, con unico ricorso articolato in tre motivi e illustrato da memoria.
l’Anas resiste (“per quanto di ragione”) con controricorso.
Motivi della decisione
Col primo motivo, denunciando violazione degli artt. 2043, 1224 e 1219 c.c., nonché insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, i ricorrenti deducono, in primo luogo, che la Corte di appello ha errato nell’escludere, in linea di principio, che la svalutazione monetaria possa incidere sul prezzo dei beni di modesta qualità.
Con riguardo al caso specifico, imputano poi, alla Corte di aver negato, senza adeguata motivazione, che il prezzo delle aree illecitamente occupato sarebbe potuto aumentare nel tempo.
IL motivo è in parte fondato, ma, per cogliere l’esatta portata della limitata fondatezza, è necessario preliminarmente sottolineare i passaggi essenziali della decisione impugnata.
Il giudice del merito, dopo aver determinato, sulla base di una pregressa consulenza tecnica di ufficio, in L. 1.310 mq. il valore unitario dei suoli, riferito alla presumibile data dal loro definitivo acquisto da parte dell’ente occupante, non ha ritenuto di poterlo rivalutare, dovendosi escludere, in ragione della qualità assai modesta dei terreni, che essi avrebbero avuto un prezzo maggiore al momento della decisione.
Questa sentenza argomentativa, nella parte in cui motiva il diniego di rivalutazione del valore originario con l’asserita staticità del prezzo degli immobili, sarebbe, se letteralmente interpretata, affetta da uno scoperto vizio logico (che ha influenzato il corrispondente tipo di censura), facilmente individuabile nella commissione di entità eterogenee, quali l’eventuale rivalutazione da un lato e l’ipotetico prezzo dall’altro; mentre è evidente che la prima si ricollega, per sua natura, al fenomeno delle oscillazioni del valore della moneta e il secondo, invece, all’andamento del mercato dei beni. Ne deriva che tra le due entità non esiste alcun necessario parallelismo (e possono al più, darsi interferenze occasionali, anche se statisticamente frequenti), ben potendo beni singoli apprezzarsi, come già rilevato da autorevole dottrina, più o meno di quanto non si deprezzi la moneta, e ben potendo, d’altra parte, il deprezzamento di quest’ultima indurre alla rivalutazione indipendentemente dall’apprezzamento del valore da risarcire.
Sotto questo secondo aspetto, avrebbe, quindi, errato la Corte catanzarese nell’escludere la rivalutazione del credito sol perché il prezzo dei terreni sarebbe rimasto invariato.
Il potere di acquisto dell’espressione monetaria che traduce la valutazione del danno, nel momento in cui si è verificato, rimarrebbe, infatti, alterato se il valore a tale momento riferito (“aestimatio”) non venisse poi ragguagliato al valore della moneta in atto alla data della liquidazione, alla data, cioé, della conversione del debito di valore in debito di danaro (“taxatio”).
La tecnica dei debiti c.d. di valore soddisfa proprio questa esigenza: neutralizzare gli effetti delle oscillazioni monetarie intervenute nell’arco di tempo che va dalla data di produzione del danno a quella della sua liquidazione, per impedire, mediante opportuni aggiornamenti del valore di stima già espresso in moneta, impoverimenti (o arricchimenti) del danneggiato.
Ma questa problematica, proposta dai ricorrenti sulla base di espressioni ambigue della sentenza impugnata, è estranea al caso di specie, perché la considerazione del giudice “a quo”, secondo cui il prezzo dei terreni sarebbe rimasto invariato, include virtualmente l’alternativa che, se fosse, invece, mutato, la determinazione e la liquidazione del danno, rapportate (ovviamente) entrambe al momento della decisione, sarebbero state ad esso commisurate. Il che espunge dalla vicenda la tematica dei debiti di valore e la connessa questione della rivalutazione, poiché la puntualizzazione nello stesso momento della valutazione e della liquidazione del danno da risarcire sopprime qualsiasi divaricazione temporale (presupposta, al contrario, dal debito di valore) tra i momenti di riferimento delle due operazioni e, nella sostanza unificandole, esprime solo la necessità di tradurre il valore liquidando in pezzi monetari che rispecchino l’ipotetico prezzo degli immobili alla data della sentenza.
Da questa linea di pensiero non v’é ragione di dissentire, pur se non sempre condivisa dalla giurisprudenza, più spesso incline ad iscrivere nella categoria dei debiti di valore anche le ipotesi (esemplarmente rappresentante proprio dalle occupazioni abusive di beni dei privati da parte della pubblica Amministrazione) di risarcimento per sottrazione illecita di cosa (diversa dal denaro) non più restituibile al proprietario, e così pervenendo, tra l’altro, attraverso la tecnica della rivalutazione del credito preventivamente determinato, alla liquidazione di valori teorici, cioé ragguagliati al deprezzamento della moneta, ma non sicuramente corrispondenti al prezzo effettivo dei beni; mentre già la semplice analogia con il risarcimento in forma specifica (art. 2058 c.c.) dovrebbe convincere che, laddove questo non sia possibile o non venga, comunque, accordato, l’equivalente pecuniario del bene perduto
– stante la sua funzione, sostitutiva della reintegrazione mancata – debba essere determinato (e liquidato) – facendo esclusivo riferimento allo stesso (unico) momento in cui essa sarebbe avvenuta e, quindi, nel caso di lite, alla data della decisione definitiva.
Ma, tutto ciò ammesso, appare davvero apodittico e, in principio, errato affermare che il mercato dei beni di “modesta qualità” sia tendenzialmente statico e che essi, quindi, non siano suscettibili di apprezzarsi nel tempo. Sul punto, la sentenza impugnata deve essere, pertanto, cassata. Fermo restando, dunque, l’incensurabile giudizio di fatto sulla (modesta) qualità dei beni di cui si discute, il giudice di rinvio dovrà accertare, servendosi di adeguati parametri rappresentativi e di ogni altro utile mezzo, quale sarebbe stato, al momento dell’emananda sentenza,il loro prezzo, se essi non fossero stati utilizzati per la costruzione dell’opera pubblica.
Il secondo motivo è assorbito, perché incentrato sulla tesi che il credito debba essere rivalutato, mentre l’esigenza della rivalutazione è ovviamente superata dalla necessità, sopra evidenziata, di riferire il prezzo delle aree alla data dell’emittenda decisione.
Col terzo motivo, si deduce violazione degli artt. 2043, 1224, 1219 e 1148 c.c., perché gli interessi “compensativi” riconosciuti dal giudice di merito costituirebbero, in realtà, secondo i ricorrenti, semplici modalità di calcolo del corrispettivo dovuto per il mancato godimento dei terreni e sarebbero, perciò, produttivi di (veri) interessi alla scadenza delle singole annualità di occupazione.
Il motivo non è fondato.
La Corte di appello ha presuntivamente accertato che l’esecuzione dell’opera pubblica è iniziata, nel giugno del 1977, coevamente all’occupazione (abusiva) dei suoli e che questi nella stessa data sono stati acquisiti dall’ANAS. La presunzione di codesta concomitanza non specificamente censurata esclude, quel che sia la sua attendibilità, la configurabilità, nel caso concreto, di occupazione temporanee, perché l’esecuzione dell’opera determina l’acquisto (a titolo originario) della proprietà del bene privato da parte dell’ente pubblico autore della costruzione, con la conseguenza che l’originario proprietario perde anche il diritto alla percezione dei frutti e non può, quindi, pretendere il corrispettivo (Cass., Sez. un. 1464-1983), contrariamente a quanto anche la resistente mostra di ritenere sulla supposizione giuridicamente errata (e, perciò, non vincolante) che la proprietà dei terreni occupati sia rimasta, invece, agli attori.
Solo limitatamente alla seconda parte del primo motivo la sentenza impugnata deve essere, di conseguenza cassata, con rinvio della causa per nuovo esame ad altro giudice, che si indica nella Corte d’appello di Messina, la quale provvederà anche sulle spese di questo stadio del giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie, per quanto di ragione il primo motivo, dichiara assorbito il secondo e rigetta il terzo; cassa la sentenza impugnata, e rinvia per nuovo esame alla Corte d’appello di Messina, che provvederà anche sulle spese di questa fase.
Così deciso in Roma il 18 novembre 1985.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 22 APRILE 1986