Svolgimento del processo

La ditta CELM (Costruzioni Edili Lago Maggiore) srl conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Verbania, con citazione notificata il 27 dicembre 1973, l’Immobiliare S. Giovanni srl, chiedendo che fosse condannata al pagamento in suo favore della somma di L. 15.105.490, dovuta per il saldo relativo al contratto d’appalto stipulato il 7 ottobre 1970, avente ad oggetto la costruzione, da parte di essa ditta CELM, dell’edificio condominiale denominato “La Quiete”, in Verbania Intra. La pretesa era giustificata dal costo dei maggiori lavori inerenti alle modifiche apportate dalla committente società Immobiliare S. Giovanni al progetto esecutivo nonché dal costo delle ulteriori opere di cui alle note in data 5 dicembre 1972, 9 dicembre 1072 e 8 gennaio 1973, comunicate alla Committente stessa.

L’attrice chiedeva inoltre la corresponsione degli interessi legali sulla somma indicata, dedotti gli importi pagati dalla soc.

Immobiliare S. Giovanni per lavori in ferro e per la pavimentazione in gomma delle scale.

La convenuta riconosceva che il prezzo di appalto era di L. 133.000.000 e che erano stati previsti lavori extra capitolato per L. 13.000.000, ma eccepiva che il compenso per questi ultimi era stato in seguito concordato nella somma di L. 9.500.000, regolarmente pagata. In ordine alle opere di cui alle note del 5 dicembre 1972, 9 dicembre 1982, e 8 gennaio 1973 riconosceva dovuto l’importo di L. 3.550.150, sul totale di L. 6.605.490. In definitiva assumeva un proprio residuo debito di L. 8.538.150. Deduceva peraltro di aver pagato, per conto dell’attrice, il costo di alcune opere comprese nel contratto di appalto, e cioé L. 456.529 per il rivestimento delle scale, L. 500.000 per la demolizione dei fabbricati esistenti sul terreno, e L. 3.334.825 per lavori in ferro. Denunciava che l’opera era affetta da vizi e difformità, quali infiltrazioni d’acqua, intonaci eseguiti “al rustico e non al civile”, ecc. e che essa era stata consegnata almeno con un anno di ritardo rispetto al termine pattuito, onde l’attrice era tenuta a corrispondere L. 10.000 al giorno a titolo di penale. Pertanto chiedeva la reiezione della domanda e, in via riconvenzionale, la condanna della ditta CELM al rimborso delle spese anticipate, al risarcimento dei danni per i vizi indicati ed al pagamento della penale; con rivalutazione monetaria, interessi e favore delle spese.

Con successiva citazione del 28 dicembre 1973 la stessa ditta CELM srl conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Verbania l’Immobiliare S. Giovanni srl chiedendo che fosse condannata al pagamento, in suo favore, della somma di L. 3.816.904, oltre agli interessi, per i lavori eseguiti nel complesso immobiliare “La quiete”, menzionati nelle fatture in data 24 settembre e 9 novembre 1973.

La convenuta riconosceva di dovere L. 319.368 e contestava la residua pretesa di cui alla fattura 9 novembre 1973, assumendo che riguardava lavori extracapitolato, forfettariamente compresi nella somma di L. 13.000.000, menzionata nella prima causa. Deduceva che comunque i lavori in questione, riguardanti autorimesse, non superavano l’importo di L. 1.800.000 ed eccepiva, per essi, vizi e difetti (infiltrazioni d’acqua), denunciati con raccomandata del 24 dicembre 1973. Chiedeva il risarcimento dei danni dipendenti da tali vizi.

Riunite le cause ed esperita l’opportuna attività istruttoria (acquisizioni documentali, prove testimoniali e consulenza tecnica) il Tribunale adito, con sentenza in data 27 marzo – 24 aprile 1980, in accoglimento delle domande attrici condannava la convenuta al pagamento di L. 13.366.804, oltre agli interessi legali dal 31 dicembre 1973 nonché, a titolo di rivalutazione, della somma annua pari al 7% del predetto importo. Respingeva le domande riconvenzionali e condannava la convenuta alle spese giudiziali; escluse quelle di consulenza tecnica, che compensava.

A seguito di impugnazione dell’Immobiliare S. Giovanni srl la Corte d’appello di Torino, con sentenza in data 26 novembre 1982 – 24 gennaio 1983, accoglieva parzialmente il gravame, in relazione all’omessa rivalutazione della somma di L. 2.644.230 dovuta dall’appaltatrice alla committente. In conseguenza, calcolato il deprezzamento monetario, determinava il credito complessivo della ditta CELM, eseguita la compensazione parziale degli opposti crediti, in L. 31.292.438. Compensava le spese giudiziali di entrambi i gradi in misura di un terzo, ponendole per il resto a carico della srl Immobiliare S. Giovanni. La Corte osservava, in ordine alla controversa riduzione a l. 9.500.000 dell’importo dei lavori extracapitolato inizialmente fissati in L. 13.000.000, che in effetti sulle fotocopie della nota 7 marzo 1972, intitolata “computo estimativo delle maggiori opere eseguite a tutto il 29 febbraio 1972 nel costruendo condominio “La Quiete”, v’era la dicitura “concordato in L. 9.500.000”; ma, a parte il dubbio valore probatorio dei documenti non sottoscritti da entrambe le parti, dopo il 7 marzo, elencati nei documenti B e C del fascicolo dell’appaltatrice, per il pattuito importo di L. 3.500.000; circostanza, questa, emersa dalla deposizione del teste Camida ed ammessa tacitamente dal legale rappresentante della soc. Immobiliare S. Giovanni, il quale non aveva risposto al formale interrogatorio. Riteneva inoltre infondata la contestazione dell’importo della fattura in data 9 dicembre 1972, perché attinente a materiale ed a opere non a carico dell’appaltatrice. Rilevava che non era stata fornita la prova della tempestiva documentazione degli assunti vizi ed attribuiva il ritardo della consegna delle opere appaltate alle modifiche richieste nel corso dei lavori; osservava che tale circostanza trovava conferma nella mancata contestazione del ritardo, addotto solo nel corso del giudizio. Stabilito quindi che il credito della CELM fosse, come affermato dal Tribunale di L. 12.505.490, asseriva che esso andava rivalutato, attesa l’attività imprenditoriale svolta dalla creditrice, ma modificava il criterio all’uopo adottato dai primi giudici, applicando invece gli indici ISTAT. In relazione alla seconda causa la Corte, dopo aver ribadito che i lavori attinenti alle autorimesse ammontavano a L. 3.505.544, rilevando tra l’altro che la soc. Immobiliare S. Giovanni non aveva contestato le conclusioni in tal senso della consulenza tecnica, affermava che il Tribunale avrebbe dovuto procedere alla rivalutazione della somma di L. 2.644.230, liquidata a titolo di danni in favore della committente per vizi e difformità dell’opera appaltata. Pertanto, in base agli indici ISTAT, aumentava tale somma a L. 4.727.380. Quindi operata la compensazione tra gli opposti crediti relativi alla seconda causa (L. 3.505.544 per la soc. CELM e L. 4.727.380 in favore della soc. Immobiliare S. Giovanni) la corte accertava il credito dell’appellante in L. 1.221.836. Infine riteneva che il giudice di primo grado, attesa la reciproca soccombenza delle parti, avrebbe dovuto compensare le spese del giudizio e decideva in tal senso, anche per quelle d’appello.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso la soc. Immobiliare S. Giovanni svolgendo quattro motivi di cassazione. La ditta CELM resiste con controricorso.

Motivi della decisione

La ricorrente denuncia, con il primo mezzo, la violazione degli artt. 2702 ult. parte, 2719 e 1977 C.C. nonché degli artt. 232 e 115 c.p.c. oltre la contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.). Lamenta che la Corte d’appello abbia respinto la tesi della concordata riduzione a L. 9.500.000 del compenso per i lavori eseguiti a richiesta della committente ed in modifica del progetto, inizialmente dell’importo di L. 13.000.000, ritenendo di dubbio valore probatorio la relativa convenzione (annotata sulla nota in data 7 marzo 1972) ed osservando inoltre che essa non era stata neppure sottoscritta dalle parti; senza considerare che il documento anzidetto era stato prodotto dalla stessa attrice, la quale in tal modo ne aveva fatto proprio il contenuto, e che la medesima ditta CELM, nel formulare i capitoli dell’interrogatorio formale deferito ad essa soc. Immobiliare S. Giovanni, aveva esplicitamente dichiarato la circostanza in questione. Quanto poi all’argomento che la mancata comparizione del legale rappresentante della convenuta in sede di interrogatorio avesse il valore processuale di tacita ammissione del fatto controverso (ulteriore debito di L. 13.000.000 anziché di L. 9.500.000, la Corte del merito nel farlo proprio, avrebbe violato sostanzialmente il disposto dell’art. 232 c.p.c. perché nessun altro elemento probatorio conforterebbe l’assunto dell’attrice, ossia che in epoca successiva alla redazione della controversa nota del 7 marzo 1972 sarebbero stati eseguiti ulteriori lavori extra capitolato dell’importo di L. 3.500.000. Onde, in concreto, il giudice di appello avrebbe erroneamente desunta la ficta confessio esclusivamente dalla mancata comparizione dell’interpellando all’udienza all’uopo stabilita.

La complessa censura è infondata.

La corte del merito ha ritenuto che i lavori extracapitolato, richiesti dalla committente nel corso dell’esecuzione dell’appalto, fossero dell’importo di L. 13.000.000, come sostenuto dall’attrice, e non di L. 9.500.000, come assunto dalla convenuta, alla stregua di una doppia argomentazione:

a) innanzi tutto la dimostrazione della concordata riduzione dell’iniziale importo di L. 13.000.000, sarebbe affidata ad un documento di dubbio valore probatorio, trattandosi dell’annotazione, priva di firma, redatta su una nota prodotta altresì, in fotocopia;

b) in ogni caso sarebbe stato provato che in epoca successiva alla redazione di tale nota e della relativa convenzione, l’appaltatrice ditta CELM, ha eseguito ulteriori lavori extracapitolato dell’importo di L. 3.500.000.

E’ evidente come, tra le due ragioni addotte a sostegno della controversa decisione, la seconda abbia un rilievo preminente e fondamentale: infatti l’eventuale inadeguatezza della prima non inficierebbe irrimediabilmente la fondatezza della pretesa di pagamento della contestata somma di L. 3.500.000, rimanendo comunque valida la seconda perché, se pure fosse accertata la pattuizione attinente alla riduzione del compenso spettante alla appaltatrice nel senso addotto dall’odierna ricorrente, i lavori svolti successivamente giustificherebbero comunque la domanda volta a conseguire, al titolo in esame, la somma complessiva di L. 13.000.000.

Ciò posto, va rilevato che il giudice del merito ha ritenuto che, in epoca posteriore al 7 marzo 1972 l’appaltatrice abbia eseguito, a richiesta della committente, i lavori extracapitolato elencati nei documenti B e C della stessa prodotti, per l’importo di L. 3.500.000, alla stregua delle deposizioni dei testi Minei, Ghizzardi, Pizzighello e Caminada; inoltre, in base a tali acquisizioni probatorie, ha ritenuto la circostanza ammessa dalla committente, dato che il suo legale rappresentante non è comparso a rendere il relativo interrogatorio formale. Orbene sul punto deve essere ribadito che ove il destinatario dell’interpello non si presenti all’udienza fissata per l’assunzione del mezzo di prova, ovvero rifiuti di rispondere senza giustificato motivo, il giudice, ogni altro elemento di prova, può ritenere ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio. Pertanto, allorché si verifichi la contemplata ipotesi, il giudice è tenuto ad un duplice esame: 1°) deve valutare se la mancata comparizione o il rifiuto di rispondere dipendano da un motivo valido e provato; 2°) in caso negativo, deve valutare la verosimiglianza dei fatti oggetto del mancato interrogatorio, in relazione agli altri elementi probatori acquisiti.

L’indispensabile doppia indagine menzionata, è eseguita dal giudice del merito mediante l’esercizio di un potere discrezionale che, concretandosi in altrettanti giudizi di fatto, è incensurabile in sede di legittimità se sorretto da congrua motivazione.

Nel caso di specie, mentre il difetto di giustificazione per la mancata comparizione del rappresentante legale della soc. Immobiliare S. Giovanni a rendere l’interrogatorio è incontroverso, il giudice del merito si è fatto carico di valutare la circostanza oggetto del mezzo di prova in rapporto alle deposizioni dei quattro menzionati testimoni, e alla stregua di queste, legittimamente ha ritenuto di attribuire alla mancata risposta all’interrogatorio il valore di ammissione dei fatti relativi. Con la conseguenza che, accertati gli ulteriori lavori extracapitolato, da parte dell’appaltatrice, per L. 3.500.000 (quindi per L. 13.000.000 complessivamente), resta superata ed assorbita l’altra questione circa l’efficacia probatoria del documento, compilato in epoca anteriore, da cui risulterebbe la concordata riduzione a L. 9.500.000 del compenso dovuto dalla committente per le opere già realizzate. Invero, allorché il giudice del merito sostiene la propria decisione con una duplice motivazione, una volta accertata l’autonoma validità di una di esse, da sola idonea a giustificare la pronuncia, l’eventuale erroneità della altra diventa irrilevante, e quindi, superflua la attività diretta a valutarla.

Con il secondo mezzo la soc. Immobiliare S. Giovanni denuncia la violazione degli artt. 1167, 1382, 2697, 1219 e 2702 C.C.; 115 c.p.c., e l’omessa od insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360, nn 3 e 5 c.p.c.)), lamentando la reiezione della domanda di risarcimento dei danni derivanti dalla tardiva consegna dell’opera di appaltata. Deduce che a norma dell’art. 9 del contratto d’appalto detta consegna sarebbe dovuta avvenire entro duecentocinquanta giorni lavorativi dall’inizio dei lavori, con una penalità di L. 10.000 al giorno in caso di ritardo.

La corte del merito, disattendendo la pretesa in base al rilievo che non fosse stata fornita la prova circa l’epoca della consegna, avrebbe sostanzialmente invertito il relativo onere, incombendo sull’appaltatore la dimostrazione che l’opera sia stata posta a disposizione del committente nei termini negoziali. Comunque sarebbe acquisito agli atti un documento, proveniente dall’appaltatrice medesima, da cui risulterebbe che la consegna in questione è avvenuta il 21 dicembre 1972.

Neppure tale doglianza può essere condivisa. E’ pacifico, come emerge dall’esame del primo motivo di impugnazione, che nel corso dei lavori appaltati la committente ha richiesto modifiche ed ampliamenti del progetto preso in considerazione all’epoca dell’instaurazione del rapporto. Siffatte variazioni sono state giudicate dal giudice del merito “imponenti”, con apprezzamenti insindacabili in questa sede. Ne segue il rilievo che ove, in un contratto di appalto, vengano pattuiti un termine di consegna ed una penale a carico dell’appaltatore per il ritardo, tali convenzioni devono intendersi superate se, nel corso dell’esecuzione delle opere, il committente abbia richiesto ed ottenuto importanti e notevoli variazioni dell’iniziale progetto. In detta ipotesi, verificandosi lo sconvolgimento del piano dei lavori cui è ancorato il termine stabilito (e la connessa penale), perché questa conservi efficacia deve essere fissato di comune accordo un nuovo termine. In mancanza secondo i principi generali sull’onere della prova, incombe al committente, il quale persegue il risarcimento dei danni da ritardava consegna dell’opera, l’onere di fornire la dimostrazione del colpevole ritardo addebitabile all’appaltatore.

Nella specie il giudice d’appello, lungi dall’accertare il concorso degli indicati elementi, ha posto per contro in rilievo che mai nessuna contestazione la soc. Immobiliare S. Giovanni aveva mosso, in epoca anteriore al presente giudizio (promosso dalla ditta CELM) in relazione all’epoca della consegna dell’opera. E da tale circostanza ha logicamente e correttamente dedotto che la stessa committente, dato lo sconvolgimento provocato nel piano dei lavori con le importanti opere aggiuntive richieste nel corso di questi, abbia ritenuto superati i termini inizialmente stabiliti e la connessa pattuizione di penale; armonizzando così nella sostanza la propria condotta con i principi giuridici enunciati.

Mediante il terzo mezzo la soc. Immobiliare S. Giovanni assume la violazione degli artt. 1224 C.C., e 333 e 324 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 3 stesso codice, svolgendo la doglianza in due distinti motivi:

a) la Corte d’appello non avrebbe dovuto ritenere adeguabile il credito della soc. CELM al mutato valore monetario perché, avendo esso fonte nel pattuito prezzo d’appalto, ha natura pecuniaria, onde il debitore avrebbe dovuto corrispondere, oltre alla somma inizialmente dovuta, soltanto i relativi interessi legali;

b) comunque, poiché detta rivalutazione era stata concessa dal primo giudice, nonostante l’opposizione di essa convenuta, nella misura del 7% all’anno sulla somma liquidata, il giudice d’appello, in mancanza di specifica impugnazione sul punto della creditrice interessata, non avrebbe potuto modificare detto criterio (maggiorazione del 160% in base agli indici ISTAT) e liquidare in concreto, anche per il periodo anteriore alla pronuncia di primo grado, una somma maggiore.

La prima parte della doglianza è priva di fondamento. Costituisce ormai principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte Suprema che, allorché il titolare di un credito di valuta invochi, a sensi dell’art. 1224, 2° comma, C.C., l’ulteriore risarcimento per essere derivato dalla mora del debitore un pregiudizio non emendabile mediante la semplice corresponsione dei relativi interessi legali, è tenuto ad allegare e provare siffatti ulteriori danni. Nella valutazione di detti elementi, peraltro, il giudice deve tener conto di ogni utile circostanza, anche presuntiva ovvero di generale conoscenza, idonea a confortare la sussistenza di tale maggior danno; in particolare, in riferimento al fatto notorio del progressivo deprezzamento monetario verificatosi negli ultimi decenni, può tener conto di ogni elemento che induca a supporre che la somma dovuta, se tempestivamente corrisposta al creditore, sarebbe stata sottratta mediante opportuno impiego, al deprezzamento sopravvenuto; e, tra detti elementi, ben può essere valutata l’attività svolta dal creditore, per inferirne presuntivamente siffatto impiego.

La corte torinese ha ritenuto che, data l’attività imprenditoriale professionalmente svolta dalla ditta CELM, il tempestivo adempimento del debito gravante sull’odierna ricorrente le avrebbe consentito il tempestivo uso della relativa somma nell’attività anzidetta, il cui esercizio è soggetto all’impiego di ingenti capitali; con la conseguente sua sottrazione ai pregiudizievoli effetti della svalutazione monetaria. Mentre detto apprezzamento, adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità, la ragione che ne costituisce l’oggetto è coerente con l’enunciato principio di diritto e, pertanto, si sottrae alla formulata censura.

Il secondo aspetto della doglianza è invece fondato. Poiché l’ulteriore danno di cui al citato art. 1224, 2° comma, C.C. era stato liquidato dal tribunale di Verbania nella misura del 7% annuo sulla somma capitale dovuta, in difetto d’impugnazione della parte creditrice interessata la corte d’appello di Torino non avrebbe potuto valutare inadeguato tale criterio, modificarlo di sua iniziativa adottando gli indici ISTAT e, in sostanza attribuire alla soc. Immobiliare S. Giovanni una non richiesta maggior somma. Invero, non essendo stato proposto appello contro il delineato aspetto della pronuncia di primo grado, su di esso si è formato il giudicato interno, violato dal giudice di secondo grado con una illegittima decisione, la quale va pertanto cassata entro i limiti suesposti; con rinvio ad altra sezione della stessa corte di appello.

Il quarto motivo d’impugnazione, attinente alla ripartizione dell’onere delle spese giudiziali, resta assorbito posto che l’accoglimento, sia pure parziale, del ricorso comporta il riesame, nella sede opportuna, della statuizione sulle spese stesse, la quale, come è noto, va adottata alla stregua dell’esito complessivo della lite.

P.Q.M.

La Corte accoglie, per quanto di ragione, il terzo motivo del ricorso proposto dalla Immobiliare S. Giovanni srl, avverso la sentenza della Corte di appello di Torino in data 26 novembre 1982 – 24 gennaio 1983; rigetta i primi due motivi e dichiara assorbito il quarto; cassa, in relazione al motivo accolto, la sentenza predetta e rinvia, anche per la statuizione sulle spese del presente giudizio di legittimità, ad altra sezione della stessa corte d’appello di Torino. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte Suprema di Cassazione, II sez. civ. il 24.9.1985. DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 7 APRILE 1986