Svolgimento del processo

Il Tribunale di Firenze, con sentenza in data 1-6-88, confermava la decisione adottata da quel pretore nella controversia vertente tra Franzina Ciardelli ed il Ministero dell’Interno, sui rilievi seguenti: 1) che l’attrice, quale cieca civile, aveva diritto a percepire la pensione non reversibile di cui all’art. 7 della legge 10-2-62 n. 66; 2) che, secondo quanto disposto dall’art. 6 del D.L. 2-3-74 n. 30, convertito nella legge 14-4-74, n. 114, la pensione suddetta compete nel caso che gli aventi diritto risultino possessori di cespiti assoggettabili all’imposta sul reddito delle persone fisiche al di sotto di un limite determinato; 3) che la pensione sociale corrisposta dall’I.N.P.S. all’attrice, avendo natura di emolumento erogato a titolo meramente assistenziale, non poteva essere considerata un reddito da calcolare ai fini dell’esclusione della corresponsione della pensione invocata, secondo quanto disposto dall’art. 34 del D.P.R. 29-9-73, n. 601, concernente la disciplina delle agevolazioni tributarie; 4) che tale disposizione è stata confermata dall’art. 14 septies del D.L. 30-12-79 n. 633, convertito con modificazioni nella legge 29-2-80 n. 33, il quale stabilisce fra l’altro che il limite di reddito per la corresponsione ai ciechi civili della pensione non reversibile di cui alla citata legge 14-4-74 n. 114 è elevato a L. 5.200.000 annue, calcolato agli effetti dell’I.R.P.E.F.; 5) che la norma di cui allo art. 3 del D.L. 29-8-84 n. 528, concernente misure urgenti in materia sanitaria, convertito con modificazioni nella legge 31-10-84 n. 733 (che stabilisce che chiunque intenda fruire di deduzioni o di detrazioni di assegni od indennità, subordinata al possesso di determinati ammontari di reddito complessivo, od i reddito assoggettabile ad imposta, o di reddito imponibile, deve tener conto, ai fini dei predetti ammontari, anche dei redditi esenti) non si applica, secondo l’esplicita previsione del secondo comma della norma suddetta, alle pensioni, alle indennità ed agli assegni erogati dal Ministero dell’Interno ai ciechi civili; 6) che gli interessi decorrenti sulla pensione suddetta dovevano esser calcolati a decorrere dal primo giorno del mese successivo a quello della presentazione della domanda, secondo quanto disposto dall’art. 17 della legge 27-5-70 n. 382, concernente disposizioni in materia di assistenza ai ciechi civili, con riguardo alla concessione della pensione de quo, e di cui gli interessi compensativi costituiscono i frutti civili.

Da qui il ricorso del Ministero convenuto ed il controricorso dell’attrice.

Motivi della decisione

Il Ministero ricorrente, col primo motivo di cassazione proposto, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 6 della legge 14-4-74 n. 114, dell’art. 14 septies, 4° comma, del D.L. 30-12-79 n. 663, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., ha sostenuto che il tribunale aveva errato nell’aver deciso nel modo suddetto, dal momento che, al contrario, avrebbe dovuto ritenere che la locuzione “calcolati agli effetti dell’IRPEF”, con riguardo allo ammontare dei redditi da non computare al fine della determinazione di quelli fruiti dall’attrice per la concessione della pensione non reversibile, quale cieca civile, era “indicativa di un metodo in base al quale deve esser determinato l’ammontare dei redditi posseduti dall’aventi diritto e non come esclusione dal computo dei redditi di quelli non assoggettati all’IRPEF”.

La censura è infondata.

Secondo quanto disposto dall’art. 12, 1° comma, delle disposizioni sulla legge in generale la prima interpretazione da dare alle leggi è quella letterale, e là dove essa è chiara ed inequivocabile non è necessario dar luogo alla ricerca dell’intenzione del legislatore, senza dire, poi, che i lavori preparatori della legge di conversione del decreto 30-12-79 n. 663 già citato, nel corso dei quali fu introdotto l’art. 14 septies cui si riferisce il Ministero ricorrente, non esprimono affatto una volontà diversa, o più articolata, rispetto alla locuzione letterale della norma.

Non v’é dubbio, pertanto, che stabilire l’ammontare dei redditi oltre il quale non puòesser concessa ai ciechi civili la pensione reversibile, adottando come parametro quello stabilito agli effetti dell’IRPEF, significa proprio escludere dal computo quei cespiti dichiarati esenti al fine tributario suddetto, come, per l’appunto, la pensione sociale, che ha natura di prestazione meramente assistenziale e, come tale, rimane compresa nella dizione ampia di “sussidi corrisposti dallo Stato e da altri enti pubblici a titolo assistenziale” di cui all’art. 34, 3° comma, del D.P.R. 29-9-73 n. 601, concernente la disciplina delle agevolazioni tributarie.

Deve premettersi, al riguardo, che l’art. 26 della legge 30-4-69 n. 153, che ha introdotto la pensione sociale nel quadro più ampio della revisione degli ordinamenti pensionistici e del perfezionamento delle norme in materia di sicurezza sociale, è stato novellato oggi dall’art. 3 del D.L. 2-3-74 n. 30, convertito, con modificazioni, nella legge 16-4-74 n. 114.

Tale ultima disposizione, però, ha modificato soltanto le norme procedurali per l’acquisizione del beneficio e la determinazione dell’ammontare di esso, onde i requisiti essenziali del nuovo istituto sono rimasti immutati.

L’art. 25 suddetto dispone che la pensione sociale compete ai cittadini ultrasessantacinquenni che fruiscono di un reddito irrisorio assoggettabile all’IRPEF con esclusione di coloro che godono già di forme di assistenza o di previdenza sociale in esse comprese le pensioni di guerra.

Tale norma, interpretata secondo il suo senso letterale, non lascia adito a dubbio alcuno circa la legittimazione a ricevere la nuova pensione da parte di quei cittadini inabili al lavoro, ratione aetatis, da un lato, e privi di qualsiasi sostentamento, dall’altro.

Da tali condiciones iuris consegue che il nuovo beneficio non ha sostanzialmente il carattere e la natura della “pensione”, dal momento che tale espressione, nella sua accezione tecnico-giuridica, presuppone una relazione sinallagmatica tra attività lavorativa svolta (o, comunque, una prestazione eseguita, come, per l’appunto, il sacrificio della propria incolumità in tempo di guerra) e la provvidenza economica elargita.

Nel caso in esame, invece, si è in presenza di un’erogazione di somme a titolo prettamente assistenziale in funzione alimentare, in adempimento del precetto di cui all’art. 38, 1° comma, Cost., che dispone, “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale”.

Non v’é dubbio, pertanto, che ci si trova in presenza di una forma di assistenza pubblica di cui il legislatore ha voluto sancire l’esclusione dal computo reddituale per il conseguimento della pensione da erogarsi in favore dei ciechi civili.

Di tale interpretazione, infine, ne dà certezza anche l’intenzione del legislatore, desunta dai lavori preparatori della legge 30-4-69 n. 153, che è fonte comprimaria d’esegesi normativa, ex art. 12, 1° comma, delle preleggi.

La legge suddetta prese l’avvio alla Camera dei Deputati col disegno di legge n. 1064, presentato dal Governo nella seduta dal 19-2-69, che, fra i suoi molti obbiettivi, aveva quello di “istituire una pensione sociale per i cittadini ultrasessantacinquenni sprovvisti di reddito”, individuati, poi, nella formulazione dell’art. 14, tra quelli “che non siano titolari di redditi derivanti dall’iscrizione nei ruoli della ricchezza mobile e che non appartengano a nuclei familiari iscritti nei ruoli dell’imposta complementare sui redditi, che non abbiano titolo a rendite od a prestazioni economiche previdenziali od assistenziali, ivi comprese le pensioni di guerra, erogate, con carattere di continuità, dallo Stato, da altri enti pubblici o privati, o da Paesi esteri, e che, comunque, non siano titolari di redditi a qualsiasi titolo”.

Tale norma, veniva così illustrata “l’art. 14 istituisce la pensione sociale e ne prevede la concessione ai cittadini che abbiano compiuto 65 anni di età e siano sprovvisti di mezzi di sussistenza.

“Questo nuovo tipo di pensione introduce per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano, ed in quello pensionistico in particolare, un principio di sicurezza sociale che certamente costituirà la base per una più ampia e progressiva realizzazione del principio stesso”.

La Commissione parlamentare, poi, che, a causa della presentazione di altre proposte di legge consimili, elaborò il testo per la discussione in aula del provvedimento (Camera dei Deputati – 5° legislatura, disegni di legge e relazioni – documento n. 1064, 2, 96, 114, 141, 209, 215, 217, 365, 432-A) migliorò in parte le condizioni per l’erogazione della pensione e ne precisò la ratio nei termini seguenti: “le disposizioni che il disegno di legge governativo propone si possono così sintetizzare …. ” ) istituzione di uno speciale assegno d’importo pari alla pensione sociale avente caratteristiche analoghe a quella della pensione, ma completamente indipendente da basi assicurative e contributive, per i cittadini italiani che abbiano compiuto 65 anni di età, e siano sprovvisti di mezzi di sussistenza”, onde risulta per tabulas che si introduceva una nuova sorta di prestazione assistenziale per fini di sicurezza sociale inscrivibile nell’ambito di cui all’art. 38, 1° comma, Cost.

Tale indirizzo legislativo, poi, fu confermato dal relatore nella seduta in aula del 26-3-69, ove pose in chiaro il carattere assistenziale della provvidenza: “se volgiamo la nostra attenzione alla nuova disciplina che il Parlamento è chiamato ad approvare, vediamo in essa l’attuazione di quei principi che hanno trovato molti ed autorevoli assertori tra i cultori della materia: l’istituzione della pensione sociale per i cittadini meno abbienti e di età avanzata come tipo di prestazione volta nella sua uniformità a rendere prestazioni completamente autonome dalle contribuzioni, superando così la concezione tradizionale della previdenza; d’altra parte, si viene a stabilire definitivamente il diritto a tale prestazione superando l’altro concetto tradizionale della discrezionalità degli interventi nell’assistenza pubblica”.

In sede di approvazione della norma, poi, fu presentato un emendamento (14.5) che tendeva a rendere concorrenziale la pensione sociale con altre forme di assistenza pubblica erogate dallo Stato o dagli enti locali ampliandola “ai cittadini italiani … che abbiano compiuto l’età di sessant’anni se uomini e di cinquantacinque se donne che non siano titolari di redditi a qualsiasi titolo superiore a L. 230.000”. Si voleva consentire, in tal modo, la percezione della pensione sociale anche a coloro che fruivano già, od avrebbero potuto ottenere, erogazioni assistenziali dagli enti locali o dalle istituzioni pubbliche di assistenza e di beneficienza.

Tale proposta, però fu respinta sul parere contrario della commissione e del Governo, sul rilievo che: “proprio intendendo un sistema di sicurezza sociale pieno, là dove si riscontra la componente del settore assistenziale, è opportuno, proprio in quella prospettiva, mantenere la formula dell’integrazione anziché quella della concorrenza dei due trattamenti distinti”, onde si coglie ancora con chiarezza ancor maggiore il carattere di omogeneità tra la pensione sociale istituenda e le altre forme tradizionali di assistenza pubblica, nonché la necessità conseguente di armonizzare la percettibilità delle diverse erogazioni tenendo conto della compatibilità economica della spesa rispetto alla capacità del bilancio statale.

In occasione, infine, della dichiarazione di voto per l’approvazione della norma, fu rilevato che: “lo Stato, coi lavoratori assicurati, non fa niente di più che adempiere ad un preciso obbligo di controprestazione, mentre per quanto riguarda l’assistenza ai cittadini inabili al lavoro, l’obbligo dello Stato discende egualmente da una norma costituzionale, la quale, però, non configura quest’ultimo come una controprestazione, poiché vuole garantire il minimo vitale a tutti i cittadini che siano in condizione di assoluta indigenza”, e da qui si trae ancora una conferma ulteriore circa il carattere di erogazione assistenziale della pensione sociale.

Anche il Senato, infine, non modificò affatto la ratio della norma, ma vi apportò soltanto dei miglioramenti sotto l’aspetto tecnico, onde deve concludersi affermando che la tesi sostenuta dal Ministero ricorrente non trova alcun riscontro né nella lettera né nello spirito della legge, ed è priva, peraltro, sotto l’aspetto interpretativo, del carattere intrinseco di queste ultime, che è quello di comandare in concreto e non già di indicare in generale parametri indeterminati o criteri di calcolo, o di computo, concernenti benefici o provvidenze elargite, come, per l’appunto l’erogazione della pensione sociale alla resistente, in ciò conformemente alla nostra tradizione giuridica, che è fonte comprimaria anche essa d’esegesi legislativa ex art. 12, 2° comma, delle preleggi, secondo la quale: “la forza della legge consiste nel comandare, proibire, permettere e punire” (Modestino D.I., 3, 7).

Per quanto concerne, poi, l’accenno fatto dal Ministero ai criteri di calcolo delle pensioni sociali, sempre con riguardo alle cause escludenti la fruizione di tale provvidenza, deve rilevarsi che l’art. 26 della legge 30-4-69, n. 153, è norma di carattere eccezionale e che, come tale, non è suscettibile d’interpretazione analogica.

Tale motivo del ricorso, pertanto, è infondato e dev’essere rigettato.

Il Ministero ricorrente, infine, col secondo motivo di cassazione proposto, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1219 e 1224 c.c., nonché dell’art. 429, 3° comma, c.p.c., oltre che omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 429, 3° comma, cpc, ha sostenuto che il Tribunale aveva errato nell’aver riconosciuto all’attrice il diritto al pagamento degli interessi corrispettivi, dal momento che essa, sin dal primo grado del giudizio, si era limitata soltanto a chiedere “gli interessi legali”, onde tale capo di domanda avrebbe dovuto essere interpretato come la richiesta di pagamento degli interessi moratori, decorrenti, quindi, dalla data di notificazione del ricorso introduttivo del giudizio.

La doglianza è infondata.

La richiesta di pagamento degli interessi nella misura legale, non seguita da alcuna qualificazione particolare, dev’essere intesa come una semplice istanza di pagamento dei frutti civili sulla somma dovuta, a norma del combinato disposto degli artt. 820, 3° comma e 1282 c.c..

La prima norma dispone: “Sono frutti civili quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia”

“Tali sono gl’interessi dei capitali, i canoni enfiteutici, le rendite vitalizie ed ogni altra rendita, il corrispettivo delle locazioni”. L’illustrazione che di essa fu fatta nella relazione della Commissione reale (libro della proprietà, n. 8) non lascia adito a dubbio alcuno circa la natura primaria degli interessi, quali espressione stessa della capacità del denaro di riprodursi e di fruttificare al pari di ogni altra res suscettibile di tale proprietà: “la nozione dei frutti completa questo breve capo delle cose: invero il frutto è il provento economico della cosa del cui valore, perciò, costituisce un elemento integrante; in ciò risiede il rapporto di subordinazione tra la cosa madre ed i frutti.

“Anche per la nozione di frutti sono i criteri economici e gli usi sociali quelli che fan considerare una cosa prodotto di un’altra, e si mantiene, inoltre, sulla traccia di una dottrina secolare la distinzione dei frutti in due categorie, frutti naturali e frutti civili e l’accessione tradizionale di essi.

“Nel definire i frutti civili, sostituendo la formula del vecchio codice (art. 444, 3° comma), che definiva tali quelli che si ottengono per occasione della cosa, ho posto in luce il rapporto giuridico di cui la cosa è oggetto, come quello attraverso il quale la cosa diviene fonte di reddito”.

Gl’interessi corrispettivi, a loro volta, rappresentano il controvalore economico del vantaggio che il debitore trae dal ritenere presso di sé la somma che avrebbe dovuto versare al creditore, come nel caso in esame, onde gl’interessi sono dovuti indipendentemente dalla mora in base al principio generale che l’utilizzazione del capitale o di una cosa fruttifera obbliga l’utente (e da qui l’espressione originaria di usurae da usus) al pagamento di una cosa dello stesso genere, proporzionata, cioé corrispettiva, al godimento ricavato (in tal senso, sent. n. 2291-65, 1727-58, 1167-60 e 2506-61).

Tale disciplina legislativa ha rappresentato un’innovazione profonda del codice civile vigente rispetto a quella dettata dagli artt. 1231 e 1233 c.c. del 1865, ispirato alle dottrine economiche del tempo e, più ancora, all’avversione che il diritto romano, prima, e quello canonico, poi, ebbero per l’istituto degli interessi e, in particolare, per il principio stesso della capacità intrinseca del denaro di riprodursi e di fruttificare.

L’art. 1231 stabiliva: “In mancanza di patto speciale, nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di denaro, i danni derivanti dal ritardo nell’eseguirle consistono sempre nel pagamento degli interessi legali, salve le regole particolari al commercio, alla fideiussione ed alla società.

“Questi sono dovuti dal giorno della mora, senza che il creditore sia tenuto a giustificare alcuna perdita”.

Tale norma costituiva la traduzione letterale di quella di cui all’art. 1153 del codice civile napoleonico, che all’ultimo comma, con riguardo agli interessi, stabiliva: “salvo che la legge li faccia decorrere di pieno diritto”.

La mancanza di tale inciso nella nostra legislazione, nonché di una norma apposita che disponesse in tal senso in materia civile, faceva sì che, in tema di adempimento di obbligazioni pecuniarie, gli interessi corrispettivi non decorrevano di regola di pieno diritto, quali frutti civili del denaro dedotto in obbligazione, bensì per la corresponsione di essi occorreva un “patto speciale”, in mancanza del quale gl’interessi competevano soltanto come elemento risarcitorio del danno cagionato dalla mora del debitore o del creditore, e decorrevano, ovviamente “dal giorno della mora”.

Veniva, tuttavia, riconosciuto pur sempre nella libertà lasciata ai cittadini di contrattare interessi corrispettivi, il principio della naturale fecondità del denaro da cui, però, non venivano tratte tutte le conseguenze possibili.

L’art. 1233, I comma c.c. del 1865 disponeva, a sua volta, che: “le rendite scadute, come i fitti, le pigioni ed i frutti maturati delle rendite perpetue o vitalizie producono interessi dal giorno della domanda giudiziale o della convenzione”, onde veniva mantenuto il principio di cui all’art. 1231, in base al quale, se gl’interessi corrispettivi non erano stati convenuti tra le parti, essi assumevano soltanto funzione risarcitoria e decorrevano dal giorno della mora, qualificata particolarmente dalla data di proposizione della domanda giudiziale;

Veniva mantenuta così la nostra tradizione romanistica e canonica, che aveva considerato sempre con sfavore la corresponsione degli interessi sul capitale, per frenare, la prima, l’ingordigia dei creditori, eccezion fatta per i contratti bancari e marittima, e la seconda, la convinzione che il denaro fosse di per sé insuscettibile di fruttificazione, perché basata sul fattore tempo, “che appartiene a Dio e non agli uomini”.

Della concezione tralatizia degli interessi, quale istituto giuridico da guardare con sospetto, ne danno certezza i lavori preparatori del codice del 1865 e, in particolare, la relazione della Commissione senatoriale estesa in occasione dell’esame del progetto di codice civile presentato dal Ministro Guardasigilli in quel ramo del Parlamento nelle tornate del 15-7-1863 e del 26-11-63 (Senato – legislatura 1863-1866 – disegni di legge e relazioni – documento n. 45 bis) secondo le considerazioni seguenti: 1) “il progetto ministeriale, nella trattazione della vasta materia delle obbligazioni e dei contratti, dilungandosi dal metodo tenuto e dal codice francese e da taluno dei codici che ormeggiava il francese, si è attenuto ad un metodo più semplice e più razionale e, pertanto, togliendo a guida l’ordine lucidissimo dello illustre Pothier, tutta la materia vien ripartita in due grandi divisioni: l’una che guarda le obbligazioni in genere, l’altra i contratti in specie”; 2) “quanto ai principi direttivi di cotal materia non era luogo a profonde e radicali innovazioni, perché i dettati della sapienza romana dei quali ben può rappresentarsi fedele interprete il Pothier, porgevano l a miglior guida a seguire la tradizione romanistica e fu seguita religiosamente dai redattori del codice francese”.

Tale tradizione, disancorata com’era da remore teoretiche su cui discettare e da principi etici da sostenere, costituendo essa un autentico dictamen practicum per regolare i rapporti umani, vedeva nelle prestazione degli interessi un motivo di turbamento dell’ordine pubblico a causa dell’auri sacra fames dei creditori, costituiti dalla classe patrizia, onde la legge delle XII tavole limitò le usurae all’1% all’anno, sulla considerazione che il denaro, quale rappresentante universale di tutte le merci e controvalore economico di esse, ben poteva essere considerato fruttifero: “l’usura, in verità era una piaga vecchia di Roma, molto spesso causa di sedizioni e di discordia, e già in passato, allorquando i costumi erano meno corrotti, si era tentato di porvi rimedio.

“La prima sanzione, a questo proposito, fu data dalla legge delle XII tavole, perché mentre prima erano gli usurai che stabilivano a loro piacimento il saggio dell’interesse dei prestiti che essi concedevano, fu stabilito, per contro, che nessuno poteva esercitare l’usura chiedendo un tasso superiore all’1% all’anno; in seguito, su proposta dei tribuni, tale saggio venne ridotto alla metà ed infine si giunse a vietare qualsiasi prestito del genere” (Tacito, annales, 6, 1I).

In particolare, sull’oscillazione del tasso: 1) “non altrettanto gradita riuscì ai senatori (che rappresentavano emblematicamente la classe patrizia) l’anno seguente, sotto il consolato di Caio Marcio e Cneo Manlio, la proposta di legge sull’interesse unciario, sostenuta dai tribuni della plebe Marco Duilio e Lucio Menenio, mentre il popolo l’approvò con entusiasmo assai maggiore (l’interesse unciario era pari ad un’oncia per asse al mese e cioé al 12% all’anno, perché l’oncia era pari alla dodicesima parte dell’asse; Tito Livio, historiae 7, 16); 2) “la stessa tranquillità durò all’interno ed all’esterno sotto il consolato di Tito Torquato e Caio Plauzio, perché si portò il saggio degli interessi da unciario a semi unciario (6%; Tito Livio, ibidem, 7, 27).

Il pagamento degli interessi, pertanto, nel periodo classico doveva esser convenuto espressamente, secondo la giurisprudenza seguente: “non sono dovuti gl’interessi per il denaro dato a credito” Africano, D. 19, 5, 24); 2) “nel caso che sia stato così stipulato; ed anche gl’interessi, se competeranno, la stipulazione dev’essere considerata nulla se non sia stata stabilita la misura degli interessi” (Ulpiano, D. 22, I, 31); 3) “Gaio Seio ha preso a mutuo da Aulo Agerio una somma di denaro e gli ha rilasciato un chirografo del tenore seguente: io stesso attesto di aver ricevuto denaro a mutuo e di aver avuto numerate dieci monete che restituirò alle prossime calende con gli interessi convenuti.

“Si domanda se in virtù di tale documento possano esser chiesti gl’interessi stabiliti; Modestino risponde che, nel caso che non risulti in quale misura gl’interessi siano stati pattuiti, essi non possono esser pretesi” (Modestino, D. 22, 1, 41, paragrafo 2°).

Gl’interessi, pertanto, pur nel sospetto in cui erano tenuti, erano riguardati, tuttavia, quali frutti del denaro, come un’obbligazione autonoma rispetto alla sorte principale, onde la fecondità del capitale era considerata alla stregua dell’id quod plerumque accidit, in natura, con riguardo alla generalità dei frutti: 1) “gl’interessi tengono il posto dei frutti, e, quindi, con buona ragione devono esser tenuti separati da essi.

“Tale regola dev’essere osservata nei legati, nei fedecommessi, nell’azione di tutela ed in tutte le altre azioni di buona fede, ed altrettanto deve dirsi con riguardo a tutto ciò che proviene a titolo ereditario” (Ulpiano, D. 11, 1, 34); 2) “gl’interessi devono esser corrisposti anche nella gestione contraria d’affari nel caso che io abbia contratto un mutuo per pagare il tuo creditore che era sul punto d’entrare in possesso dei tuoi beni e di vendere il tuo pegno.

“Che sarà se io, possedendo del denaro, paghi di tasca mia per la causa suddetta? Io ritengo che, se ti ho liberato da un incomodo grave, tu mi sia debitore degli interessi stabiliti dalla legge con riguardo ai giudizi di buona fede.

“Che se poi io ho preso denaro a mutuo, mi dovrà gl’interessi che ho pagato, purché tu tragga dal denaro un vantaggio almeno eguale all’ammontare della somma dovutami a titolo d’interessi” (Ulpiano D. 22, I, 37).

Laddove, però, le usurae non potevano esser considerate convenzionali, quali frutti tipici del denaro, esse avevano di per sé natura risarcitoria dell’illecito civile commesso, qual’era considerato, per l’appunto, l’inadempimento contrattuale costituito dal ritardo nell’adempimento dell’obbligazione, onde gl’interessi, così come stabilito nel codice del 1865, assumevano il carattere di corrispettivo del danno cagionato (moratorio), e venivano liquidati dal giudice nell’an e nel quantum: 1) “se si è ritardato nell’eseguire un pagamento, per tale mora non possono essere chiesti gl’interessi, dal momento che non discendono dal contratto (nel qual caso avrebbero avuto carattere corrispettivo), ma devono esser pagati se il giudice lo disponga” (Ermogeniano, D. 19, 1, 49, paragrafo 2°) “nei contratti di buona fede gl’interessi sono dovuti dal giorno della mora” (Ulpiano, D. 22, 1, 32, paragrafo 1°); 3) “un tutore, ch’era stato condannato a pagare una somma di denaro, trovò il modo di differire l’esecuzione della sentenza mediante l’impugnazione di essa.

“Erennio Modestino rispose: il giudice di appello poteva condannare il debitore al pagamento degli interessi anche per il tempo intermedio nel caso che si fosse reso conto che il gravame era stato proposto a scopo dilatorio” (Modestino, D. 22, 1, 41).

Queste sono le premesse teoriche, secondo, la nostra tradizione giuridica, in base alle quali il legislatore del 1865 riguardò anch’esso l’istituto degli interessi con grande sfavore, secondato in ciò dalla dottrina della Chiesa, che costituiva già da gran tempo il punto di riferimento etico di tutte le legislazioni europee: “l’usuraio agisce contro la legge naturale perché vende il tempo, che è comune a tutte le creature.

“Agostino dice che ogni creatura è obbligata a far dono di sé; ma niente fa dono di sé come il tempo in maniera più conforme alla natura.

“Poiché, dunque, l’usuraio vende ciò che appartiene necessariamente a tutte le creature, egli le lede tutte, anche le pietre, e da ciò consegue che se anche gli uomini tacessero nei suoi confronti, le pietre griderebbero, se potessero, e questa è una delle ragioni per le quali la Chiesa condanna gli usurai, perché Dio contro di essi dice: quando riprenderò il mio tempo, cioé quando il tempo sarà nuovamente in mano mia, di modo che un usuraio non potrà venderlo, allora giudicherà secondo giustizia” (Guglielmo D’Auxierre, summa aurea, III, XXI)

Da tali premesse teologico-morali sortì un pensiero giuridico del tutto conseguente: “siccome gli usurai non vendono che la speranza del denaro, cioé il tempo, essi vendono il giorno e la notte, ma il giorno è il tempo della luce e la notte è il tempo del riposo, onde vendono la luce ed il riposto, perciò non sarebbe giusto che godessero della luce e del riposo eterni” (Duns Scoto, Libri quattuor sententiarum, 4°, 15, 2, 17).

Veniva posto, quindi, in discussione la possibilità stessa dello sviluppo delle attività economiche mediante il rifiuto dell’istituto giuridico degli interessi, negando l’esperienza stessa del modo di svolgersi delle attività commerciali ed intermediarie in generale, secondo i temi opportunamente più o meno brevi, stoccaggi più o meno lunghi, nel rispetto della legge della domanda e dell’offerta e nell’attuazione del principio economicistico della utilità marginale.

Il codice del 1865, pertanto, tollerò il principio della naturale fertilità del denaro soltanto se in tal senso si fossero espresse le parti contraenti, pur compiendo aperture notevoli, in ciò a simiglianza del diritto francese in materia commerciale, dal momento che l’art. 41 del codice di commercio stabiliva che: “i debiti commerciali liquidi ed esigibili producono interessi di pieno diritto”, e tale criterio fu mantenuto anche in tema di fideiussione, perché l’art. 1915 disponeva che “il fideiussore ha regresso per gl’interessi di tutto ciò che ha pagato per il debitore, ancorché il debito non producesse interesse”, ed in tema di mutuo, dal momento che l’art. 1829 affidava alla libertà delle parti (e contro la tradizione romanistica) la libertà di contrattare “la stipulazione degli interessi nel mutuo di denaro, di derrate o di altre cose mobili”.

La regola generale, quindi, era quella che gl’interessi avevano rigorosamente natura risarcitoria, onde occorreva l’inadempimento di una delle parti, ovvero il fatto illecito del terzo (quasi delitto) perché essi cominciassero a decorrere dal giorno della mora, ovvero dalla data della domanda giudiziale.

Il codice vigente, invece, secondo la dichiarata intenzione del legislatore, accogliendo il principio economicistico più moderno dell’intrinseca capacità del denaro di riprodurre sé stesso, ha stabilito, anzi tutto, la decorrenza degli interessi di pieno diritto, unificando in tal modo la disciplina civile e quella commerciale, e dando ad essi caratterizzazione di frutti civili acquisibili giorno per giorno, salvo la particolare funzione risarcitoria che sono destinati ad assumere in caso di mora del creditore o del debitore.

Gl’interessi, pertanto, nel nuovo sistema del codice, hanno funzione corrispettiva nelle obbligazioni pecuniarie, e funzione compensativa nei contratti di scambio, cioé in tutte quelle pattuizioni cui le prestazioni reciproche devono avvenire contemporaneamente, onde essi assumono in tali casi funzione compensativa, per il creditore, del mancato godimento dei frutti della cosa da lui consegnata alla altra parte prima di riceverne la controprestazione.

La ratio di tale sistemazione nuova ed organica della materia, infine, è stata esposta nella relazione del Guardasigilli (nn. 29, 32, e 33) a commento dell’art. 112 (oggi 1282) del libro delle obbligazioni, secondo l e considerazioni seguenti: 1) “questa degli interessi è una tipica figura di prestazione, la cui importanza ben giustifica una disciplina organica e separata dalla disciplina delle prestazioni pecuniarie”; 2) “si è cercato, per quanto era possibile, di unificare il regime degli interessi per debiti commerciali e di quelli relativi a debiti civili, e, mentre si è ritenuto di poter rendere unico il tasso (art. 1284) e la decorrenza (art. 1187), si è creduto di mantenere la distinzione per quel che attiene alla forma del patto d’interessi in misura ultralegale ed allo anatocismo“; 3) “la decorrenza degli interessi è stata unificata per la materia civile e per la commerciale mediante l’estensione dell’art. 41 del codice di commercio alla materia civile, perché la diversità attuale di regime non è compatibile con lo sviluppo dell’economia nazionale, che consente quella che fu detta la naturale fecondità del denaro di produrre i suoi effetti anche all’infuori della sfera commerciale”; 4) “l’art. 1282 parte, dunque, da una normale corrispettività e compensatività degli interessi, il che vuole significare che questi decorrono indipendentemente dalla colpa del debitore nell’adempimento o nel ritardo, salva l’ipotesi di mora del creditore”; 5) “nei casi in cui il debito non è esigibile prima della costituzione in mora è chiaro che gl’interessi cominceranno a maturare dal giorno della mora e si è pure fatta salva nel primo comma dell’art. 1282 la convenzione modificativa della decorrenza legale degli interessi; le parti, quindi, possono stabilire che questi decorrano con la costituzione in mora anche se l’adempimento della prestazione deve avvenire entro un termine prefissato”; 6) “ciò dimostra che il carattere corrispettivo, o, a seconda dei casi, compensativo degli interessi non si oppone alla decorrenza degli interessi moratori, il che, del resto, è detto espressamente nell’art. 1224; se la convenzione esclude che siano dovuti gli interessi per il tempo anteriore alla mora, è chiaro che sono dovuti solo interessi moratori, così pure sono moratori quelli già corrispettivi e compensativi dovuti nel periodo della mora”.

La relazione al re, poi, (n. 59 del libro delle obbligazioni) ha ribadito il carattere fruttifero degli interessi in relazione al capitale allo scopo di adeguare il ritmo dell’economia alle realtà nuove dei mercati ed alla mobilità degli investimenti, onde il legislatore vigente ha mostrato di concepire il denaro in funzione della sua stessa capacità di riprodursi e di ricostituirsi dopo aver procurato quelle utilità naturali che, comunemente, vengono chiamati interessi: “ho già detto che, sulla base della naturale fecondità del denaro, e per corrispondere al bisogno di incrementare il credito, è stata estesa anche a tutti i debiti civili la disposizione dell’art. 41 del codice di commercio circa la decorrenza di diritto degli interessi sui crediti liquidi ed esigibili”.

Nel codice vigente, infine, l’unificazione del concetto degli interessi, riguardati come suscettibili di mutamento in funzione di perequazione socio-economica, quale capacità intrinseca del denaro di soddisfare le esigenze più disparate, considerati come comune denominatore di tutte le utilità possibili da trarre dai beni fruttiferi della vita, è stato affermato con massima chiarezza dalla norma di cui all’art. 1224 c.c., che dispone che: “nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di denaro, sono dovuti dal giorno della mora gl’interessi legali, anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno.

“Se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gl’interessi moratori sono dovuti nella stessa misura”.

La relazione del Guardasigilli (n. 103 al libro delle obbligazioni) non lascia adito a dubbi circa la concezione unificante degli interessi in funzione plurisatisfattiva, secondo le considerazioni seguenti: 1) “anche nel progetto presente i danni per il ritardo nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie consistono nell’obbligo di prestare gli interessi legali: 2) “il coordinamento di questo principio con quello della corrispettività degli interessi va fatto nel senso che, in un primo momento, la prestazione dei medesimi è espressione della naturale fecondità del denaro, in un secondo tempo l’effetto del ritardo: si opera, quindi, una conversione di natura e di funzione nella prestazione originaria”; 3) “questo in via normale, ma non si possono escludere delle eccezioni che il progetto del 1936 (art. 102) limita alle regole particolari al commercio, alla fideiussione ed alla società: le eccezioni possono essere considerate sotto una formula più larga e, quindi, si è affermato che il principio del risarcimento del danno da ritardo mediante la prestazione degli interessi vale in mancanza di diversa disposizione o di patto speciale”; 4) “quanto alla decorrenza degli interessi moratori, si è soppressa dall’art. 102 del progetto del 1936 l’eccezione apparente del caso in cui la legge fa maturare interessi di pieno diritto, anzi tutto, perché, dato il nuovo sistema accolto (art. 1282) questo è il caso normale, e poi perché gl’interessi di pieno diritto non hanno mai, prima della costituzione in mora, natura moratoria”.

Si comprende, pertanto, chiaramente che, secondo la stessa intenzione del legislatore, la funzione risarcitoria degli interessi è del tutto secondaria e dipendente dalla costituzione in mora del debitore, per cui essi in tal caso devono essere chiesti espressamente dal danneggiato indipendentemente dalla proposizione della domanda di pagamento del capitale (cfr., per tutte, sent. n. 1075-76).

L’evoluzione suddetta del codice vigente, però, trova la sua radice in un’eccezione felicissima della nostra tradizione giuridica più remota, ed in un’altra più prossima, cui conviene accennare onde aver la certezza che la naturale fecondità del denaro è una constatazione che si impone ex ipsa natura rei e non già una regola potestativa affidata esclusivamente alla volontà del legislatore.

Il codice giustiniano, (1) tuttavia, la disciplina degli interessi in materia creditizia e marittima, ov’era più significativo il riconoscimento del denaro come merce destinata ad autoriprodursi mediante fruttificazione, dalla disciplina civilistica e piccolo – commerciale, (ecco l’eccezione) attardata sul pregiudizio della morigeratezza delle controprestazioni pecuniarie quale espressione rigida di costumi sociali, con riguardo, anzi tutto, alle qualità personali delle parti contraenti: “poiché noi abbiamo promulgato una legge che stabilisce che gl’istituti di credito (argentarie mensae) non prestino denaro ad saggio d’interesse maggiore dell’8% all’anno (certamente remunerativo, in quel tempo, per stimolare gli scambi ed i commerci) siano stati informati che, mantenendosi il costume di stipulare i contratti oralmente, i debitori negano di dover pagare gli interessi eccependo di non esservi obbligati a causa della mancanza della forma scritta (nudo patto), secondo il principio generale che stabilisce che gl’interessi non devono essere corrisposti ove non sia intervenuta una stipulatio nonostante che vi siano molti casi in cui gli interessi sono dovuti anche in assenza di stipulazione in forma solenne ed in forza del solo patto nudo, e nonostante che in altri casi essi vengano chiesti non già in base al patto bensì per la natura stessa della cosa. “Disponiamo, pertanto, che il pagamento degli interessi sia dovuto non soltanto in forza di stipulatio ma anche nel caso che il contratto non sia stato redatto per iscritto, onde dovranno esser corrisposti sempre gl’interessi nella misura legale, ed essi non potranno superare l’8% all’anno (e tale entità è già di per sé indicativa, per quel tempo, di voler consentire la remunerazione del denaro secondo il suo prezzo di mercato, quale fruttificazione stabilita dalle leggi economiche), e ciò perché non è giusto che coloro che sono disposti a soccorrere i bisognosi siano costretti a subire un nocumento per tale loro attività (novella 125°, capo 4°).

La disciplina generale, per contro, fu diversa, come già detto, eccezion fatta per la pecunia traiectitia: “noi abbiamo ritenuto necessario legiferare anche in materia d’interessi riducendo i tassi in misura conveniente rispetto a quelli duri e gravosissimi del passato, onde disponiamo che le persone illustri e quelle che le precedono (patres et equites, nonché la classe patrizia in generale) non possono stipulare contratti di lieve o di grande entità che comportino interessi superiori al 4% allo anno.

“Nei contratti marittimi (traiectiis contractibus) ed in quelli di consegna di derrate è lecito stipulare interessi fino al 12% all’anno.

“Gli altri cittadini potranno stipulare interessi nella misura del 6% e tale tasso non potrà essere superato nemmeno in questi casi in cui gli interessi vengono pretesi senza che sia intervenuta stipulazione (interessi moratori da liquidarsi iussu iudicis).

“A coloro, poi, che non rispetteranno la presente costituzione non potrà essere accordata azione alcuna, e quanto avranno ricevuto in più a titolo d’interesse dovranno imputarlo al capitale” (costituzione dello imperatore Giustiniano a Menna, prefetto del pretorio; Codex, 4, 32, 27).

Ecco qual’era la tradizione romanistica che aveva indotto il legislatore del 1865 a dare disciplina diversa agli interessi commerciali rispetto a quelli civili, e ad indurre il legislatore del 1942 ad unificare tale materia sulla considerazione che il denaro è merce sempre e comunque fruttifero.

La tradizione romanistica più immediata, per contro, è costituita dal ius singulare, dettato dal codice civile del 1865 in tema di mutuo, là dove il combinato disposto degli artt. 1829, 1830 e 1831 disponeva: 1) la stipulazione libera degli interessi (contrariamente alla tradizione romanistica; 2) l’irripetibilità e la non imputazione al capitale degli interessi liberamente pagati; 3) la distinzione tra interesse legale (5% in materia civile e 6% materia commerciale) ed interesse convenzionale; 4) la stipulazione per iscritto degli interessi convenzionali, pena l’assoluzione dal pagamento degli interessi.

La ratio di tale indirizzo legislativo, espressione della concezione più genuina della naturale fecondità del denaro, fu esposta nei termini seguenti nella relazione (n. 259) della Commissione senatoriale intorno al progetto sul libro terzo del codice civile, esteso dal Ministro Guardasigilli, presentato al Senato nelle tornate di giugno e di luglio del 1864: 1) “ordinando il mutuo ad interesse occorreva la questione sì vivamente agitata della tassa degl’interessi convenzionali; 2) “ci ha delle verità poste in sodo dalla scienza e dall’esperienza, da pigliare il carattere dei teoremi, e tale è questo della libertà degli interessi convenzionali”; 3) “é dimostrato, infatti, che l’intervento del legislatore, nel fine di determinare il saggio dell’interesse convenzionale, involve un errore economico ed un’offesa alla giustizia”; 4) “é un errore economico, in quanto che adoprandosi la tassa degli interessi a fissare il prezzo dell’uso dei capitali, livellandolo ad una massima comune misura, si contraffà direttamente a quella legge economica invariabile che fa uscire il prezzo delle cose permutabili dal rapporto tra l’offerta e la domanda”; 5) tale violazione di una legge non inventata ma imposta dalla natura delle cose riuscirebbe nelle sue conseguenze perniciossissima, dacché, o rimarrebbe elusa dagli accorgimenti dei contraenti, o lascerebbe i capitali inerti e stagnanti nelle mani dei prestatori con grave iattura dell’agricoltura e dell’industria”; 6) “dicevamo, inoltre, riescire la tassa degli interessi una evidente ingiustizia, avvegnaché la limitazione dello interesse convenzionale ad un saggio legale non potrebbe rappresentare a priori il corrispettivo degli uffici e dei servizi del capitale e negli svariati accidenti delle civili transazioni e dei rischi più o meno gravi cui va esposto il mutuante”; 7) “del rimanente, senza intrattenerci più oltre in una tesi che non ha mestieri di nuova luce di argomenti, basterà notare che il progetto, con ottimo senno, divisò la adozione di alcuni correttivi e di alcuni correttivi e di alcuni temperamenti all’applicazione del principio assoluto della libertà degli interessi (art. 1829)”.

Il legislatore del 1865, pertanto, delineò la disciplina del contratto di mutuo, quale più pratico tra i contratti di scambio, secondo le dottrine economiche più moderne del tempo, in cui il capitale assolve la sua funzione socio-economica come fattore di moltiplicazione di sé stesso in base al tempo d’impiego e, quindi, come generatore di frutti ad esso del tutto peculiari: gl’interessi.

In tema di anatocismo infine, la norma di cui all’art. 1223 c.c. vigente dispone: “in mancanza di usi contrari, gl’interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti d’interessi dovuti almeno per sei mesi”.

Tale disposizione costituisce un vulnus tanto grave quanto incomprensibile al principio generale introdotto dall’art. 1282 c.c. circa la decorrenza degli interessi “di pieno diritto” in materia di obbligazione, perché, stabilendone il sorgere dalla data della domanda giudiziale o per effetto di patto stipulato in tempo posteriore alla maturazione delle usurae, connota queste ultime non più come il frutto naturale del denaro, bensì come un complemento legale o convenzionale di esse da limitare e da contenere nella crescita e nella diffusione sociale e, quindi, da riguardare ancora con quell’antico sfavore che il legislatore stesso aveva voluto allontanare.

Il motivo di tale disciplina anomala risiede nel fatto che il legislatore, piuttosto che disciplinare ex novo anche l’anatocismo, preferì adagiarsi sulla norma di cui all’art. 1232 del 1865, anticipando soltanto il termine di maturazione degli interessi e portandoli dall’anno della norma precedente ai sei mesi attuali.

Di tanto si ha conferma ancora una volta dalla relazione del Guardasigilli (n. 35 del libro delle obbligazioni): “l’anatocismo è rimasto regolato come nell’art. 103 del progetto della Commissione reale, che ha innovato all’art. 1232 cc. vigente solo in quanto ha consentito la capitalizzazione semestrale anziché annuale degli interessi.

Tale riproduzione tralatizia della norma, irrazionale, ormai, rispetto al sistema nuovo introdotto, è stata illustrata dal relatore dinanzi alla Commissione delle assemblee legislative nei termini seguenti: “l’articolo in esame riproduce in sostanza, ma con una formulazione migliore, la disposizione dell’art. 1232 c.c. vigente, accogliendo, però la norma dell’art. 103 del progetto del 1936, che consente la capitalizzazione semestrale anziché annuale degli interessi.

“Potrebbe sorgere il quesito se, riducendo il termine per la capitalizzazione da un anno a sei mesi, non si vada incontro al pericolo di favorire l’usura, ma la relazione del Guardasigilli lo nega osservando che il valore odierno della moneta consente di ritenere che coll’importo di un semestre d’interessi si può costituire una somma rilevante, che il creditore potrebbe utilizzare come capitale”.

Deve dedursene, quindi, che il codice del 1865 diede, nonostante tutto, una configurazione coerente all’istituto degli interessi anche in tema di anatocismo, circa la naturale fecondità del denaro come espressione evolutiva della nostra tradizione giuridica sul punto, così formatasi: “le leggi antiche disponevano che non potevano esigersi interessi, ma al riguardo esse erano poco chiare, perché se permettevano che gl’interessi potevano esser convertiti in capitale ed essere stipulati, inoltre, su tutta la somma, non potevano forse essere pretesi dai debitori gl’interessi degli interessi; “Legiferare in tal modo significava certamente far disposizioni intorno alle parole, ma non già riguardo alla sostanza.

“Noi, pertanto, stabiliamo con questa legge chiarissima che gl’interessi, siano essi maturati o maturandi, non possono esser convertiti affatto in capitale ed esser fonte, pertanto, di nuovi interessi.

“Se convenzioni siffatte, però, dovessero essere stipulate, gl’interessi dovranno essere considerati sempre come tali, né potranno generare nuovi interessi, dal momento che rimangono ammessi soltanto quelli derivanti dal capitale iniziale” (costituzione dell’imperatore Giustiniano e Demostene, prefetto del pretorio, C. 4, 33, 28).

La ratio del codice del 1865 fu chiarissima, e contribuì, anche con riguardo alla disciplina dello anatocismo, all’evoluzione data oggi alla materia dall’art. 1282 già citato, circa la corresponsione di pieno diritto degli interessi in relazione ai crediti liquidi ed esigibili, quale espressione della fruttificazione intrinseca dei capitali: 1) “un pregiudizio derivato da un errore economico fece riguardare con occhio sfavorevole e talvolta come usura illecita il mutuo ad interesse, e fra le conseguenze dannose che ne dimanarono si annovera quella che proscrisse gl’interessi degli interessi”; 2) “i codici italiani, scostandosi dal francese, dichiararono che la giudiziale domanda non fa decorrere gl’interessi sopra gl’interessi già dovuti, e che questi non possono produrne altri neppure in forza di una convenzione posteriore alla loro scadenza, salvoché vi sia novazione dell’obbligazione per cui gli interessi si assumano la natura di un capitale”; 3) “é, però, norma non contrastata di diritto che il debitore in mora deve risarcire i danni derivanti dalla medesima, e, trattandosi di somme di denaro, la legge adotta un sistema di presunzione generale, e stabilisce che il risarcimento dei danni consisterà nel pagamento degli interessi nella tassa legale”;

4) “ora, sia che la somma dovuta formi un capitale, il danno presunto dalla legge si verifica egualmente pel creditore che non ne riceve il pagamento”; 5) “esso ha potuto far assegnamento sulla somma dovutagli a titolo d’interessi, ma se questa somma non gli viene pagata dovrà ricorrere ad un imprestito, e soffre quindi un danno come se la somma dovutagli costituisse un capitale”; 6) “né può impedirsi che gl’interessi, quando già siano scaduti, vengano, mediante apposita convenzione, costituiti in capitale per far decorrere gl’interessi sopra i medesimi”; 7) se il debitore li pagasse il creditore potrebbe impiegare la relativa somma ad interesse presso un terzo, ed allora perché si dovrà vietare che ciò si faccia, lasciandoli a mani dello stesso debitore?” 8) “Questi, inoltre, può non trovarsi in grado di pagare gl’interessi dovuti senza ricorrere ad un imprestito, sottoponendosi così al pagamento di altri interessi: perché allora, non potrà ritenere quelli già dovuti qual nuovo imprestito, invece di ricercare un terzo che abbia a mutarglieli?” 9) “Si teme che il debitore aumenti per tal modo eccessivamente il suo debito verso lo stesso creditore, ma la sua condizione non cambia punto se aumenta il suo passivo obbligandosi verso un altro” (relazione n. 147 sul progetto del libro 3° del codice civile presentato dal Guardasigilli al Senato nella tornata del 26-11-1863).

Deve dirsi ora che l’attrice, nella controversia in esame, si era limitata a chiedere la corresponsione degli interessi senza avere accennato affatto a pretesa alcuna di risarcimento del danno subito dal ritardo nell’adempimento dell’obbligazione da parte del Ministero dell’Interno, onde non v’é dubbio che gl’interessi ch’essa aveva chiesto erano quelli corrispettivi e non già moratori.

Stabilito ciò, deve rilevarsi che la disciplina suddetta ha trovato nella materia in esame applicazione puntuale da parte del legislatore nella disposizione di cui all’art. 17 della legge 27-5-70 n. 382 con cui ha introdotto il diritto dei ciechi civili alla percezione degli interessi ad essi spettanti dalla data di maturazione della pensione relativa.

Deve rilevarsi, infine, che il tribunale, tra i molti argomenti addotti per l’accoglimento del capo di domanda concernente la corresponsione degli interessi, ha sostenuto che ai crediti previdenziali ed assistenziali sono suscettibili dell’applicazione della norma di cui all’art. 429, 3° comma, cpc.

Tale principio di diritto è certamente errato, secondo la giurisprudenza ormai consolidata di questa Corte (cfr. per tutte, sent. n. 6160 del 14-7-87), ma su di esso il giudice a quo non ha fondato la sua decisione, onde si è trattato di una considerazione fatta ad colorandam decisionem, che non può essere fatto oggetto, pertanto, di motivo di ricorso per cassazione.

Da quanto sin qui esposto consegue che il ricorso è infondato e dev’essere rigettato, onde il ministero ricorrente dev’essere condannato a pagare alla resistente le spese del presente giudizio che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il Ministero ricorrente a pagare in favore della resistente le spese del presente giudizio che si liquidano in L. 23.400 oltre L. 1.000.000 per onorario di avvocato.
Roma, 17-11-89.
(1)” pur sfavorevole alle usurae, sotto l’influenza del diritto canonico appena nascente, e timoroso di porre in forse la pace sociale, tenne distinta…”
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 12 APRILE 1990