Svolgimento del processo
Con sentenza 7 novembre – 30 dicembre 1978, il Tribunale di Benevento – previa riunione delle relative cause – ha confermato le sentenze, pronunciate in separati giudizi promossi da Michele Cardo e da altri trentotto privati proprietari, con cui il Pretore di Colle Sannita aveva condannato la S.I.P. alla rimozione delle apparecchiature telefoniche illegittimamente installate sui fondi di proprietà degli attori e al risarcimento dei danni; e aveva respinto, inoltre, la domanda riconvenzionale proposta dalla S.I.P. per ottenere la costituzione coattiva di una servitù telefonica a favore di essa S.I.P. sui fondi di proprietà degli attori.
Il Tribunale si è fondato, tra l’altro, sulle seguenti considerazioni:
a -) il divieto di condanna ad un “facere” non sussiste nella ipotesi in cui il concessionario agisca illegittimamente, cioé esorbitando dai suoi poteri di concessionario, come era appunto avvenuto nella concreta fattispecie, tenuto conto che la S.I.P. aveva installato le apparecchiatura telefoniche sui fondi degli attori senza la preventiva approvazione dei relativi piani esecutivi: e ciò sia perché il piano tecnico dell’agosto del 1973 e il relativo decreto ministeriale di approvazione del 18 novembre 1974 erano successivi alla realizzazione dell’opera, sia perché lo stesso piano tecnico, essendo privo dell’indicazione dei fondi sui quali le opere avrebbero dovuto essere realizzate, doveva essere qualificato come progetto di massima e non come piano esecutivo, per cui difettava anche la prescritta preventiva approvazione ministeriale del piano esecutivo, a cui avrebbe dovuto essere subordinato l’esecuzione dell’impianto a norma delle disposizioni contenute nell’art. 156 del d.p.r. 29 marzo 1973 e nelle convenzioni intercorse tra il Ministero delle Poste e la S.I.P., approvate con d.p.r. n. 1594 del 26 ottobre 1964 e n. 427 del 6 marzo 1968;
b -) non ricorreva l’ipotesi prevista dallo art. 2933 comma 2° cod. civ., secondo cui la distruzione della cosa non può essere ordinata se di pregiudizio all’economia nazionale, in quanto tale norma attiene alla violazione degli obblighi di non fare e non anche in discriminatamente a tutte le violazioni del generico dovere del “neminem laedere”;
c -) inapplicabile era anche la limitazione sancita nell’art. 2058, comma 2° del cod. civ. – Secondo cui il giudice può disporre il risarcimento per equivalente se la reintegrazione in forma specifica sia eccessivamente onerosa per il debitore – dovendo l’eccessiva onerosità del risarcimento in forma specifica essere valutata con riferimento non al valore del bene da distruggere, bensì alla obiettiva difficoltà della esecuzione dell’obbligo che, nella specie, non ricorreva;
d -) la domanda riconvenzionale della S.I.P. doveva essere rigettata: e ciò in quanto le servitù coattive sono tipiche e nessuna norma prevede tale modo di costituzione per la servitù illegittimamente esercitata dalla S.I.P. sui fondi degli appellati.
Avverso la su indicata sentenza del Tribunale di Benevento ricorre per cassazione S.I.P., con due motivi.
Tra gli intimati hanno proposto controricorso Michele Cardo e Silvio Pellegrino.
La S.I.P. e il Cardo hanno presentato memoria.
Motivi della decisione
Con il primo mezzo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 4 della legge 20 marzo 1865 n. 2248 all. E, nonché degli artt. 2058 e 2933 cod. civ. e difetto di motivazione in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.
In particolare si deduce che la S.I.P., quale concessionaria del servizio telefonico ad uso pubblico, ha l’obbligo, in base alla convenzione approvata con il d.p.r. 6 marzo 1964 n. 1594 (con le aggiunte e le modificazioni di cui al d.p.r. 6 marzo 1968 n. 427 e al d.p.r. 28 agosto 1972 n. 803) di costruire, sviluppare e modificare gli impianti necessari al servizio stesso che sono di pubblica utilità, per espressa previsione dell’art. 231 d.p.r. 29 marzo 1973 n. 156. Da qui la conseguenza che la richiesta di rimozione dell’impianto avrebbe dovuto essere dichiarato improponibile, trattandosi di opera che era stata realizzata dal concessionario quale “longa manus” dell’Amministrazione concedente, per le immediate finalità di interesse pubblico inerenti alla gestione del servizio, a nulla rilevando che la relativa attività fosse stata esplicata materialmente dalla S.I.P. senza i prescritti provvedimenti amministrativi che, in via preventiva, avrebbero dovuto essere richiesti e concessi per la installazione dei conduttori, trattandosi di provvedimenti che, nella specie, erano stati comunque emanati dopo la realizzazione dell’opera, in guisa da sanare il precedente comportamento tenuto dalla concessionaria riconducendolo nell’ambito della attività che aveva formato oggetto di concessione.
Si deduce quindi che il Tribunale, nel qualificare il piano tecnico 0824-d-73 – che era stato approvato nel caso concreto – alla stregua di un piano tecnico di massima (insuscettibile di concretare un piano tecnico esecutivo) non ha tenuto che tale piano – occorrente per il rilascio della definitiva autorizzazione – implicava una valutazione autoritativa di carattere discrezionale da parte della pubblica amministrazione della indispensabilità del sacrificio della posizione del privato rispetto al fine pubblico perseguito in concreto del concessionario: e avrebbe dovuto quindi considerarsi idoneo a precludere la emanazione, da parte del giudice ordinario, di provvedimenti ripristinanti dello”status quo ante” (a quello che era stato realizzato in esecuzione di quella valutazione) incidenti sull’esercizio di poteri riservati all’esclusiva competenza dell’autorità amministrativa.
Ciò in considerazione dei limiti sanciti dall’art. 4 della legge n. 2248 del 1865, all. E, e del principi secondo cui nel caso di occupazione sine titulo, il proprietario dell’immobile utilizzato della pubblica amministrazione ha diritto soltanto al risarcimento del danno (e non anche alla restituzione dell’immobile), nonché in relazione all’impossibilità in cui viene istituzionalmente a trovarsi il giudice ordinario di compiere accertamenti e valutazioni di carattere tecnico-amministrativo, quali sono appunto quelli inerenti alla possibilità di effettuare lo spostamento di una linea telefonica.
Tale spostamento è stato invece disposto nel caso concreto senza tenere neppure conto dell’aumento dei costi e dell’intralcio che ne sarebbero derivati alla gestione e alla efficienza del servizio, con una motivazione del tutto insufficiente in ordine alla ritenuta inapplicabilità nel caso concreto delle limitazioni stabilite dagli artt. 2058 e 2933 cod. civ. in relazione al pregiudizio conseguente alla necessaria sospensione del servizio telefonico per tutto il tempo occorrente per la ricostruzione della relativa rete.
Il primo mezzo è infondato.
Al riguardo va preliminarmente ricordato che i limiti della giurisdizione del giudice ordinario rispetto agli atti comunque riferibili alla pubblica amministrazione – come queste Sezioni Unite hanno già avuto occasione di precisare in relazione ai vincoli, ai limiti e alle forme che tipicizzano e disciplinano sul piano sostanziale e formale attraverso il procedimento amministrativo secondo i canoni dell’imparzialità e dell’articolazione interna della attività amministrativa, enunciati nello art. 97 della Costituzione, l’esercizio dei poteri attribuiti alla pubblica amministrazione – devono intendersi posti a garanzia della funzione amministrativa: e non operano quindi rispetto ai meri comportamenti materiali dell’amministrazione, ma solo rispetto ad atti costituenti esercizio di attività amministrativa ovvero ad atti esecutivi di questi ultimi.
I suddetti limiti non trovano pertanto applicazione nelle controversie concernenti la tutela del diritto di proprietà o di altro diritto reale, compressi di fatto, sia pure fini pubblicistici, al comportamento materiale della pubblica amministrazione, che non risulti sorretto dall’intervento di provvedimenti ablatori o non costituisca attuazione di un formale provvedimento amministrativo (v. Sent. 24 marzo 1976 n. 1027; 4 maggio 1976 n. 1578; 21 aprile 1977 n. 1463; 17 ottobre 1977 n. 4423; 12 gennaio 1978 n. 118; 19 maggio 1982 n. 3081; 25 novembre 1982 n. 6363).
Appunto in applicazione di tali principi è stato, in particolare, già affermato da queste Sezioni Unite che la proponibilità, davanti al giudice ordinario, della domanda del privato contro la Società concessionaria del servizio telefonico, per la rimozione di una linea telefonica appoggiata alla proprietà privata senza alcun provvedimento autoritativo impositivo di servitù, non può trovare ostacolo, ai sensi dell’art. 4 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, all. E, nella sola circostanza che la utilizzazione di detto bene sia stata effettuata dalla concessionaria medesima per il perseguimento delle finalità pubbliche ad essa demandate, atteso che il divieto per il giudice ordinario di condannare l’amministrazione ad un “facere”, sancito della citata norma, non opera riguardo al comportamento materiale dell’amministrazione stessa ancorché indirizzato a scopi pubblici, ove (1) non risulti che questo si ricolleghi ad una valutazione autoritativa, compiuta nella competente sede amministrativa, circa la indispensabilità del sacrificio imposto al privato rispetto al fine pubblico perseguito (v. sent. 26 gennaio 1978 n. 355; 22 ottobre 1980 n. 5679).
Nella specie non può quindi dubitarsi che l’esperita azione attinente alla tutela di una posizione di diritto soggettivo che non è stato affievolito dai prescritti provvedimenti ablatori che avrebbero dovuto essere adottati – in base alle speciali disposizioni vigenti in materia – per abilitare la S.I.P. a costituire la servitù, per cui si controverte, a carico delle proprietà private, nel concreto esercizio dei poteri alla stessa delegati quale concessionaria del servizio telefonico.
I giudici di appello hanno infatti accertato che la installazione degli impianti telefonici sui terreni degli attori venne effettuata dalla S.I.P. senza la preventiva approvazione dei prescritti piani esecutivi, a cui avrebbe dovuto essere subordinata l’esecuzione dell’impianto a norma delle disposizioni contenute nell’art. 185 del d.p.r. 29 marzo 1973 n. 156 e nelle Convenzioni intercorse tra il Ministero delle Poste e la S.I.P., approvate rispettivamente con d.p.r. n. 1594 del 26 ottobre 1964 e n. 427 del 6 marzo 1968: approvazione che non è mai intervenuta, non potendo considerarsi tale il piano tecnico dell’agosto del 1973, approvato con d.m. del 18 novembre 1974 posteriormente alla realizzazione dell’opera, per la decisiva e assorbente considerazione che esso costituì, non già un piano esecutivo, ma un semplice progetto di massima (inidoneo come tale a condurre al concreto affievolimento del diritto di proprietà) non contenendo esso la indicazione dei fondi sui quali le opere avrebbero dovuto essere eseguite.
Ed invero, mentre negli artt. 14 e 19 del testo unificato delle convenzioni intercorse tra il Ministero delle poste e delle telecomunicazioni e la S.I.P. (approvate rispettivamente con i decreti del P.R. n. 1594 del 26 ottobre 1964 e n. 427 del 6 marzo 1968) è espressamente previsto: che “i lavori necessari per dare esecuzione ai piani di massima”, predisposti e comunicati dalla S.I.P. all’Amministrazione per le opportune osservazioni”, saranno di volta in volta autorizzati secondo piani esecutivi” da sottoporre all’approvazione dell’Amministrazione, che “le domande per dichiarazioni di pubblica utilità delle opere e degli impianti della Società debbono essere rivolte al Ministero delle poste e delle telecomunicazioni”, e che “in base ai progetti esecutivi approvati … la Società promuoverà l’espropriazione dei terreni e fabbricati e la costituzione dei diritti reali necessari per lo svolgimento dei servizi concessi, provvedendo al pagamento delle relative indennità”; gli artt. 185, 231, 233 e 234 del T.U. delle disposizioni legislative in materia postale e di telecomunicazioni, approvato con d.P.R. 29 marzo 1973 n. 156, dispongono tra l’altro: che gli impianti di telecomunicazione non possono essere eseguiti se i relativi progetti non siano stati preventivamente approvati dall’Amministrazione, che la loro approvazione importa dichiarazione di pubblica utilità, ed infine che per l’acquisizione dei beni immobili e per la costituzione delle servitù occorrenti per la realizzazione degli impianti di telecomunicazione e delle relative opere accessorie, necessarie alla loro funzionalità, in mancanza del consenso dei proprietari dei fondi, può esperirsi la procedura di esproprio prevista dalla legge 25 giugno 1865 n. 2359 e successive modificazioni.
Da qui la conseguenza che, nella fattispecie in esame, la giurisdizione del giudice ordinario non può essere negata né in relazione ai suoi limiti esterni, connessi alla particolare consistenza di diritto soggettivo che – in difetto di provvedimenti ablatori – deve essere riconosciuta alla causa petendi della pretesa dedotta in giudizio, né in relazione ai suoi limiti interni, che fanno divieto al giudice ordinario di emettere pronunce di condanna ad un facere al cospetto di attività amministrative da salvaguardare, direttamente o indirettamente riferibili alla pubblica amministrazione, rendendo improponibili le relative domande: trattandosi appunto della tutela di posizioni di diritto soggettivo, compresse di fatto da un comportamento materiale tenuto dalla S.I.P. che – non risultando sorretto né direttamente né indirettamente dall’intervento neppure implicito di provvedimenti autoritativi riferibili al concreto esercizio della sua attività di concessionaria secondo le norme che sono state innanzi richiamate – non è suscettibile come tale di essere ricondotto nell’ambito dell’attività dalla stessa prestata per conto e quale longa manus della amministrazione concedente.
Del tutto inconsistente risulta, infine, anche il denunciato difetto di motivazione in cui sarebbe incorsi i giudici di appello nel ritenere inapplicabili, nel caso concreto, le limitazioni stabilite rispettivamente dagli artt. 2058 e 2933 del codice civile alle esecuzione in forma specifica.
Tali limitazioni, infatti, da un lato non trovano applicazione – per quanto attiene alla possibilità prevista dal 2° comma dell’art. 2058 cod. civ. di ordinare il risarcimento per equivalente anziché la reintegrazione in forma specifica ove questa risulti eccessivamente onerosa per il debitore – nelle azioni intese a fare valere un diritto reale (v. sent. 26 ottobre 1961 n. 2412; 23 febbraio 1963 n. 448; 24 luglio 1964 n. 2003; 6 luglio 1966 n. 1766; 15 settembre 1970 n. 1489; 18 dicembre 1970 n. 2720; 29 gennaio 1973 n. 279; 3 giugno 1974 n. 1594; 9 maggio 1977 n. 1795; 1 giugno 1977 n. 2224; 20 settembre 1984 n. 4612)); e sono, dall’altro, condizionate – per quanto riguarda il divieto previsto dal 2° comma dell’art. 2933 di ordinare la distruzione della casa con attribuzione allo avente diritto del solo risarcimento dei danni se la distruzione della cassa risulti di pregiudizio all’economia nazionale – alla sussistenza e alla connessa dimostrazione (che nella specie non risulti essere stata offerta dall’attuale ricorrente, su cui gravava il relativo onere probatorio, e di cui non è stato comunque denunciato l’omesso esame) di un effettivo pregiudizio al sistema produttivo e di distribuzione della ricchezza, incidente sull’economia nazionale (V. sent. 23 febbraio 1963 n. 448; 23 novembre 1963 n. 3009; 10 novembre 1979 n. 5873; 16 aprile 1982 n. 2324; 30 gennaio 1985 n. 562).
Può quindi procedersi all’esame del secondo mezzo, con cui si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1032 cod. civ.
per avere i giudici del merito escluso di potere accogliere la domanda di costituzione coattiva della servitù che era stata proposta, in via riconvenzionale, dalla attuale ricorrente, ai sensi della citata norma.
Anche il secondo mezzo è infondato in quanto le norme relative alle servitù coattive, dirette a soddisfare le esigenze dell’industria e dell’agricoltura ed i bisogni della vita, hanno carattere di norme di diritto singolare e non sono, pertanto, suscettibili di applicazione analogica (V. Sent. 19 aprile 1962 n. 773) in guisa da rendere possibile la costituzione di servitù coattive al di fuori dei casi tipici espressamente previsti dal citato art. 1032.
Il corso deve pertanto essere rigettato con la condanna della S.I.P. alle spese del giudizio di cassazione – nella misura indicata nel dispositivo – e ai relativi onorari che si liquidano in un milione di lire a favore di ognuno dei resistenti costituiti.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione Sezioni Unite Civili rigetta il ricorso e condanna la S.I.P. alle spese – che si liquidano in lire 22.460 a favore di Michele Cardo e in lire 17.110 a favore di Silvio Pellegrino – nonché al pagamento di un milione di lire ciascuno dei due resistenti costituiti, a titolo di onorari.
Così deciso in Roma, il 21 febbraio 1985
(1) ove
Si approva la postilla che precede
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 16 GENNAIO 1986