Con separati ricorsi alla Corte di appello di Firenze dell’11 giugno 2007, i Signori L. e G.S. chiesero che il Ministero della Giustizia fosse condannato a corrispondere l’equa riparazione prevista dalla L. n. 89 del 2001, per la violazione dell’art. 6, sul "Diritto ad un processo equo", della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la L. 4 agosto 1955, n. 848.
Con decreto del 18 ottobre 2007, la Corte di appello riunì i ricorsi; accertò che il giudizio presupposto, cominciato davanti al tribunale di Perugia con citazione notificata il 3 marzo 1992, era stato deciso in primo grado con sentenza 5 agosto 2003 n. 1196, e definite poi nel grado di appello, introdotto con atto notificato nel luglio 2004, con sentenza 5 ottobre 2006 anni 11, mesi 5 + anni 2, mesi 3: tot.: a. 13, m. 8; determinò in otto anni – in ragione della complessità del giudizio, motivata con la pluralità delle parti, la proposizione di una riconvenzionale, le ripetute richieste di provvedimenti d’urgenza in corso di causa, l’assunzione di vari testimoni e di laboriose indagini peritali – la durata ragionevole del processo nei due gradi di giudizio, e in quattro anni il ritardo imputabile a rinvii chiesti o consentiti dalla parte istante, e condannò l’Amministrazione convenuta a pagare a ciascuno dei ricorrenti la somma di Euro 2.500,00, quale riparazione del danno non patrimoniale.
Avverso questo decreto, non notificato, i Signori G. hanno proposto ricorso per Cassazione notificato il 7 maggio 2008, fondato su quattro motivi. L’amministrazione resiste con ricorso notificato in data 11 giugno 2008.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si denuncia una violazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 e dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, commessa nella determinazione dell’irragionevole protrazione della durata del giudizio. Si formulano tre quesiti di diritto. Con il primo si chiede se sia legittimo affermare la complessità del giudizio presupposto sulla base della pluralità delle parti, senza considerare se ad essa corrispondesse una pluralità di posizioni soggettive; con il secondo se sia legittimo detrarre dalla durata complessiva del giudizio quella intercorrente tra il deposito della sentenza di primo grado e la notifica dell’appello; e con il terzo se sia legittimo detrarre dalla durata eccessiva imputabile all’amministrazione i tempi impiegati per i rinvii imputati alle parti.
Con il secondo motivo la questione, oggetto già del secondo quesito del primo motivo, è riproposta sotto il profilo del vizio di motivazione.
Con il terzo motivo si torna alla denuncia di violazione dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e della L. n. 89 del 2001, art. 2, nonchè dell’art. 81 disp. att. c.p.c., nella statuizione concernente il computo dei rinvii. Il giudice di merito non avrebbe tenuto conto del fatto che nel disporre i rinvii non era stata osservata la norma che impone il limite massimo di quindici giorni. Si pone il quesito se, ai fini del superamento del termine ragionevole di durata della causa, non si debba tener conto del lasso di tempo dei rinvii disposti in violazione del citato art. 81 disp. att. c.p.c..
I motivi possono essere esaminati congiuntamente.
Dei quesiti formulati in relazione al primo mezzo di ricorso, il primo è inammissibile. Avendo il giudice di merito accertato la complessità della causa sulla base di una serie di elementi, valutati nel loro insieme, il quesito vertente sulla motivazione di uno di tali elementi non involge alcuna questione di violazione di norme sostanziali, ma soltanto un eventuale vizio di motivazione che andava censurato nel modo appropriato.
Quanto al secondo quesito formulato in relazione al primo motivo, occorre premettere che si tratta di questione di puro diritto, in relazione alla quale non può farsi questione di motivazione, sicchè il secondo motivo, collegato, è inammissibile. Al quesito di diritto, invece, deve darsi risposta negativa. La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali garantisce all’art. 6, par. 1 ad ogni persona il diritto che la sua causa sia definita in un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge. Si tratta di diritto soggettivo perfetto nei confronti dello Stato, che presuppone necessariamente l’instaurazione del rapporto processuale tra le parti del processo e il giudice. Soltanto laddove la domanda sia stata sottoposta agli organi giurisdizionali dello Stato, infatti, sorge il dovere di questi di darvi soddisfazione entro un termine ragionevole. Ne deriva che la durata del processo postula la sua pendenza davanti ad un organo della giurisdizione, e che non può tenersi conto dei periodi nei quali la controversia civile sia sottratta all’esame e alla decisione del giudice, carne avviene allorchè, essendosi il giudice già pronunciato, con provvedimento definitivo e idoneo alla formazione del giudicato, ancorchè impugnabile, alle parti sia lasciato dalla legge uno spatium deliberandi in ordine all’eventuale impugnazione, mentre solo in conseguenza del concreto esercizio dell’azione – in questo caso in via d’impugnazione del provvedimento già emesso -si ripropone l’esigenza di una risposta degli organi della giurisdizione in un tempo ragionevole. Qualora invece la parte, non abbia ragione (nè titolo) per impugnare la sentenza perchè vittoriosa in primo grado, non può addebitarsi all’amministrazione della giustizia il tempo trascorso tra comunicazione del deposito della sentenza e la notifica dell’atto d’impugnazione a richiesta dell’altra parte; tempo durante il quale non vi è incertezza sull’esito della causa, già decisa, ma solo sulle intenzioni della parte soccombente, alla quale incertezza la parte interessata può porre rimedio notificando la sentenza e facendo decorrere il termine breve per l’impugnazione (nel senso che la parte vittoriosa, laddove non eserciti la facoltà di notificare la sentenza a sè favorevole a fini sollecitatori, lasciando decorrere tutto il termine lungo per la proposizione dell’impugnazione, non può pretendere che l’intero termine decorso venga addebitato all’organizzazione giudiziaria, dovendo il lasso temporale trascorso per detta scelta processuale essere riferito alla stessa parte, cfr. Cass. 7 marzo 2007 n. 5212).
Il terzo quesito è fondato.
Occorre premettere che, secondo la costante giurisprudenza di questa corte, la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo non discende, come conseguenza automatica, dall’essere stati disposti rinvii della causa di durata eccedente i quindici giorni, ma dal superamento della durata processuale ragionevole in termini complessivi, in rapporto ai parametri, di ordine generale, fissati dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 (Cass. 15 novembre 2006 n. 24356; 1 marzo 2005 n. 4298; 5 marzo 2004 n. 4512; 3 settembre 2003 n. 12808;
1 agosto 2003 n. 11712). Al tempo stesso, tuttavia, questa corte ha già avuto occasione di affermare il principio che, ai fini dell’accertamento della violazione o meno della ragionevole durata di un processo civile, i rinvii eccedenti il termine ordinatorio di cui all’art. 81 disp. att. cod. proc. civ., se non implicano come conseguenza automatica la sussistenza di detta violazione – la quale, come già s’è detto, non discende da ogni disfunzione o inefficienza organizzativa degli uffici giudiziari, postulando che le stesse abbiano provocato il superamento della ragionevole durata della causa – sono tuttavia influenti e computabili quando abbiano prodotto o concorso a produrre quel superamento, così traducendo le indicate manchevolezze in fatti lesivi del diritto accordato dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cass. 2 marzo 2005 n. 4450). Conseguentemente, ove i tempi di durata media, quali indicati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, siano stati superati (ciò che, nel caso in esame, il giudice di merito ha già accertato), il rinvio della causa per un tempo superiore al termine di quindici giorni previsto dall’art. 81 disp. att. c.p.c. – che, pure, ha carattere ordinatorio, e non perentorio – va addebitato a disfunzioni dell’apparato giudiziario salvo che ricorrano particolari circostanze, che spetta alla P.A. evidenziare, riconducibili alla fisiologia del processo, che lo giustifichino (Cass. 23 agosto 2005 n. 17110).
A questa regola non si è attenuta la corte territoriale, che, avendo accertato un consistente superamento della durata, ragionevole del processo, pur determinato in una misura ben superiore a quella media in ragione della sua complessità, ha poi addebitato alla parte anche quattro anni di ritardo nella definizione della causa, motivando la decisione con l’argomento che la sua difesa aveva chiesto dei rinvii o, comunque, non si era opposta a quelli richiesti dalla controparte, senza alcuna indagine sull’ imputabilità della lunghezza dei rinvii – quelli indicati nel ricorso, richiesti dai ricorrenti nel giudizio presupposto, coprono più di tre anni – a disfunzioni dell’apparato giudiziario.
In accoglimento del principio di diritto ricordato, il decreto deve essere cassato, rimanendo così assorbito l’esame dell’ultimo motivo, vertente sulla statuizione accessoria della liquidazione delle spese processuali. La causa inoltre può essere decisa anche nel merito, rimanendo ferma la determinazione della durata ragionevole di complessivi otto anni del giudizio presupposto, secondo l’accertamento non adeguatamente censurato della corte d’appello, e non richiedendosi a tal fine ulteriori indagini in fatto, con la liquidazione a favore di ciascuna delle parti, a titolo di equa riparazione per cinque anni e otto mesi d’irragionevole durata del processo presupposto, di Euro 4.850,00, oltre agli interessi legali dalla domanda.
Va condannata inoltre l’amministrazione al pagamento delle spese del giudizio davanti alla corte d’appello, liquidate in Euro 928,00 (di cui Euro 500,00 per onorari e Euro 378,00 per diritti) per ciascuno dei ricorrenti; e del giudizio di legittimità, liquidate in 1.100,00, di cui Euro 1.000,00 per onorari; oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato in relazione alla censura accolta e condanna l’amministrazione al pagamento, in favore di ciascuna delle parti, di Euro 4.850,00, oltre agli interessi legali dalla domanda; la condanna altresì al pagamento delle spese del giudizio davanti alla corte d’appello, liquidate in Euro 928,00 (di cui Euro 500,00 per onorari e Euro 378,00 per diritti) per ciascuno dei ricorrenti; e del giudizio di legittimità, liquidate in 1.100,00, di cui Euro 1.000,00 per onorari; oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima della Corte Suprema di Cassazione, il 23 marzo 2010.
Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2010