C.P. adiva la Corte d’appello di Perugia chiedendo la condanna del Ministro della Giustizia al pagamento di una somma per l’equa riparazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali causati dalla durata irragionevole di un giudizio penale che lo aveva visto l’imputato.
Si costituiva in giudizio il Ministero della Giustizia eccependo l’improponibilità e l’inammissibilità del ricorso, in via subordinata chiedendone il rigetto per infondatezza nel merito ed in ulteriore subordine chiedendo che il preteso danno fosse determinato in via equitativa nei limiti di legge.
Con decreto del 12 dicembre 2003 la Corte d’appello di Perugia, ritenendo che si fosse verificata la decadenza dall’azione, rigettava la domanda.
Contro il decreto della Corte d’appello di Perugia ha proposto ricorso il C. sulla base di due motivi. La parte intimata non ha svolto difese.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto violazione o falsa applicazione di norme di (diritto, ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, con particolare riferimento alla L. 24 marzo 1981, n. 89, art. 4 ed agli artt. 408 e 414 c.p.p., in quanto la Corte d’appello di Perugia, affermando che il decreto penale di archiviazione deve essere considerato una decisione che acquista definitività allo stato degli atti (pur essendo suscettibile di revoca ai sensi dell’art. 414 c.p.p.), non ha considerato che detto decreto, proprio in quanto relativamente ad esso la riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p. è ammissibile senza limiti di tempo, non acquista efficacia di giudicato e non può essere inquadrato tra i provvedimenti definitivi di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 4.
Il motivo è infondato. Come ripetutamente affermato da questa Corte, infatti, la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4, nello stabilire che la domanda di equa riparazione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi del "momento in cui la decisione … è divenuta definitiva", fa specifico riferimento alla decisione che conclude il procedimento e, cioè, a quella finale che, come tale, è in linea di principio immutabile non appena viene ad esistenza, non essendo ulteriormente impugnabile (salvo che in alcune ipotesi tassativamente previste). Ne consegue che quando la decisione sia emanata a conclusione non dell’intero procedimento, ma di una fase processuale intermedia, essa diviene "definitiva", nel senso voluto dalla disposizione, solo dopo la scadenza dei termini previsti per la sua impugnazione, e quindi il procedimento deve considerarsi pendente fino a quando la decisione è impugnabile, con la conseguenza che la domanda di equa riparazione resta proponibile non entro sei mesi dal momento in cui la decisione è stata pronunziata, ma senza limitazione di ordine temporale (cfr. Cass. 3 settembre 2004, n. 17818).
Nella specie è ben vero che relativamente al decreto di archiviazione pronunciato ai sensi dell’art. 414 c.p.p. è possibile la riapertura delle indagini senza limiti di tempo; ma ciò non toglie che tale provvedimento – proprio in quanto riguardo ad esso non è prevista una fase successiva collegata alla proposizione di mezzi di impugnazione da esperire entro un determinato termine – debba considerarsi conclusivo del procedimento e quindi, in questo senso, debba considerarsi definitivo. Consegue da quanto sopra che il ricorso deve essere rigettato.
Non vi è luogo a pronunciare sulle spese atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2006.
Depositato in Cancelleria il 18 maggio 2006