Il sig. P.F., premesso che nel 1991 egli era stato iscritto nel registro degli indagati della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano e che solo il 23 maggio 2002 era stato poi assolto dal tribunale per intervenuta prescrizione del reato di ricettazione a lui imputato, si è rivolto alla Corte d’appello di Brescia chiedendo l’attribuzione di un equo indennizzo per l’eccessiva durata di tale processo.
La Corte Bresciana, con decreto depositato in Cancelleria il 16 aprile 2003, ha rigettato il ricorso ritenendo che non fosse stata data prova alcuna dei danni lamentati dal sig. P. in conseguenza dell’eccessiva durata del giudizio penale sopra riferito e che, comunque, nessun patema d’animo il ricorrente poteva aver sofferto, giacchè egli aveva appreso della propria imputazione solo all’atto della notifica del decreto di citazione a giudizio del 27 gennaio 1997, la cui semplice lettura, tenuto conto della data fissata per il dibattimento, rendeva evidente che il processo si sarebbe concluso con la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.
Avverso tale decreto il sig. P. propone ricorso per Cassazione lamentando la violazione della L. n. 89 del 2001, artt. 3, 4 e 5, nonchè dell’ art. 6, par. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Nessuna difesa ha svolto in questa sede l’amministrazione della giustizia.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso non merita accoglimento.
La Corte d’appello, come s’è già accennato, ha fondato la propria decisione su due argomentazioni: la prima, di ordine più generale, in base alla quale il ricorrente non avrebbe assolto l’onere della prova del danno (sia patrimoniale sia non patrimoniale) che a lui incombeva; la seconda, più specifica, per la quale le circostanze concrete della vicenda in esame consentirebbero di escludere che il medesimo ricorrente, dal momento in cui era venuto a conoscenza del procedimento penale a suo carico, potesse nutrire incertezza circa l’esito per lui favorevole di detto procedimento ed avesse quindi sofferto di un qualche effettivo patema d’animo, tale da implicare l’esistenza di un danno non patrimoniale.
Ora il ricorrente censura la prima delle due riferite argomentazioni della Corte d’appello, richiamandosi ai principi espressi dalle sezioni unite di questa Corte nella sentenza 26 gennaio 2004, n. 1338. In tale pronuncia (ed in altre ad essa conformi) si è infatti affermato che il danno non patrimoniale è da ritener» conseguenza normale, ancorchè non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo: sicchè, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa – ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione – il Giudice, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente.
Ma, proprio in applicazione di tale principio, se per un verso si rende necessario correggere la motivazione del provvedimento emesso dalla Corte bresciana con riguardo alla prima delle due argomentazioni sopra riferite (ossia quella concernente in via generale il regime dell’onere della prova del danno nei giudizi di equa riparazione), per altro verso appare evidente come le conclusioni cui detta Corte è pervenuta sono destinate a restare ferme in relazione alla seconda di quelle argomentazioni.
In altre parole, contrariamente a quel che il ricorrente sembra ritenere, non v’è un automatismo necessario tra l’accertata violazione del diritto alla ragionevole durata del giudizio e l’esistenza di un danno non patrimoniale indennizzabile in favore della parte. Esiste, certo, una presunzione in tal senso, ma siffatta presunzione è destinata a cadere ogni qual volta le circostanze specifiche del caso concreto persuadano il Giudice dell’equa riparazione che nessuna sofferenza psichica o comunque nessun pregiudizio di alcun genere è in effetti derivato dall’eccessiva durata del processo di cui si discute.
Nel caso in esame, come s’è detto, un simile accertamento è stato appunto svolto dalla Corte d’appello, la quale ha affermato: che il sig. P. aveva appreso della propria imputazione unicamente all’atto della notifica del decreto di citazione a giudizio, il 27 gennaio 1997, giacchè in precedenza egli era stato chiamato a deporre solo in relazione ad imputazioni ad altri rivolte e quindi non tali da poter generare per lui preoccupazioni personali; che nel decreto di citazione a giudizio era rissata per il dibattimento una data così lontana da implicare che necessariamente il reato si sarebbe estinto prima per prescrizione; che, pertanto, neppure nel periodo di tempo successivo alla notifica di quel decreto di citazione il ricorrente aveva avuto una reale incertezza sull’esito per lui favorevole della vicenda giudiziaria, onde nessun patema d’animo o sofferenza psichica egli poteva aver sofferto.
Alla luce dei principi giuridici sopra richiamati, tali argomentazioni – in ordine alle quali il ricorrente nulla specificamente osserva, neppure eventualmente censurandole sotto il profilo della sufficienza e della logicità della motivazione in punto di fatto – sono certamente idonee, in diritto, a superare la presunzione di dannosità derivante dall’eccesso di durata del giudizio e, pertanto, a determinare il rigetto della domanda di equa riparazione pronunciata dal Giudice di merito.
Al rigetto del ricorso non deve far seguito alcun provvedimento in ordine alle spese del giudizio di legittimità, nel quale l’amministrazione intimata non ha svolto difese.
 
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso, in Roma il 27 giugno 2006.
Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2006