R.F., in proprio e quale procuratore speciale di R.A., R.M.L., V.B. e Ro.Al. adiva la Corte d’appello di Roma, allo scopo di ottenere l’equa riparazione ex L. n. 89 del 2001, in riferimento al giudizio proposto innanzi al Tribunale di Napoli nell’aprile del 1993 e definito, in secondo grado, con sentenza della Corte d’appello di detta città del 17.10.2003, avente ad oggetto l’occupazione illegittima di un suolo da parte del Comune di Crispano.
La Corte d’appello, con decreto del 2 marzo 2005, fissato il termine di durata ragionevole del giudizio presupposto, svoltosi in due gradi di merito, in anni sette, essendo di "media complessità", liquidava a titolo di indennizzo per il danno non patrimoniale per il periodo di anni tre Euro 750,00 per anno, quindi complessivi Euro 2.500,00, per ciascun ricorrente, con il favore delle spese.
Per la cassazione di questo decreto hanno proposto ricorso R.F., in proprio e quale procuratore speciale di R.A., R.M.L., V.B. e Ro.Al., affidato a due motivi, illustrati con memoria; ha resistito con controricorso il Ministero della giustizia.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- I ricorrenti, con il primo motivo, denunciano violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, nonchè difetto di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), e, richiamando numerose sentenze di questa Corte, pongono le seguenti questioni:
il giudice nazionale è tenuto ad osservare i parametri elaborati dalla Corte EDU in materia di equa riparazione da irragionevole ritardo, la cui inosservanza integra il vizio di violazione di legge;
la durata ragionevole va fissata nell’osservanza del parametro stabilito dal giudice Europeo e la Corte distrettuale, con motivazione insufficiente ed incongrua, in violazione di detto parametro, avrebbe stabilito una durata per due gradi di sette anni, senza considerare che la causa era documentale e addirittura avrebbe dovuto e potuto essere decisa in due anni.
Nella memoria, i ricorrenti reiterano dette argomentazioni, anche in ordine alla possibilità di fissare il termine di ragionevole durata in due anni.
Al riguardo, richiamando la "superiorità" della CEDU sulle norme nazionali ordinarie, prospettano l’eventualità della rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale relativa alla disciplina di detto profilo, in riferimento all’art. 117 Cost., comma 1.
Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, commi 1 e 3, e dell’art. 13 CEDU, nonchè difetto di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5) e pone la seguente questione:
ai fini della liquidazione dell’indennizzo occorre tenere conto del parametro stabilito dalla Corte EDU (Euro 1.000,00/1.500,00 per anno, è richiamata una sentenza della Corte EDU), come stabilito dalle S.U. (sentenza n. 1340 del 2004) e la cui violazione integra il vizio di violazione di legge;
nella specie, la Corte territoriale si sarebbe immotivatamente discostata da detto parametro, senza tenere conto che il ritardo nella definizione del giudizio ha comportato che i ricorrenti avrebbero subito l’effetto negativo conseguente dall’introduzione dei nuovi criteri di calcolo del risarcimento del danno da illegittima occupazione abusiva stabiliti dalla L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 65, che avrebbe comportato una riduzione del risarcimento del 45%, non tenendo conto della documentazione sanitaria in atti;
la liquidazione dell’indennizzo per il danno non patrimoniale in Euro 750,00 per anno di ritardo avrebbe reso il rimedio privo del carattere di effettività richiesto dall’art. 13, della CEDU. Nella memoria, i ricorrenti hanno reiterato dette argomentazioni, eccependo inoltre che la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), nella parte in cui stabilisce che, al fine dell’equa riparazione, rileva soltanto il danno riferibile al periodo eccedente al termine di ragionevole durata, violerebbe l’art. 117 Cost., comma 1, in quanto si porrebbe in contrasto con gli artt. 13 e 41 CEDU, tenuto conto dell’efficacia di queste ultime norme, quale affermata dalla Corte costituzionale (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007).
2.- I due motivi, da esaminare congiuntamente, perchè giuridicamente e logicamente connessi, sono manifestamente fondati entro i termini e nei limiti di seguito precisati.
2.1.- In linea preliminare, va ribadito il principio enunciato dalle S.U., in virtù del quale il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla L. n. 89 del 2001, deve interpretare detta legge in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte Europea. Siffatto dovere opera, entro i limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa legge n. 89 del 2001 (sentenza n. 1338 del 2004), come di recente affermato anche dalla Corte costituzionale, salvo che singole norme della stessa si pongano in contrasto con le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, potendo in questa ipotesi porsi una questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 117 Cost., comma 1, (Corte cost. n. 348 e n. 349 del 2007).
2.2.- Relativamente alla durata ragionevole (oggetto del primo motivo di ricorso), vanno ribaditi i seguenti principi, consolidati nella giurisprudenza di questa Corte:
la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, dispone che la ragionevole durata di un processo va verificata in concreto, facendo applicazione dei criteri stabiliti da detta norma (ex plurimis, a partire da S.U. n. 1339 e n. 1340 del 2004; Cass. n. 30571, n. 30565 e n. 8497 del 2008; n. 25008 del 2005), i quali permettono di evitare che il valore della giustizia celere si trasformi in giustizia affrettata e sommaria ed impongono di avere riguardo ad elementi che non possono essere quelli della astratta aspirazione della parte soprattutto qualora si pongano del tutto al di fuori della ordinaria ponderazione e valutazione richieste da ogni processo, che pretende di fissare una durata di due anni per due gradi;
in tal senso è orientata anche la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo alla quale occorre avere riguardo (tra le molte, sentenza 1^ sezione del 23 ottobre 2003, sul ricorso n. 39758/98), che ha stabilito un parametro tendenziale di durata ragionevole del giudizio, rispettivamente, di anni tre, due ed uno per il giudizio di primo, di secondo grado e di legittimità per alcune pronunce del giudice Europeo, che solo attraverso un esame "combinatoo di quelle di accoglimento e di rigetto rendono possibile identificare detto tendenziale parametro – non avendone la ricorrente indicata nessuna – cfr., le sentenze 6 dicembre 2001, Gemignani, sul ricorso n. 47772/99, e 7 novembre 2000, Piccolo, sul ricorso n. 45891/99 (che hanno escluso la violazione in relazione ad un giudizio civile durato, in un grado, 3 anni e 7 mesi); la sentenza 28 febbraio 2002, Palmieri, sul ricorso n. 51022/99 (che ha giudicato non ragionevole la durata, per un grado, di quattro anni); cfr. anche la sentenza 1 marzo 2001, Vaccarisi, sul ricorso n. 46977/99 (che ha ritenuto la violazione in un caso in cui un grado di giudizio si era protratto per 4 anni e tre mesi); sentenza 28 febbraio 2002, Zullo sul ricorso n. 52836/99 (che ha ritenuto irragionevole la durata di 8 anni e cinque mesi per due gradi); cfr., anche la sentenza 12 ottobre 1992, Salerno c. Italia;
è, dunque, detto parametro che il giudice nazionale è tenuto ad osservare, con la conseguenza che un onere di motivazione specifica si impone soltanto quando egli si discosti da esso (Cass. S.U. n. 1338 del 2004; in seguito, e per tutte, Cass. n. 30565 del 2008), purchè in misura ragionevole, sempre che la relativa conclusione sia confortata con argomentazioni complete, logicamente coerenti e congrue, restando comunque escluso che i criteri indicati nell’art. 2, comma 1, di detta legge permettano di sterilizzare del tutto la rilevanza del lungo protrarsi del processo (Cass. S.U. n. 1338 del 2004; successivamente, cfr. le sentenze sopra richiamate).
2.2.1.- In applicazione di detti principi le censure sono manifestamente fondate nella parte in cui, in relazione ad un giudizio svoltosi nei due gradi di merito, il decreto ha stabilito la durata del giudizio in sette anni, in luogo dei cinque risultanti dal parametro della Corte EDU, senza motivare adeguatamente e con argomentazioni incongrue, limitandosi ad indicare che il giudizio era di "media complessità", così "come si evince dall’esame degli atti del giudizio e dalle articolate motivazioni delle sentenze del Tribunale e della Corte d’appello di Napolii.
La considerazione che il giudizio era di "media complessità" è, infatti, inidonea ad evidenziare ragioni che avrebbero permesso di disattendere il parametro del giudice Europeo. Anzi, proprio detta considerazione comportava, logicamente, la necessità di fissare il termine in esame, in applicazione di siffatta valutazione in anni cinque, che è la conclusione che va qui affermata, per quanto precisato infra, in sede di decisione di merito (tre anni per il primo grado, due anni per il secondo grado), con la conseguenza che lo stesso va ritenuto violato per anni cinque e mesi sei).
Le censure sono, invece, manifestamente infondate nella parte in cui i ricorrenti, da un canto, reiteratamente insistono sul carattere vincolante del parametro della Corte EDU, per poi pretendere di discostarsene; dall’altro, affermando che in ogni grado il processo avrebbe dovuto essere definito in un solo anno, con argomenti sostanzialmente espressivi di una loro aspirazione personale, svolta senza considerare l’oggetto e la natura della controversia (risarcimento danni da occupazione illegittima), notoriamente tali da rendere ragionevole anche per esso il parametro della Corte EDU, L’eccezione di illegittimità costituzionale del citato art. 2, sollevata in riferimento all’art. 117 Cost., comma 1, è dunque manifestamente infondata: in primo luogo, in quanto nella specie l’interpretazione che va data comporta una puntuale osservanza dell’interpretazione e del parametro stabilito dal giudice Europeo; in secondo luogo, in quanto la stessa Corte di Strasburgo costantemente afferma che il termine di ragionevole durata va fissato avendo riguardo ad una serie di elementi sostanzialmente coincidenti con quelli fissati dalla norma nazionale (alle sentenze sopra aggiunte, adde, per tutte, la sentenza 21 luglio 2005, Amassoglou c. Grecia).
2.3.- In ordine alla misura dell’indennizzo, va osservato che il decreto da atto che i ricorrenti hanno chiesto l’indennizzo esclusivamente per il danno non patrimoniale. Le parti, nel ricorso, precisano di avere chiesto, con l’atto introduttivo della fase di merito, l’indennizzo per il "danno di natura non patrimonialee (pg. 4 del ricorso) e con il secondo motivo, nella rubrica, si dolgono della "insufficiente liquidazione del danno non patrimonialee ed è in ordine a questa che svolgono argomenti, senza indicare che avevano chiesto anche l’indennizzo per il danno patrimoniale.
E’ dunque chiara l’inammissibilità della doglianza concernente la mancata considerazione del danno asseritamente subito a causa della modificazione normativa sopravvenuta nel corso del giudizio presupposto in ordine al criterio di liquidazione del risarcimento del danno da occupazione illegittima (pg. 18 del ricorso). Siffatto pregiudizio, in tesi, avrebbe potuto configurare un danno patrimoniale. Pertanto, indipendentemente dalla considerazione che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, detto danno neppure comprende quello, eventualmente, conseguente da una modifica normativa incidente sulla situazione giuridica oggetto del giudizio presupposto (Cass. n. 9909 del 2008), nella specie la novità della domanda e della questione conducono ad affermare la manifesta l’inammissibilità della censura in parte qua (in violazione del principio di autosufficienza, i ricorrenti non hanno indicato di avere chiesto il danno patrimoniale, in riferimento al citato, riproducendo l’atto in cui avrebbero avanzato la relativa istanza; anzi, come sopra precisato, hanno fatto riferimento nel ricorso alla proposizione della domanda per il solo danno non patrimoniale).
Relativamente all’indennizzo per il danno non patrimoniale (questione posta con il secondo motivo), in continuità il principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale i criteri di determinazione del quantum della riparazione del danno non patrimoniale applicati dalla Corte Europea non possono essere ignorati dal giudice nazionale, quindi occorre osservare il parametro oscillante da Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 per anno di ritardo, con la facoltà di apportare a questo le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda (quali: l’entità della "posta in gioco", il "numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento" ed il comportamento della parte istante), purchè motivate e non irragionevoli (per tutte, Cass. n. 30565, n. 30564 e n. 6898 del 2008, n. 1630 e n. 1631 del 2006).
Dando continuità agli orientamenti di questa Corte, risulta manifesta la fondatezza delle censure, in quanto il decreto ha liquidato l’indennizzo per il danno non patrimoniale in Euro 750,00 per anno di durata irragionevole, discostandosi dal parametro Europeo, senza esplicitare gli argomenti che ciò avrebbero consentito.
Contrariamente alla deduzione dei ricorrenti va, invece, ribadito che la precettività, per il giudice nazionale, del parametro concernente la misura dell’indennizzo per il danno non patrimoniale non concerne anche il profilo relativo al moltiplicatore di detta base di calcolo, poichè sul punto è vincolante la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), che impone di avere riguardo agli anni eccedenti il termine di ragionevole durata.
L’eccezione di illegittimità costituzionale della L. n. 89 del 2001, art. 2, in questa parte, sollevata in riferimento all’art. 117 Cost., comma 1, ed in relazione agli artt. 13 e 41 della CEDU è manifestamente infondata.
Al riguardo, va osservato che analoga eccezione è stata più volte vagliata da questa Corte e, sostanzialmente, proprio in riferimento alla coerenza del rimedio stabilito dalla legge n. 89 del 2001 con il principio di effettività (quindi con riguardo alle norme convenzionali evocate dai ricorrenti) e ritenuta manifestamente infondata (Cass. n. 980, n. 981, n. 982, n. 983,, n. 9909, n. 23844 e n. 24390 del 2008), senza che le parti abbiano adeguatamente considerato e contrastato le argomentazioni svolte per affermare la manifesta infondatezza.
Pertanto, ad ulteriore conforto di detta conclusione, va osservato che la Corte EDU ha affermato che la somma concessa nel caso di accertamento della violazione dipende dall’apprezzamento del giudice nazionale (sentenza 5 luglio 2007, ricorso n. 62157 c. Italia), sottolineando che esso può essere svolto anche in via equitativa. Lo stesso giudice Europeo ha indicato, infatti, di avere privilegiato un "approccio che ha reso necessaria la fissazione di parametri secondo principi di equità per i risarcimenti di danni non patrimonialii (sentenza della Grande Camera 29 marzo 2006, sul ricorso n. 64886/01 C. Italia), sostanzialmente non indicando mai gli elementi di similitudine tra i diversi casi trattati e gli elementi specifici e certi di valutazione.
L’osservanza della norma convenzionale, nell’interpretazione offertane dalla Corte Europea, proprio al fine di ritenere rispettato il principio di effettività, non può essere, dunque, verificata avendo riguardo al criterio formale di computo, e cioè al fatto che si faccia riferimento soltanto agli anni eccedenti la durata ragionevole, ovvero all’intera durata del giudizio. Siffatta valutazione impone, invece, di accertare, come pure questa Corte ha precisato, se questa diversità di calcolo incida negativamente sulla complessiva attitudine della citata L. n. 89 del 2001, ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, esito questo che va escluso (tra le tante, Cass. n. 30564, n. 11566 e n. 1354 del 2008; n. 23844 del 2007).
Dalla giurisprudenza della Corte EDU si evince, infatti, che questa censura il discostamento dal parametro minimo da essa fissato soltanto qualora sia manifestamente irragionevole (per tutte sentenza della Grande Camera 29 marzo 2006, sul ricorso n. 65102/01 v, Italia) e, in particolare (argomenta anche dalle sentenze della Grande Camera del 29 marzo 2006, Scordino n. 1, Apicella, Cocchiarella, Musei, Mustacciuolo 1 e 2, Procaccino, Riccardi Pizzato, Zullo), si desume che è reputato adeguato un indennizzo non inferiore al 45% di quello, di regola, ottenibile dal giudice Europeo, evidentemente avendo riguardo anche al parametro di Euro 1.000,00.
Ne consegue che la modalità di calcolo imposta dalla norma nazionale, una volta che risulti osservato il parametro fissato dal giudice Europeo in relazione al quantum, siccome non conduce ad una riduzione dell’indennizzo in misura superiore a questa, non viola il principio di effettività e non si pone in contrasto con l’interpretazione della Corte EDU. D’altronde, occorre considerare che, secondo la Corte costituzionale, le norme CEDU "integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionalee, con la conseguenza che "è necessario che esse siano conformi a Costituzionee. Diversamente da quanto accade per quelle comunitarie e concordatarie, lo scrutinio di costituzionalità che, eventualmente, può essere condotto su di esse (ovviamente, sollevando questione avente ad oggetto la legge di ratifica che ne consente l’ingresso) non può "limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali (…) o dei principi supremii, ma deve "estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le norme interposte e quelle costituzionalii.
Pertanto, ha affermato il giudice delle leggi, "in occasione di ogni questione nascente da pretesi contrasti tra norme interposte e norme legislative interne, occorre verificare congiuntamente la conformità a Costituzione di entrambe e precisamente la compatibilità della norma interposta con la Costituzione e la legittimità della norma censurata rispetto alla stessa norma interpostaa (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007). Ne consegue che, se non fosse stato possibile affermare la manifesta infondatezza dell’eccezione di illegittimità costituzionale in esame, avrebbe dovuto essere vagliata la conformità del criterio di computo desunto dalla norma convenzionale da parte del giudice Europeo all’art. 111 Cost., comma 2, in virtù del quale nel nostro ordinamento il processo deve avere un tempo di svolgimento o di "ragionevole durata" (Cass. n. 534 e n. 24390 del 2008), poichè potrebbe porsi in contrasto con i principi costituzionali (anche in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza) un obbligo di indennizzo stabilito in relazione ad una fase e ad un tempo che necessariamente deve esserci.
Peraltro, è solo questa interpretazione che evita di approfondire ulteriori profili di non manifesta infondatezza di illegittimità costituzionale di un’esegesi che, attraverso rigidi automatismi e meccanismi presuntivi di non sicura ragionevolezza, in un sistema economico e di finanza pubblica caratterizzato dalla limitatezza delle risorse disponibili, rischia di porre la norma CEDU in esame (e l’interpretazione offertane dal giudice Europeo) in contrasto con le norme costituzionali che riconoscono e tutelano i diritti fondamentali, sacrificandone alcuni, di pari, se non superiore livello.
In relazione alle censure accolte, cassato il decreto, la causa può essere decisa nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, dal momento che non emergono elementi e circostanze che possano far derogare in ordine alla durata dal parametro stabilito dalla Corte EDU. Pertanto, in applicazione degli standard della Corte EDU, ritenuto il periodo di irragionevole durata del giudizio in anni quattro e mesi sei (il giudizio è iniziato nell’aprile 1993 ed è stato definito con sentenza di secondo grado del 17.10.2003) ed individuato, in applicazione dello standard minimo CEDU – che nessun argomento del ricorso impone e consente di derogare in melius – nella somma di circa Euro 1.000,00 ad anno il parametro di indennizzo del danno non patrimoniale, va riconosciuta a ciascun ricorrente la somma di Euro 5.500,00 (in relazione al periodo dir sopra indicato), oltre interessi legali dalla domanda al saldo.
Le spese, liquidate come in dispositivo, vanno poste a carico del soccombente quanto al giudizio di merito e per la metà quanto alla presente fase, dichiarando compensata la residua parte, sussistendo giusti motivi, in considerazione del parziale accoglimento del ricorso.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, nei termini precisati in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della giustizia a corrispondere a ciascun ricorrente la somma di Euro 5.500,00, oltre interessi legali dalla domanda al saldo ed oltre alle spese processuali – per la metà, quanto alla presente fase, compensandosi la restante parte – distratte in favore dell’avv. Anton Giulio Lana e liquidate, quanto al giudizio di merito, in Euro 935,00 (di cui Euro 385,00 per diritti ed Euro 420,00 per onorari) e, quanto al giudizio di legittimità, in Euro 475,00, di cui Euro 35,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 20 febbraio 2009.
Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2009