Con ricorso del 23.03.2005, D.B.C. adiva la Corte di appello di Torino chiedendo che il Ministero della Giustizia fosse condannato a corrispondergli l’equa riparazione prevista dalla L. n. 89 del 2001, per la violazione dell’art. 6, sul "Diritto ad un processo equo", della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e della libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la L. 4 agosto 1955, n. 848. Con decreto del 5.07 – 18.08.2005, l’adita Corte di appello, nel contraddittorio delle parti, condannava l’Amministrazione convenuta a pagare al D.B. la somma di Euro 736,00, a titolo di indennizzo dei danni patrimoniali nonchè Euro 2.945,00 per quelli non patrimoniali, importi entrambi attualizzati.
Condannava, infine, il Ministero della Giustizia a rifondere al ricorrente le spese di lite, liquidate in Euro 900,00 per onorari, Euro 81,00 per diritti ed Euro 136,53 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge. La Corte osservava e riteneva, tra l’altro ed in sintesi:
– che il ricorrente aveva chiesto l’equa riparazione in riferimento all’irragionevole durata della procedura concorsuale apertasi, a carico di M.T., dichiarato fallito il (OMISSIS) dal Tribunale di La Spezia, procedura in cui, il 4.04.1991, era stato ammesso al passivo, in via chirografaria, il credito dell’istante di L. 19.005.570 e che era rimasta aperta e pendente per quasi 15 anni, senza previsione di imminente definizione, nonostante che, il 30.04.1992, lo stato passivo fosse stato dichiarato esecutivo;
– che sia in ordine alla verifica della irragionevole durata del processo che con riferimento ai criteri ai quali commisurare la liquidazione del danno morale occorresse attenersi anche agli enunciati della Corte di Strasburgo;
– che sebbene in sede Europea i tempi del processo civile di primo grado fossero stati astrattamente ritenuti ragionevoli se non eccedenti il triennio, tuttavia occorreva riferire tale valutazione così come quella inerente alla determinazione del dovuto, alle peculiarità del caso concreto, che inducevano a discostarsi sensibilmente da detti parametri medi sopranazionali;
– che, tenuta presente la complessità della procedura fallimentare in argomento, la quale ineriva ad attività d’impresa avente ad oggetto investimenti fiduciari, aveva coinvolto un notevole numero di risparmiatori, con conseguente necessità di complesse verifiche e ricostruzioni di movimenti contabili;ed aveva richiesto non agevoli iniziative per la liquidazione dell’attivo, appariva adeguato e ragionevole il tempo, pari circa a 2 anni dalla domanda d’insinuazione, con cui si era pervenuti ad includere il credito del D.B. nel passivo fallimentare, mentre invece la successiva fase liquidatoria, pur complessa ed involgente iniziative giudiziarie, aveva in effetti avuto eccessiva durata;
– che, dunque, la durata ragionevole di tale procedura concorsuale, ancora pendente, potesse essere stimata in circa sette anni, ragione per cui, essendosi concretato un periodo di ritardo irragionevole pari a circa otto anni e 6 mesi, limitatamente ad esso il D.B. aveva diritto al chiesto indennizzo;
– che la riparazione del sofferto danno patrimoniale potesse essere equitativamente liquidato commisurandolo al mancato reddito e rivalutazione delle somme che, secondo ragionevole previsione, il ricorrente avrebbe riscosso in sede di riparto fallimentare, stimabili in entità pari al 15% del credito, ossia in Euro 736,00 all’attualità, per capitale ammesso al passivo, pari a L. 2.850.000;
– che la liquidazione del danno non patrimoniale non poteva conformarsi all’invocato specifico precedente della Corte di Strasburgo, la quale per tale voce aveva attribuito L. 28.000.000 a diverso creditore della medesima procedura fallimentare, dal momento che non era stato dimostrato che si trattava di caso simile, la pronuncia appariva lacunosa, non risultava quale fosse l’incidenza del credito sulle condizioni economiche dell’interessato;
– che, quindi, per il danno morale in questione si doveva procedere ad autonoma valutazione equitativa, alla luce dei richiamati principi che presiedono all’attribuzione dell’equa riparazione, tenendo anche presenterà le particolarità del caso, la modestia (Euro 1.472,00) del (presumibile) credito del D.B. e l’indole puramente patrimoniale del controverso diritto.
Avverso questo decreto il D.B. ha proposto ricorso per Cassazione notificato il 1.09.2006, fondato su due motivi ed illustrato da memoria.
L’Amministrazione della Giustizia ha resistito con controricorso notificato il 4.10.2006 e proposto ricorso incidentale affidato ad un unico motivo.
La causa è stata fissata per l’esame in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c..
Il Pubblico Ministero ha chiesto che il ricorso principale sia accolto nei soli limiti della sua manifesta fondatezza, ossia con riferimento al "quantum" liquidato per il danno non patrimoniale e respinto per il resto, al pari del ricorso incidentale.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Deve essere preliminarmente disposta ai sensi dell’art. 335 c.p.c., la riunione dei ricorsi principale ed incidentale proposti avverso il medesimo decreto.
A sostegno del ricorso principale il D.B. deduce:
1. "Violazione e/o falsa applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, con particolare riferimento all’art. 2 – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Violazione e/o falsa applicazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, firmata a Roma il 4/11/1950 e ratificata con la L. 4 agosto 1955, n. 848, con particolare riferimento agli artt. 6, 32 e 41, ed anche in relazione agli artt. 10 e 11 Cost., nonchè con riferimento alla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea approvata dal Parlamento Europeo il 14.11.2000 – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Falsa applicazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dei criteri applicativi nell’interpretazione fornita dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Violazione e/o falsa applicazione artt. 24 e 111 Cost. – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dall’esponente e rilevabile d’ufficio – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5".
2. "Violazione e/o falsa applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, con particolare riferimento all’art. 2, – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Violazione e/o falsa applicazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, firmata a Roma il 4/11/1950 e ratificata con la L. 4 agosto 1955, n. 848, con particolare riferimento agli artt. 6, 32 e 41 ed anche in relazione agli artt. 10 e 11 Cost., nonchè con riferimento alla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea approvata dal Parlamento Europeo il 14.11.2000 – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Violazione e/o falsa applicazione artt. 24 e 111 Cost. – in relazione all’art 360 c.p.c. n. 3.
3. Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dall’esponente e rilevabile d’ufficio – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5".
Si duole conclusivamente, anche per il profilo argomentativo, che in relazione alla determinazione del ritardo irragionevole e nella liquidazione dell’equo indennizzo del danno non patrimoniale la Corte distrettuale non si sia attenuta al precedente specifico, identico e sovrapponibile, costituito dalla sentenza Venturini c. Italia, resa dalla Corte di Strasburgo nel 2001, e comunque alla normativa Europea ed ai relativi orientamenti giurisprudenziali, ed abbia liquidato cifre irrisorie e forfettizzate, tra l’altro attribuendo eccessivo rilievo al criterio della cd. posta in gioco, non recepito dal legislatore nazionale, così come quello delle condizioni personali (economiche e status) dell’istante.
Chiede, infine che, qualora sia determinato un ritardo irragionevole di maggiore consistenza venga conseguentemente aumentata anche l’entità del danno patrimoniale e che qualora venga liquidata una somma maggiore e diversa sia correlativamente aumentato anche l’importo delle spese processuali.
Con il ricorso incidentale l’Amministrazione della Giustizia denuncia "Violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 con riferimento all’art. 6 CEDU: in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3", sostenendo che i giudici del merito avrebbero dovuto dichiarare inammissibile, o comunque rigettare, il ricorso introduttivo perchè la L. n. 89 del 2001 non sarebbe applicabile ai procedimenti esecutivi individuali e concorsuali, a suo parere non riconducibili al novero delle cause contemplate dalla Convenzione. Il ricorso incidentale, che per ragioni di ordine logico richiede esame prioritario, non è fondato.
Come anche da ormai costante orientamento giurisprudenziale di questa Suprema Corte (cfr. tra le numerose altre, Cass. 200601747;
200312807; 200217261), la disciplina dell’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo trova applicazione pure nel caso in cui il ritardo lamentato si riferisca al procedimento esecutivo concorsuale cui da vita la dichiarazione di fallimento, alla luce del valore precettivo degli artt. 3 e 111 Cost.. D’altra parte anche secondo l’interpretazione datane dalla CEDU la nozione di procedimento presa in considerazione dall’art. 6 CEDU, par. 1, riguarda pure i procedimenti esecutivi ed in genere tutti i processi che appartengono alla giurisdizione, essendo condotti sotto la direzione o la vigilanza del giudice a garanzia della legittimità del loro svolgimento (Cass. 11046/2002), fra i quali non è dubbio che debba essere incluso quello esecutivo concorsuale cui da vita la dichiarazione di fallimento.
Il ricorso principale è fondato nei limiti delle argomentazioni che seguono. Manifestamente infondate risultano le censure afferenti:
la mancata assunzione in punto di durata del processo e di indennizzo dovuto per il danno morale, delle determinazioni contenute nel richiamato precedente CEDU, avendo la Corte distrettuale esaurientemente e logicamente chiarito le ragioni che non le consentivano di fare proprie le valutazioni espresse nell’esaminata decisione resa dalla Corte sopranazionale in riferimento al caso Venturini c. Italia, essenzialmente ricondotte alla lacunosità della pronuncia, alla non sovrapponibilità di presupposti ed alla mancata determinazione della durata non ragionevole (in tema, cfr. Cass. 200519503; 200620589);
il discostamento dai parametri orientativi Cedu di normale durata di un processo civile, avendo la Corte di merito congruamente e logicamente argomentato, tramite anche richiamo alle evidenziate specifiche peculiarità del caso, la fissazione in anni sette della durata ragionevole del processo fallimentare.
Manifestamente fondato è, invece, il motivo di censura relativo all’incongruità dell’importo di Euro 2.945,00 liquidato a titolo di equa riparazione del danno non patrimoniale afferente il periodo di irragionevole ritardo stimato pari a circa otto anni e 6 mesi.
Ai fini della liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, l’ambito della valutazione equitativa, affidato al giudice del merito, è segnato dal rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per come essa vive nelle decisioni, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, di casi simili a quello portato all’esame del giudice nazionale, di tal che è configurabile, in capo al giudice del merito, un obbligo di tener conto dei criteri di determinazione della riparazione applicati dalla Corte europea, pur conservando egli un margine di valutazione che gli consente di discostarsi, purchè in misura ragionevole, dalle liquidazioni effettuate dalla Corte europea. Nella specie la riduzione della riparazione alla somma di circa Euro 346,00 ad anno di ritardo non appare in relazione ragionevole con quella – tra i 1000 e i 1500 Euro – accordata dalla predetta Corte negli affari consimili, pur considerando che le ragioni poste a fondamento di tale determinazione, essenzialmente ricondotte all’esiguità della posta in gioco, ne consentivano il discostamento in senso peggiorativo, ma in limiti più contenuti (Cass. SU 200401338; Cass. 200608714; 200627502;200702247), quali in prosieguo stabiliti.
Accolta, dunque, la doglianza in questione ed assorbite restando le altre questioni, sulle esposte premesse, ben può procedersi alla cassazione in parte qua dell’impugnato decreto e, fermo restando anche il liquidato indennizzo (Euro 736,00) per il subito danno patrimoniale, alla decisione nel merito del ricorso, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., nessun accertamento di fatti essendo residuato alla cognizione di questa Corte. Quindi, considerato il periodo di irragionevole durata del giudizio dinanzi al Tribunale di La Spezia, pari a otto anni e 6 mesi ed individuato, in base alle evidenziate ragioni di discostamento riduttivo dai parametri CEDU (tra i 1.000 e i 1.500 Euro ad anno), nella somma di Euro 750,00 ad anno il parametro per indennizzare la parte del danno non patrimoniale riportato nel processo presupposto – devesi riconoscere all’istante l’indennizzo complessivo di Euro 6.400,00, oltre agli interessi legali con decorrenza dalla domanda (Cass. 2006/8712).
Quanto alla regolamentazione delle spese, a carico dell’Amministrazione soccombente va posto il pagamento delle spese del giudizio di merito, liquidate come in dispositivo, adottando la tariffa per processo svoltosi innanzi alla Corte di appello. Quanto alle spese del giudizio di legittimità, l’esito della controversia induce a compensarle nella misura di 1/2 ed a porre la residua parte, liquidata come in dispositivo, a carico dell’Amministrazione controricorrente.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi principale ed incidentale, accoglie nei sensi di cui in motivazione il ricorso principale del D.B. e respinge il ricorso incidentale, cassa in parte qua il decreto impugnato e decidendo nel merito ex art. 384 c.p.c., condanna il Ministero della Giustizia al pagamento in favore del ricorrente della somma di Euro 6.400,00 oltre agli interessi legali dalla domanda, nonchè al pagamento delle spese del giudizio di merito liquidate in complessivi Euro 1.286,53 (di cui Euro 450,00 per diritti ed Euro 700,00 per onorari). Compensa, inoltre, nella misura di 1/2 le spese del giudizio di legittimità e condanna il Ministero della Giustizia al pagamento in favore del ricorrente della residua parte, che liquida in complessivi Euro 400,00 (di cui Euro 50,00 per esborsi), oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 25 giugno 2009.
Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2009