E.P. adiva la Corte d’appello di Genova, al fine di ottenere la liquidazione dell’indennizzo di cui alla L. n. 89 del 2001, in relazione alla durata irragionevole del giudizio promosso dal coniuge, unitamente ad altri ricorrenti, innanzi al T.a.r.
Toscana con ricorso del 26 maggio 1994, avente ad oggetto i diritto al computo nell’indennità di buonuscita dell’indennità pensionabile di polizia, definito con sentenza di rigetto del 24.2.2003.
La Corte d’appello, con decreto del 6 ottobre 2006, rigettava la domanda, dichiarando compensate tra le parti le spese del giudizio.
Per la cassazione di questo decreto ha proposto ricorso E. P., affidato a tre motivi; hanno resistito con controricorso la Presidenza del Consiglio dei ministri ed il Ministero dell’economia e delle finanze.
Ritenute sussistenti le condizioni per la decisione in camera di consiglio è stata redatta relazione ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comunicata al Pubblico Ministero e notificata alle parti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.- La relazione sopra richiamata ha il seguente tenore:
"1.- La ricorrente, con il primo motivo, denuncia violazione dell’art. 6, 1 della CEDU, della L. n. 89 del 2001, art. 2, nonchè degli artt. 24 e 101 Cost., in relazione all’art. 96 c.p.c., (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), richiamando sentenze di questa Corte, rese in giudizi concernenti vicende analoghe e decreti della stessa Corte d’appello di Genova, le quali hanno escluso che l’esito favorevole della lite escluda il diritto all’indennizzo per il danno non patrimoniale da irragionevole durata del giudizio.
Inoltre, sostiene che sulla questione oggetto del giudizio presupposto vi era stata una giurisprudenza, sia pure minoritaria, che aveva accolto la domanda. Dunque, la consapevolezza dell’esito sfavorevole della lite sarebbe stata motivata con argomentazioni infondate e pretestuose; comunque, non sarebbe provato che la lite era temeraria, ovvero che vi sia stato abuso del diritto, circostanze imprescindibili per il rigetto della domanda.
In conclusione, il ricorrente formula quesito di diritto concernente la circostanza che la consapevolezza sull’esito del giudizio presupposto non rileva ai tini del danno non patrimoniale.
Con il secondo motivo, è denunciata violazione dell’art. 6, della CEDI, della L. n. 89 del 2001 e dell’art. 96 c.p.c., (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), nella parte in cui il decreto ha escluso il danno non patrimoniale, valorizzando il rigetto della domanda e la consapevolezza dell’infondatezza della medesima anche quando questa non emerga dal giudizio presupposto in misura tale da prefigurare un abuso del processo, evenienza questa esclusa dalla compensazione delle spese del giudizio disposta dal giudice del merito.
Il ricorrente formula, quindi, quesito di diritto concernente la circostanza che il danno non patrimoniale da violazione del termine di ragionevole durata del giudizio sussiste anche nel caso di consapevolezza dell’infondatezza della domanda, salvo che questa sconfini nell’abuso di difesa.
Il terzo motivo del ricorso denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione del decreto (art. 360 c.p.c., n. 5), in ordine al fatto controverso della piena consapevolezza dell’infondatezza della domanda, che non emergerebbe dal decreto e non sarebbe motivata, non essendo sufficiente a detto fine il mero richiamo di precedenti contrari all’istante, in difetto di prova sull’abuso de processo.
2.- I tre motivi, da esaminare congiuntamente, sono manifestamente fondati entro i termini e nei limiti di seguito precisati.
Il decreto ha premesso che, in linea di principio, la proposizione di un ricorso collettivo ed il suo rigetto non permetterebbero di escludere la sussistenza del danno non patrimoniale e, tuttavia, ha osservato che può anche accadere che detti elementi siano, invece, sufficienti a fondare della conclusione.
La Corte territoriale ha, quindi, ritenuto sussistente quest’ultima ipotesi, valorizzando la circostanza che la sentenza del giudizio presupposto ha rigettato la domanda, affermando che, dopo alcune incertezze giurisprudenziali, nel senso dell’infondatezza si era espresso il Consiglio di Stato, con sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 19 del 1996. Pertanto, la consapevolezza dell’infondatezza della pretesa conduceva ad escludere la sussistenza del danno non patrimoniale.
Siffatta conclusione non è immune dalle censure svolte con i mezzi in esame.
Al riguardo va, infatti, ribadito l’orientamento, consolidatosi dopo gli arresti a Sezioni Unite, secondo il quale il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorchè non automatica, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di modo che va ritenuto sussistente, senza bisogno di specifica prova (diretta o presuntiva), in ragione dell’obiettivo riscontro di detta violazione, sempre che non ricorrano circostanze particolari che ne evidenzino l’assenza nel caso concreto (Cass. S.U. n. 1338 e n. 1339 del 2004; successivamente, per tutte, Cass. n. 6898 del 2008; n. 23844 del 2007). Il diritto all’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti, e dalla consistenza economica o dall’importanza sociale della vicenda, a meno che l’esito del processo presupposto non abbia un indiretto riflesso sull’identificazione, o sulla misura, del pregiudizio sofferto dalla parte in conseguenza dell’eccessiva durata della causa, come quando il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire l’irragionevole durata di esso, o comunque quando risulti la piena consapevolezza dell’infondatezza delle proprie istanze o della loro inammissibilità; di tutte queste situazioni, comportanti abuso del processo, e perciò costituenti altrettante deroghe alla regola della risarcibilità della sua irragionevole durata, deve dare prova la parte che le eccepisce per negare la sussistenza dell’indicato danno (Cass. n. 7139 del 2006; n. 21088 del 2005; n. 19204 del 2005).
In particolare, detto principio è stato ripetutamente affermato in fattispecie analoghe a quelle qui in esame, concernenti decreti emessi dalla stessa Corte d’appello di Genova (tra le molte, Cass. n. 26767, n. 27610, n. 26579. n. 11568 e n. 891 del 2008, sino a risalire a Cass. n. 9921 del 2005).
Una volta che questo danno non sia stato escluso, i criteri di determinazione del quantum della riparazione applicati dalla Corte europea non possono essere ignorati dal giudice nazionale, che deve riferirsi alle liquidazioni effettuate in casi simili dalla Corte di Strasburgo, sia pure in senso sostanziale, non meramente formale, con la facoltà di apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda, purchè motivate e non irragionevoli (tra le molle, Cass. n. 6898 del 2008; n. 1630 del 2006; n. 1631 de 2006; n. 19029 del 2005; n. 19288 del 2005).
In applicazione di detto principio -da enunciare in detti termini, in relazione a quesiti posti con i primi due motivi-, risulta chiara la fondatezza delle censure, dato che non rileva, al fine di escludere il danno, il solo fatto che la causa abbia avuto esito negativo appunto in quanto, da sola, è insufficiente ad escludere e a sovvertire la presunzione di danno non patrimoniale, mentre delle circostanze sopra indicate, in particolare del fatto che l’istante si sarebbe reso responsabile di lite temeraria, o comunque di un vero e proprio abuso del processo, non vi è congrua ed adeguata motivazione.
A detto fine è, invero, insufficiente l’esistenza di orientamenti contrari, in difetto di elementi comprovanti la proposizione di una lite temeraria, ovvero dettata al solo scopo di perseguire il perfezionamento della fattispecie di cui alla L. n. 89 del 2001, non essendo sostenibile l’equazione tra domanda contraria ad un orientamento, pure consolidato della giurisprudenza, e abuso del diritto di agire, costituzionalmente garantito.
Peraltro, il decreto in esame cade in contraddizione, quando da atto di "incertezze giurisprudenziali" composte dal massimo consesso amministrativo, con sentenza n. 19 del 1996, e cioè in data successiva alla proposizione del ricorso, che, in difetto di ulteriori esplicitazioni, implica logicamente l’esistenza di pregressi indirizzi favorevoli all’istante.
Pertanto, dal punto di vista logico, non è possibile desumere dalla sola infondatezza della pretesa l’esclusione del danno, posto che detta circostanza comporta anzi l’irragionevolezza del giudizio, suscettibile, appunto per detta ragione, di immediata risoluzione.
In accoglimento del ricorso, il decreto va cassato e la causa rinviata per un riesame del merito, che investirà la questione del danno non patrimoniale e dovrà anzitutto accertare anche l’esatta misura della durata irragionevole del giudizio, al fine di stabilire l’eventuale indennizzo.
Vi provvederà, in veste di giudice del rinvio, la stessa Corte d’appello di Genova, in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese della presente fase.
Pertanto, il ricorso, essendo in parte manifestamente fondato, in parte manifestamente infondato, può essere trattato in camera di consiglio, ricorrendone i presupposti di legge.
2.- Il Collegio reputa di dovere fare proprie le conclusioni contenute nella relazione, condividendo le argomentazioni che le fondano, salvo che, in primo luogo, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze; in secondo luogo, cassato il decreto impugnato, la causa può essere decisa nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto.
3.- Il ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze è manifestamente inammissibile.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, concernente anche il caso del ricorso in tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, il ricorso per cassazione indirizzato e notificato a un’Amministrazione dello Stato non legittimata processualmente e che mai è stata parte del giudizio di merito, svoltosi legittimamente in contraddittorio con quella legittimata ai sensi della L. n. 89 del 2001, deve ritenersi inammissibile, senza che possa ravvisarsi un mero errore d’identificazione della persona alla quale il ricorso doveva essere notificato, della L. 25 marzo 1958, n. 260, ex art. 4, (Cass. n. 4864 del 2006; n. 6181 del 2003) La L. 25 marzo 1958, n. 260, art. 3, che ha sostituito il R.D. 30 ottobre 1993, n. 1611, art. 52, ha previsto che le notificazioni alle Amministrazioni dello Stato degli atti del giudizio di cui all’art. 11 dello stesso R.D. (sostituito dalla L. n. 260 del 1958, art. 1, comma 1), "debbono essere fatte … alla persona del Ministro in carica"; la L. n. 260 del 1958, art. 4, dispone poi che "l’errore di identificazione della persona alla quale l’atto introduttivo del giudizio ed ogni altro atto doveva essere notificato, deve essere eccepito dall’Avvocatura dello Stato nella prima udienza, con la contemporanea indicazione della persona alla quale l’atto doveva essere notificato".
Le norme indicate sono state lette nel senso che esse consentono la vocatio in jus dell’Amministrazione legittimata non solo in caso di errore nell’identificazione della persona alla quale l’atto introduttivo era da notificarsi ma anche quando la notifica sia avvenuta alla persona di un Ministro in luogo di un altro, ma in riferimento all’atto introduttivo del giudizio di merito e alla legittimazione sostanziale dell’Amministrazione citata (alle sentenze sopra richiamate, adde, Cass. n. 8697 del 2001; n. 10806 del 2000).
In particolare, hanno chiarito le Sezioni Unite (sentenza n. 3117 del 2006), la L. n. 260 del 1958, art. 4, comporta che l’erronea individuazione dell’organo abilitato a rappresentare lo Stato non implica la mancata costituzione del rapporto processuale, nè un difetto di legittimazione passiva, ma una mera irregolarità, non rilevabile d’ufficio, bensì solo con le modalità e conseguenze previste dalla stessa norma: e perciò sanabile attraverso la rinnovazione dell’atto nei confronti di quello indicato dal Giudice, ovvero mediante la costituzione in giudizio dell’Amministrazione intimata che non abbia sollevato eccezioni al riguardo, o ancora attraverso la mancata deduzione di uno specifico motivo d’impugnazione da parte di quest’ultima.
Tuttavia, come ha in seguito precisato questa Corte, ribadendo la regola enunciata dalle sentenze sopra richiamate, il principio desunto dal citato art. 4 esclude nel giudizio di primo grado la mancata costituzione del rapporto processuale pur quando la parte sia incorsa in errore nella indicazione dell’organo statale sostanzialmente legittimato, ma non gli consente di superare il profilo soggettivo della proponibilità dell’impugnazione che riveste carattere meramente processuale.
Infatti, con l’impugnazione si esercita un potere processuale, al quale soltanto occorre riferirsi per individuare i soggetti legittimati a proporla, ovvero ad essere convenuti con l’impugnazione medesima; e la legittimazione all’impugnazione non può che essere anche essa, e necessariamente, di carattere processuale, presentandosi come una delle condizioni subiettive del potere di impugnare, spettando, sotto il profilo attivo a chi è titolare di tale potere, e, sullo il profilo passivo, venendo a riguardare il soggetto (o i soggetti) nei cui confronti detto potere può essere esercitato.
Ne consegue che, siccome la legge non consente in principio l’utile gestione processuale, ammettendo solo eccezionalmente la sostituzione processuale (art. 81 cpv. c.p.c.), il difetto di legittimazione all’impugnazione o ad essere con essa convenuti, che nel vigente sistema processuale è riservata esclusivamente alle parti in causa, e cioè alle parti che hanno agito, o sono state convenute quali soggetti del rapporto sostanziale, cosi come è stato dedotto in giudizio (anche se in concreto sono privi di legittimazione sostanziale), dal luogo, comunque alla inammissibilità processuale subiettiva dell’impugnazione medesima (Cass. n. 3345 del 2007; v.
anche Cass. n. 6181 del 2003), non rilevando la costituzione, e la mancata eccezione, da parte dell’Amministrazione che non è stata parte nel giudizio di merito.
3.1.- Posta questa premessa, va osservato che la L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 3, disponeva che il ricorso diretto ad ottenere l’equa riparazione deve essere "proposto nei confronti del Ministro della giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario, al Ministro della difesa quando si tratta di procedimenti del giudice militare, del Ministro delle finanze quando si tratta di procedimenti del giudice tributario. Negli altri casi è proposto nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri".
Il citato art. 3, comma 3, è stato modificato della L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 1224, che ora stabilisce: "Il ricorso è proposto nei confronti del Ministro della giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario, al Ministro della difesa quando si tratta di procedimenti del giudice militare. Negli altri casi è proposto nei confronti del Ministro dell’economia e delle finanze".
Il comma 1225 di quest’ultima legge reca tuttavia una norma transitoria che così prevede: "Le disposizioni di cui al comma 1224 si applicano ai procedimenti iniziati dopo la data di entrata in vigore della presente legge" (i successivi periodi riguardano la modalità dei pagamenti e non rilevano in questa sede).
La modifica della legittimazione introdotta alla L. n. 89 del 2006, art. 2, comma 3, riguarda esclusivamente i giudizi iniziati nella fase di merito successivamente all’entrata in vigore della modifica introdotta dalla L. 27 dicembre 2006, n. 296, non quelli iniziati prima e ritualmente svoltisi e definiti nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri.
In applicazione dei suesposti principi, poichè il giudizio di merito è stato correttamente proposto con ricorso del 2004 nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri e definito con decreto del 6 ottobre 2006, il ricorso per cassazione doveva essere notificato a detta Amministrazione, con la conseguenza che è manifestamente inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze.
4.- La decisione nel merito va resa applicando i principi che di seguito si espongono.
Relativamente al termine di durata ragionevole, deve ribadirsi che, ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, la ragionevole durata di un processo va verificata in concreto, facendo applicazione dei criteri stabiliti da della norma all’esito di una valutazione degli clementi previsti da detta norma (per tulle, Cass. n. 6039, n. 4572 e n. 4123 del 2009; n. 8497 del 2008) e in tal senso è orientata anche la giurisprudenza della Corte EDU (tra le molte, sentenza 1^ sezione del 23 ottobre 2003, sul ricorso n. 39758/98), la quale ha tuttavia stabilito un parametro tendenziale che fissa la durata ragionevole del giudizio, rispettivamente, in anni tre, due ed uno per il giudizio di primo, di secondo grado e di legittimità.
Siffatto parametro va osservato dal giudice nazionale e da esso è possibile discostarsi, purchè in misura ragionevole e sempre che la relativa conclusione sia confortata con argomentazioni complete, logicamente coerenti e congrue, restando comunque escluso che i criteri indicati nell’art. 2, comma 1, di della legge permettano di sterilizzare del tutto la rilevanza del lungo protrarsi del processo ( Cass. Sez. un. n. 1338 del 2004; in seguito, tra le tante, Cass. n. 4123 e n. 3515 del 2009).
Relativamente alla quantificazione de danno, vanno qui ribaditi i seguenti principi, ormai consolidati nella giurisprudenza di questa Corte:
il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorchè non automatica, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo e va ritenuto sussistente, senza bisogno di specifica prova (diretta o presuntiva), in ragione dell’obiettivo riscontro di detta violazione, sempre che non ricorrano circostanze particolari che ne evidenzino l’assenza nel caso concreto ( Cass. S.U. n. 1338 e n. 1339 del 2004; successivamente, per tutte, Cass. n. 3515 del 2009; n. 6898 del 2008; n. 23844 del 2007);
i criteri di determinazione del quantum della riparazione applicati dalla Corte europea non possono essere ignorati dal giudice nazionale, che deve riferirsi alle liquidazioni effettuate in casi simili dalla Corte di Strasburgo che, con decisioni adottate a carico dell’Italia il 10 novembre 2004 (v., in particolare, le pronunce sul ricorso n. 62361/01 e sul ricorso n. 64897/01), ha individuato nell’importo compreso fra Euro 1.000,00, ed L. 1.500,00, per anno il parametro per la quantificazione dell’indennizzo, che deve essere osservato dal giudice nazionale, con la facoltà di apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda (quali: l’entità della "posta in gioco", il "numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento" ed il comportamento della parte istante; per tutte, Cass. n. 4572 e n. 3515 del 2009; n. 1630 del 2006), purchè motivate e non irragionevoli (tra le molte, a quelle da ultimo richiamate, aggiungi Cass. n. 6039 del 2009; n. 6898 del 2008).
In particolare, questa Corte ritiene che, in riferimento al parametro concernente la misura del risarcimento, una serie di sentenze della Grande Camera della Corte EDU del 29 marzo 2006 (rese sui ricorsi n. 64699/01, n. 64705/01, n. 64886/01, n. 64890/01, n. 64897/01, n. 65075/01), confortino il suindicato orientamento, imponendo anzi una rinnovata riflessione in ordine al limite minimo inderogabile.
In primo luogo, va osservato che il giudice europeo ha sottolineato che, "quando uno Stato ha compiuto un passo significativo introducendo un rimedio risarcitolo, la Corte deve lasciare allo Stato un margine di valutazione più ampio per consentirgli di organizzare il rimedio in un modo coerente con il proprio ordinamento giuridico e con le proprie tradizioni, e conforme al tenore di vita nel paese interessato", così che "sarà più facile per i giudici nazionali far riferimento agli importi concessi a livello interno per altri tipi di danno – ad esempio, lesione personale, danno derivante dal decesso di un familiare o danno per diffamazione – e basarsi sul proprio intimo convincimento, anche se ciò si traduce in concessioni di importi inferiori rispetto a quelli fissati dalla Corte in casi simili" (in particolare, p. 78, sentenza 29 marzo 2006, sul ricorso 64890/01). La Corte EDU ha, quindi, riconosciuto che gli importi concessi dal giudice nazionale possono essere inferiori a quelli da essa liquidati, purchè non irragionevoli, "a condizione che le decisioni pertinenti" siano "coerenti con la tradizione giuridica e con il tenore di vita del paese interessato" (così 95, sentenza 29 marzo 2006, sul ricorso 64890/01, ma analogamente le altre pronunce), evidenziando, peraltro, "l’impossibilità e l’impraticabilità del tentativo di fornire un elenco di spiegazioni dettagliate che comprenda ogni eventualità", al fine di enunciare criteri certi ed applicabili automaticamente per la liquidazione dell’indennizzo (p. 136, sentenza 29 marzo 2006, sul ricorso n. 64705/01).
In secondo luogo, la Corte EDU ha altresì rimarcato come "vi sia una forte ma confutabile presunzione che un procedimento eccessivamente lungo causi un danno non patrimoniale", ammettendo nondimeno "che, in alcuni casi, la durata del procedimento possa causare solo un minimo danno non patrimoniale o anche nessun danno non patrimoniale" (p. 93, sentenza 29 marzo 2006, sul ricorso 64890/01 e le altre sentenze sopra richiamate), mentre è certo che l’esigua entità della posta in gioco può avere "un effetto riduttivo dell’entità dell’indennizzo", sebbene non totalmente esclusivo dello stesso (p. 6, sentenza 29 marzo 2006, sul ricorso n. 64705/01).
In terzo luogo, la Corte di Strasburyo ha osservato che e anche irrilevante la circostanza che il metodo di computo previsto dal diritto interno non corrisponda esattamente ai criteri stabiliti da essa stabiliti, qualora consenta "di concedere importi che non siano irragionevoli" (p. 104, sentenza 29 marzo 2006, sul ricorso n. 64705/01); infine, in una serie di casi nei quali il risarcimento riconosciuto dal giudice italiano era inferiore alla somma che essa avrebbe riconosciuto, ha concesso una ulteriore somma, ma sino ad una soglia pari a circa il 45% del risarcimento che essa avrebbe attribuito (sentenze 29 marzo 2006. sul ricorso 64890/01, nonchè sul ricorso n. 62361/00, n. 64705 del 2001).
La più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo rende quindi possibile affermare che, ferma la presunzione di sussistenza del danno non patrimoniale salvo che non ricorrano circostanze che permettano di escluderlo, qualora la parte non abbia allegato, comunque non emergano, elementi concreti in grado di far apprezzare la peculiare rilevanza di detto danno (costituiti, tra gli altri, dal valore della controversia, dalla natura della medesima, da apprezzare in riferimento alla situazione economico – patrimoniale dell’istante, dalla durata del ritardo, dalle aspettative desumibili anche dalla probabilità di accoglimento della domanda), l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satistattiva di un danno e non indebitamente lucrativa, alla luce delle quantificazioni operate dal giudice nazionale nel caso di lesione di diritti diversi da quello in esame, impongano una quantificazione che. nell’osservanza della giurisprudenza della Corte EDU, deve essere, di regola, non inferiore ad Euro 750,00, per anno di ritardo. La fissazione di detta soglia si impone, alla luce delle sentenze sopra richiamate del giudice europeo, in quanto occorre tenere conto del criterio di computo adottato da detta Corte (riferito all’intera durata del giudizio) e di quello stabilito dalla L. n. 89 del 2001, (che ha riguardo soltanto agli anni eccedenti il termine di ragionevole durata), nonchè dell’esigenza di offrire di quest’ultima un’interpretazione idonea a garantire che la diversità di calcolo non incida negativamente sulla complessiva attitudine di della L. n. 89 del 2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, evitando il possibile profilarsi di un contrasto della medesima con la norma della CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo.
Nella specie, le argomentazioni svolte nella relazione, sopra trascritte, rendono palese che il mero rigetto della domanda non costituiva ragione sufficiente per fare escludere il danno non patrimoniale.
Pertanto, in applicazione dello standard minimo CEDU – che nessun argomento del ricorso impone e consente di derogare in melius, sia in ordine al termine triennale di durata ragionevole del giudizio di primo grado, sia in riferimento alla quantificazione dell’indennizzo per il danno non patrimoniale – individuato nella somma di Euro 750,00, per ciascun anno di ritardo il parametro di indennizzo del danno non patrimoniale tenuto conto che nulla è stato dedotto circa la rilevanza della "posta in gioco", mentre è suscettibile di apprezzamento l’infondatezza della domanda, sia pure nei limiti precisali), va riconosciuta all’istante la somma di Euro 4.308.00, in relazione agli anni eccedenti il triennio (e cioè anni 5 e mesi nove; il giudizio si è protratto per anni 8 e mesi 9, dai quali vanno detratti anni tre), oltre interessi legali dalla domanda al saldo.
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza, quanto al giudizio di merito e per la metà quanto alla presente fase, dichiarando compensata la residua parte, sussistendo giusti motivi, in considerazione del parziale accoglimento del ricorso.
Le spese relative alla presente fase, concernenti il ricorso nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze, dichiarato inammissibile, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte:
Dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze e condanna il ricorrente a pagare le spese della presente fase, che liquida in Euro 900,00, oltre spese prenotate a debito; accoglievi corso proposto nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri, per quanto di ragione, nei termini precisati in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna la Presidenza del Consiglio dei ministri a corrispondere al ricorrente la somma di Euro 4.308,00, oltre interessi legali dalla domanda al saldo ed oltre alle spese processuali – per la metà, quanto alla presente fase, compensandosi la restante parte – e liquidate, quanto al giudizio di merito, in Euro 905,00, (di cui Euro 385,00 per diritti ed Euro 420,00, per onorari) e, quanto al giudizio di legittimità in Euro 450,00, di cui Euro 50,00, per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 24 giugno 2009.
Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2009