Con atto di citazione depositato presso la segreteria di questa Sezione in data 16 aprile 2009, ritualmente notificato, la Procura Regionale conveniva in giudizio S. C., magistrato ordinario, per sentirlo condannare al risarcimento in favore del Ministero della Giustizia, del danno complessivo di 36.909,31, di cui 6.909,31 a titolo di danno patrimoniale ed 30.000,00 a titolo di danno all’immagine, oltre interessi legali e spese di giudizio.
Esponeva l’Organo requirente che a seguito di denuncia trasmessa dal Ministero della Giustizia in data 30 settembre 2005, era emerso che la Corte d’Appello di Trento con due distinti decreti, aveva condannato l’Amministrazione Giudiziaria al risarcimento del danno ex lege Pinto, per l’eccessiva durata di due controversie civili incardinate presso l’allora Pretura di Pieve di Cadore rispettivamente in data 20 giugno 1985 e 31 gennaio 1986, ed assegnate entrambe all’odierno convenuto, all’epoca dei fatti magistrato in servizio nel predetto Ufficio Giudiziario (sin dal 22 dicembre 1992). In particolare, con il decreto 30/2002 il Ministero era stato condannato al pagamento della somma di 2.065,84 oltre alle spese processuali di 999,23 in favore del ricorrente Z. D.; con il successivo decreto 68/2002 al pagamento di 4.160,00 oltre alle spese processuali di 559,07 in favore di altri due ricorrenti, I. E. e Z. H..
Per il primo giudizio, durato in primo grado circa diciassette anni, la Corte d’Appello di Trento aveva stimato (con decreto 30/2002) una ragionevole durata di tre anni e l’Ispettorato Generale del Ministero aveva addebitato al S. almeno dieci anni dei complessivi quattordici eccedenti la normale durata, quantificando il danno ascrivibile alla condotta del magistrato in complessivi 2.189,34 (sulla base del seguente calcolo: 2.065,84+999,23=3.065,07:14×10).
Il secondo procedimento, invece, avrebbe potuto ragionevolmente concludersi, secondo il Giudice d’Appello, in non più di sette anni (decreto 68/2002), in luogo dei quindici effettivi e l’Ispettorato Generale del Ministero aveva addebitato al S. tutti gli otto anni eccedenti la normale durata, per un ammontare complessivo di 4.719,97 (( 4.160,00+559,07).
Per i medesimi episodi inoltre, la Sezione disciplinare del CSM con sentenza 100/2002 dell’11 ottobre-8 novembre 2002, aveva applicato al S. la sanzione della perdita di anzianità di gg. 30, sanzione che faceva seguito ad altre già inflitte in precedenza.
Ed invero, dalla documentazione acquisita risultavano aperti a carico del predetto magistrato, un primo procedimento disciplinare (n. 99/1993) conclusosi con sentenza del CSM del 19.7.1994 di irrogazione della censura; un secondo (n. 48/1995) conclusosi con sentenza del CSM del 28.6.1996 di irrogazione di una ulteriore censura; un terzo (n. 6/2002) relativo appunto ai due episodi sovra descritti, conclusosi con sentenza del CSM 100/2002 di irrogazione della sanzione della perdita di anzianità di 30 gg; un quarto conclusosi con sentenza del CSM n. 45/2002 di irrogazione della sanzione della perdita di anzianità di anni due.
La responsabilità del magistrato risultava altresì dalla relazione degli Ispettori ministeriali del 26 ottobre 2005 che avevano giudicato i ritardi nel deposito dei provvedimenti "del tutto privi di ragionevoli ed accettabili giustificazioni in guisa da non poter essere considerati fisiologici o frutto di circostanze contingenti".
Ravvisando sia un danno patrimoniale derivante dai decreti di condanna emessi dalla Corte d’Appello di Trento, che un danno all’immagine dell’Amministrazione della Giustizia per la risonanza data dagli organi di stampa alle vicende, la Procura regionale di questa Corte notificava un invito a dedurre al S. che faceva pervenire le proprie controdeduzioni, chiedendo ed ottenendo di essere sentito.
Eccepiva in particolare, di non essere responsabile dell’intero ritardo temporale addebitatogli dal Ministero e dalla Procura erariale e che, comunque, i problemi organizzativi dell’Ufficio giudiziario non potevano essere a lui ascritti.
Ritenendo permanere nella condotta dell’agente gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa, la Procura erariale conveniva in giudizio il S. sia per il danno patrimoniale subito dall’Amministrazione a seguito dell’accoglimento delle domande di equa riparazione per legge Pinto, che per il danno all’immagine, quantificando il primo in complessivi euro 6.909,31 come da denuncia di danno erariale trasmessa dal Ministero, ed il secondo ex art. 1226 c.c., in euro 30.000 tenuto conto del clamor fori, della reiterazione delle condotte, della posizione di vertice e di assoluta visibilità pubblica del convenuto.
Ai fini della sussistenza della colpa grave, l’Organo requirente rilevava che i ritardi nel deposito dei provvedimenti giudiziari erano stati giudicati dagli Ispettori ministeriali e dal CSM, "sistematici" e dipendenti da negligenza e neghittosità del magistrato e sintomatici di incapacità di gestione ed organizzativa del proprio lavoro.
Con memoria depositata in data 16 luglio 2009 si costituiva il convenuto con il patrocinio dell’Avv. Francesco Curato. Relativamente al danno patrimoniale, eccepiva che il ritardo ad egli addebitabile non era tutto quello contestato dal Ministero e dalla Procura erariale. In particolare, quanto al primo procedimento civile, oggetto del decreto di condanna 30/2002, contestava l’addebito di dieci anni di ritardo, assumendo che, al più, avrebbe potuto a lui ascriversi il tempo trascorso tra la data della decisione in camera di consiglio (4.4.1995) e la data del deposito della sentenza (15.3.2002), per un totale di quasi sette anni.
Quanto al secondo procedimento, oggetto del decreto 68/2002, riteneva che il ritardo a lui addebitabile era semmai di quattro anni e mezzo, dalla data dell’assunzione della causa in decisione (17.12.1996) al deposito della sentenza (7.8.2001), in luogo degli otto anni addebitatigli dalla Corte d’Appello. Eccepiva inoltre, che alla data di assegnazione del fascicolo (15.7.1994) era già abbondantemente trascorso il limite di durata normale indicato per quel giudizio (sette anni) dalla Corte di appello di Trento. Chiedeva pertanto, sulla scorta del parametro di calcolo utilizzato dal Ministero e fatto proprio dalla Procura erariale, che il danno patrimoniale venisse ridotto per il primo procedimento ad 1.532,53 e che, quello per il secondo procedimento, venisse azzerato o, in subordine, quantificato in 2.360,00.
Quanto al presunto danno all’immagine, ne eccepiva innanzitutto la prescrizione quinquennale, essendo decorsi ben più di 5 anni tra la data dei decreti della Corte d’Appello (2002) e quella della notifica dell’invito a dedurre (2008), non preceduto da uno specifico atto di costituzione in mora come invece, per il danno patrimoniale. In subordine, ne contestava l’esistenza per difetto del requisito del clamor fori, atteso che gli articoli di stampa allegati dalla Procura erano relativi ad altri episodi, mentre dei fatti oggetto dei due decreti di condanna non vi era stata alcuna propalazione.
Con istanza depositata in data 14 settembre 2009, la difesa eccepiva la nullità della domanda risarcitoria per il presunto danno all’immagine, in assenza di una sentenza penale di condanna del convenuto per uno dei reati di cui all’art. 7 della legge 97/2001, ai sensi dell’art. 17 comma 30 ter del decreto legge 78/2009, convertito in legge 102/2009, così come modificato dal decreto legge 3 agosto 103/2009.
Con memoria depositata in data 17 settembre 2009 il Sostituto Procuratore Generale replicava alla suddetta istanza, preliminarmente eccependo l’inapplicabilità del citato art. 17 comma 30 ter alla fattispecie in esame ai sensi dell’art. 5 c.p.c., essendo stato l’atto di citazione depositato (20.4.2009) e notificato in epoca antecedente alla data di entrata in vigore della norma.
In via subordinata, sollevava questione di legittimità costituzionale della normativa in questione per violazione del principio di uguaglianza ex art. 3, comma 1 Cost., nonché degli artt. 24 comma 1, 97, 108 e 103 della Carta costituzionale. Deduceva altresì la violazione del principio della ragionevole durata del processo ai sensi dell’art. 111, comma 2 Cost., riservandosi di ulteriormente controdedurre all’udienza di discussione.
All’odierna udienza il rappresentante della Procura ribadiva le deduzioni di cui alla memoria del 17 settembre 2009 insistendo per l’accoglimento delle conclusioni ivi rassegnate, mentre la difesa instava per l’applicabilità della recente normativa sul danno all’immagine e per la conseguente nullità parziale dell’atto di citazione. Al termine della discussione la causa veniva riservata per la decisione.

DIRITTO
Nella presente fattispecie vengono in rilievo due distinte poste di danno: un danno patrimoniale cd. indiretto, pari ad 6.909,31, ed un danno diretto all’immagine della Amministrazione della Giustizia quantificato equitativamente in 30.000,00. Ritiene il Collegio di esaminare distintamente le due partite di danno.
Relativamente al danno indiretto, si osserva quanto segue.
Trattasi del danno patrimoniale derivante da due decreti della Corte d’Appello di Trento con cui il Ministero della Giustizia è stato condannato ai sensi della legge 89/2001 (legge Pinto), al pagamento a titolo di equa riparazione di 3.065,07 in un primo procedimento (decreto 30/2002) e di 4.719,97 in un secondo procedimento (decreto 68/2002).
Il convenuto non ha negato la propria responsabilità in ordine ai fatti di causa, limitandosi a contestare il quantum di danno a lui ascritto. Ed invero, in ordine al primo procedimento, a fronte di una condanna dell’Amministrazione ad 3.065,07, l’Ispettorato Generale del Ministero prima e la Procura erariale dopo, hanno addebitato al convenuto 2.189,34; relativamente al secondo procedimento, invece, l’intero danno di 4.719,97 è stato ascritto al S..
Sostiene, in sintesi, la difesa, che il ritardo imputabile a colpa grave del magistrato, in entrambi i procedimenti civili oggetto dei ricorsi ex lege Pinto, sia soltanto quello relativo al deposito della sentenza, vale a dire il lasso di tempo intercorso tra l’assunzione della causa in decisione ed il deposito in cancelleria della sentenza, ma non anche il tempo antecedente e "corrispondente alla durata fisiologica del processo".
Ritiene il Collegio condivisibili le contestazioni della difesa, ancorché per ragioni diverse da quelle addotte dall’interessato.
Dall’esame della documentazione in atti, emerge, all’evidenza, la colpa grave del magistrato nel tardivo deposito dei provvedimenti giudiziari, trattandosi di ritardi pluriannuali (7 e 5 anni) assolutamente abnormi rispetto ai termini di legge ed ingiustificati, pur tenuto conto dei gravi problemi familiari e delle difficoltà organizzative dell’Ufficio. Le numerose sanzioni disciplinari irrogate dal CSM, erano, infatti, tutte relative ai gravissimi, reiterati ed ingiustificati ritardi nel deposito delle sentenze, ritardi definiti "oggettivamente rilevanti per numero ed entità" e tali da non poter "trovare giustificazione in altri parametri valutativi della laboriosità e produttività del magistrato, ovvero in situazioni di natura extra-giudiziaria".
Non v’è dubbio, quindi, che l’attività di stesura della motivazione di sentenze e ordinanze, alla base dei contestati ritardi, sia connotata da colpa grave, né d’altro canto, il convenuto ha mai contestato nella materialità, tale specifico addebito, pur tentando di giustificarlo in vario modo. Pertanto, ai fini della responsabilità erariale, deve sicuramente ascriversi a condotta gravemente colposa del magistrato il lasso di tempo decorrente dalla data dell’assunzione dalla causa in decisione, alla data del deposito della sentenza che, nello specifico, risulta essere di sette anni (dal 4.4.1995 al 15.3.2002) per il procedimento civile di cui al decreto di condanna 30/2002 della C.A. di Trento, e di quasi cinque anni (dal 17.12.1996 al 7.8.2001) per il procedimento civile di cui al successivo decreto di condanna 68/2002.
Il lasso di tempo antecedente all’assunzione della causa in decisione, invece, non può, nel caso specifico, addebitarsi al convenuto non già perché "corrispondente alla durata fisiologica del processo", ma per difetto di prova di colpa grave.
In particolare, per quanto riguarda il procedimento civile (RG 509/1985) di cui al decreto C.A. Trento 30/2002, si osserva quanto segue.
Dalla documentazione in atti, risulta che trattavasi di causa per risoluzione di un contratto di compravendita di autoveicolo, introdotta con atto di citazione notificato il 20.6.1985; la fase istruttoria iniziale si era protratta dal 31.7. 1985 -con assunzione delle prove testimoniali all’udienza del 13.1.1987- al 15.11.1988, udienza di precisazione delle conclusioni, con rimessione della causa all’udienza collegiale del 29.1.1991; detta udienza non si era tenuta per trasferimento del giudice istruttore (dott. Fabbri) ad altra sede; in data 30.5.1992 la causa veniva assegnata ad un nuovo giudice (dott. S.) che prendeva possesso dell’ufficio solo successivamente in data 22.12.1992; questi fissava una nuova udienza collegiale il 7.3.1995 nella quale la causa veniva trattenuta in decisione; nella camera di consiglio collegiale del 4.4.1995 la causa veniva decisa e la sentenza depositata il 15.3.2002.
Il procedimento civile -durato complessivamente circa 17 anni- avrebbe potuto concludersi, secondo la C.A. di Trento, in non più di tre anni. Dei 14 anni eccedenti, l’Ispettorato Generale del Ministero prima e la Procura erariale dopo, hanno addebitato al S. "almeno dieci anni di ritardo", per un ammontare di 2.189,34. Presumibilmente, quindi, il decennio di ritardo addebitato al convenuto a titolo di danno erariale riguarda il periodo 1992-2002. Ebbene, mentre per l’arco temporale dal 4.4.1995 (data camera di consiglio) al 15.3.2002 (data deposito sentenza), risulta pienamente provata la colpa grave del convenuto alla luce di quanto innanzi detto, non sussistono elementi, invece, che comprovino una condotta gravemente colposa per i tre anni antecedenti l’udienza di discussione (dal 22.12.1992, data della presa di possesso, al 7.3.1995, udienza collegiale).
D’altronde, a fronte di tale specifica eccezione, sollevata già in sede di controdeduzioni all’invito a dedurre, l’Organo Requirente ha replicato ritenendo la circostanza irrilevante "in quanto resta fermo ed inconfutabile il dato oggettivo del ritardo grave e patologico nei processi, del quale è stato chiamato a rispondere, a titolo oggettivo, il Ministero della Giustizia".
Osserva il Collegio che l’onere della prova degli elementi costitutivi della responsabilità amministrativo contabile -che, come noto, non è di tipo oggettivo, come invece quella di cui alla legge Pinto 89/2001- incombe sulla Procura attrice che, nel caso specifico, non ha fornito alcun elemento di prova circa l’ascrivibilità a condotta gravemente colposa dell’agente, della durata del giudizio relativamente al periodo 1992-1995.
Né, d’altro canto, può presumersi -in mancanza di elementi di riscontro- la colpa grave per aver fissato solo in data 29.12.1993 (ad oltre un anno dall’immissione in possesso), l’udienza di discussione collegiale della causa per il giorno 7.3.1995. Le ragioni di tale operato, al contrario, risultano adeguatamente esplicitate dal Capo dell’Ufficio giudiziario dell’epoca. Nella relazione del Presidente f.f. del Tribunale di Belluno, dott. Roberto Coppari, indirizzata all’Avvocato dello Stato di Trento, dott. Pier Alberto Trovatello, si legge, infatti, che il S. "fissò l’udienza del 7.3.1995 il 29.12.1993, in quanto già prima dell’immissione in possesso, si era provveduto alla formazione di un suo regolare ruolo collegiale, per provvedimento del Presidente del Tribunale (ruolo composto non esclusivamente dalle cause del dr. Fabbri trasferito; ma anche da cause di altri colleghi. (……) Il ritardo, pertanto, nella definizione della causa appare conseguenza di obiettive difficoltà strutturali del Tribunale di Belluno derivanti dalla indisponibilità di magistrati destinati alla trattazione esclusiva di cause del settore civile ed altresì, per converso, dalla necessità di impiegare promiscuamente magistrati addetti al settore civile anche, e con poderosi impegni, nel settore penale".
Non vi sono elementi, quindi, per addebitare a grave incuria o negligenza del convenuto il lasso temporale intercorso tra la data di immissione in servizio e quella dell’udienza collegiale, sicché la quota parte di danno erariale indiretto relativa a detto periodo non può essere posta a carico del convenuto.
Relativamente al procedimento civile (RG 98/1986) di cui al decreto C.A. Trento 68/2002, si osserva quanto segue.
Dalla documentazione in atti, risulta che trattavasi di causa per accertamento di servitù di passaggio e risarcimento danni, introdotta con atto di citazione notificato il 31.1.1986, il 3.2.1986 e il 4.2.1986 a sette convenuti; l’iter di svolgimento del giudizio, per il periodo antecedente all’immissione in servizio del S., risulta analiticamente descritto nel decreto della Corte d’Appello di Trento; per il periodo coevo ed immediatamente successivo, risulta che la causa veniva rinviata all’udienza collegiale del 10.11.1992 che non si svolgeva per la necessità di procedere alla nomina di un nuovo G.I.; con decreto presidenziale del 15.7.1994 la causa veniva assegnata al S. il quale fissava l’udienza collegiale del 17.12.1996 in cui la causa veniva trattenuta in decisione e la sentenza depositata il 7 agosto 2001.
Il procedimento civile -durato complessivamente 15 anni- avrebbe potuto ragionevolmente concludersi, secondo la C.A. di Trento, in non più di sette anni. L’Ispettorato Generale del Ministero prima e la Procura erariale dopo, hanno addebitato al S. gli otto anni eccedenti, per un ammontare complessivo di 4.719,97. Presumibilmente, quindi, gli otto anni di ritardo addebitati al convenuto a titolo di danno erariale riguardano il periodo 1993-2001. Ebbene, mentre per l’arco temporale 17.12.1996 (data camera di consiglio) -7.8.2001 (data deposito sentenza), risulta pienamente provata la colpa grave del convenuto alla luce di quanto innanzi detto, non sussistono elementi, invece, che comprovino una condotta gravemente colposa anche per il periodo antecedente l’udienza collegiale di discussione (cioè dal 15.7.1994, data di assegnazione della causa, al 17.12.1996, data dell’udienza collegiale). In particolare, la fissazione dell’udienza collegiale (17.12.1996) a distanza di oltre due anni dall’assegnazione del fascicolo (15.7.1994), può essere dipesa da circostanze diverse, non necessariamente ascrivibili a grave incuria del magistrato, quali, ad esempio, la consistenza numerica del ruolo collegiale assegnato al S. e l’esistenza di controversie di più remota iscrizione a ruolo con "diritto" di precedenza per la decisione (come si evince dalla relazione del 27.7.2002 a firma del magistrato ed indirizzata al Presidente del Tribunale di Belluno). A tal fine, sarebbe stato opportuno, se non necessario, individuare i criteri adottati dal Presidente del Tribunale per la formazione dei ruoli collegiali e il rispetto, o meno, di tali criteri da parte del S. nella formazione del proprio ruolo collegiale.
Il mero dato oggettivo rappresentato dal tempo intercorso tra l’assegnazione del fascicolo e la data dell’udienza collegiale, in assenza di altri elementi di riscontro, non può tradursi, infatti, in una presunzione juris tantum di grave colpevolezza, occorrendo la prova positiva di un contegno gravemente negligente ed improntato al disprezzo delle regole, prova che nella specie non è stata fornita. La quota parte di danno erariale indiretto relativa a detto periodo (cioè dal 15.7.1994, data di assegnazione della causa, al 17.12.1996, udienza collegiale) non può, quindi, essere posta a carico del convenuto.
Non appare condivisibile, invece, l’eccezione difensiva secondo cui nulla sarebbe dovuto per tale secondo procedimento essendo già decorso -alla data di assegnazione del fascicolo al S. (15.7.1994)- il limite di durata ragionevole di quel processo fissato in sette anni dalla C.A. di Trento.
L’accoglimento della tesi difensiva, infatti, potrebbe condurre ad una sostanziale deresponsabilizzazione del magistrato in tutti quei casi in cui, come nella specie, al momento dell’assegnazione della causa, sia già decorso il termine di ragionevole durata del giudizio, legittimando di fatto ulteriori allungamenti dei tempi processuali.
Conclusivamente, il danno erariale indiretto ascrivibile a condotta gravemente colposa del convenuto, deve essere rideterminato -sulla base del medesimo criterio di calcolo indicato nella denuncia di danno erariale, riprodotto nell’invito a dedurre e non contestato- in ¬ 1.532,83 (3.065,67 :14 anni x 7 anni) per il primo procedimento, ed in ¬ 2.753,31 (4.719,97 :8 anni x 4 anni e 8 mesi; rapportato su base mensile = 4.719,97 : 96 x 56) per il secondo procedimento.
Passando al danno all’immagine, occorre esaminare dapprima le questioni preliminari relative all’art. 17 comma 30 ter del decreto legge 78/2009, convertito in legge 102/2009, così come modificato dal decreto legge 3 agosto 103/2009, convertito -nelle more della stesura della presente decisione- in legge 3 ottobre 2009 n. 141.
La norma prevede che: "Le procure della Corte dei conti possono iniziare l’attività istruttoria ai fini dell’esercizio dell’azione di danno erariale a fronte di specifica e concreta notizia di danno, fatte salve le fattispecie direttamente sanzionate dalla legge. Le procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e modi previsti dall’art. 7 della legge 27 marzo 2001 n. 97. A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994 n. 20, è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale. Qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle disposizioni di cui al presente comma, salvo che sia stata già pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è nullo e la relativa nullità può essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta".
La Procura ha eccepito in primis la inapplicabilità della suddetta normativa alla fattispecie per cui è causa.
Sostiene il Requirente che la nuova norma non sia operativa per le domande giudiziali già proposte prima della sua entrata in vigore, ai sensi dell’art. 5 c.p.c. "Essa riguarda uno specifico presupposto dell’azione di responsabilità in tema di risarcimento di danni all’immagine, non previsto in precedenza e che non ha effetto retroattivo". L’atto di citazione, infatti, risulta depositato in data 20 aprile 2009 e notificato in data 28 aprile 2009, quindi in epoca antecedente all’entrata in vigore della norma (5 agosto 2009).
Secondo il rappresentante della Procura, anche la formulazione letterale del 4^ capoverso del comma 30 ter dell’art. 17, lascerebbe propendere per l’inapplicabilità della disposizione al caso di specie. Ed invero, l’inciso "posto in essere" unitamente all’altro "di cui al presente comma" andrebbe interpretato nel senso che la norma richieda come condizione per la sua operatività, la contestualità temporale dell’atto istruttorio/processuale posto in essere con la vigenza della norma. Poiché, nel caso di specie, l’atto introduttivo del giudizio è stato depositato e notificato quando la norma non era stata ancora emanata, la stessa non troverebbe applicazione.
L’assunto accusatorio non pare condivisibile. Ed invero, proprio il 4^ capoverso del comma 30 ter dell’art. 17 induce a ritenere la norma immediatamente applicabile a tutti i procedimenti pendenti alla data della sua entrata in vigore e, quindi, anche al giudizio in corso, come reso evidente dalla esclusione della sola circostanza costituita dalla avvenuta pronuncia di sentenza anche non definitiva, alla medesima data. Nella sostanza, la norma non si applica alle sole sentenze già pronunciate alla data di entrata in vigore della legge di conversione 102/2009 (5 agosto 2009). Trattasi, evidentemente, di norma di diritto transitorio che deroga all’art. 5 c.p.c., norma generale, e, come tale, inapplicabile in fattispecie.
Quanto all’interpretazione degli incisi "posto in essere" e "di cuialpresente comma", occorre rilevare che la norma va letta nella sua globalità sicché la tesi della Procura non pare condivisibile perché non tiene conto del periodo immediatamente successivo "salvo che sia stata già pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto".
Alla luce delle esposte considerazioni e conformemente al recentissimo orientamento della giurisprudenza contabile sul punto (v. Sez. Giurisd. Lazio, ordinanze n. 418/2009, 419/2009, 423/2009, depositate il 28 e 30 settembre 2009), l’eccezione di inapplicabilità al presente giudizio della recente normativa, deve essere respinta.
In via subordinata, la Procura ha chiesto "la sospensione del presente giudizio ritenendo sussistere i presupposti di rilevanza e non manifesta infondatezza per attivare il ricorso al giudizio di costituzionalità in via incidentale dinanzi alla Corte Costituzionale, poiché la normativa in discussione comprime sensibilmente la giurisdizione contabile in tema di risarcimento danni all’immagine, in violazione dei principi fondamentali della costituzione".
In particolare, secondo la Procura, "risulta leso innanzitutto il principio di uguaglianza, exart. 3, comma 1 Cost., in quanto l’applicazione della norma considerata riduce l’esercizio dell’azione del PM alla presenza di due presupposti: 1) l’esistenza di una sentenza irrevocabile di condanna pronunciata dal giudice penale; 2) la limitazione della tipologia di delitti contro la PA ai pubblici dipendenti indicati nell’articolo 7 della legge 97/2001, cioè nel capo 1^ del titolo 2^ del libro 2^ del codice penale, vale a dire i delitti previsti dall’art. 314 all’art. 335 bis c.p. Rispetto al secondo elemento, risulta escluso dall’azione contabile per danno all’immagine un vasto numero di delitti posti in essere da pubblici ufficiali, diversi da quelli espressamente indicati, anche quando la condanna penale concerna reati infamanti, tali da comportare un’interdizione dai pubblici uffici…(…) In sintesi, l’esclusione dall’azione contabile ed il diverso trattamento processuale dipenderebbero esclusivamente dalla collocazione della norma incriminatrice in articoli diversi da quelli richiamati dall’art. 7 della legge 97/2001".
La norma sarebbe "altresì in contrasto con l’art. 24, comma 1 Cost., in quanto impedisce al PM contabile di agire in giudizio per numerosi illeciti riguardanti danni all’immagine, cagionati da agenti pubblici in pregiudizio di pubbliche amministrazioni, in base ad una previsione limitata ed arbitraria del legislatore d’urgenza".
Parimenti, sarebbe violato l’art. 97 Cost., poiché il buon andamento della PA verrebbe "sostanzialmente compresso dalla restrizione dell’attività giurisdizionale del PM per le ragioni appena considerate.
Ancora, risulterebbero "ingiustificatamente ridotti i poteri di indagine del PM contabile", sotto il profilo della sua autonomia, garantita dall’art. 108 Cost., e dell’ambito operativo nelle materie di contabilità pubblica ai sensi dell’art. 103 Cost.
Infine, verrebbe violato il principio della ragionevole durata del processo, ex art. 111, comma 2 Cost., in quanto verrebbe consentito al PM contabile l’apertura dell’istruttoria a seguito della comunicazione ex art. 129 c.p.p., ma l’effettivo esercizio dell’azione contabile per il danno all’immagine rimarrebbe sospeso in attesa di una sentenza di condanna penale irrevocabile. Di fatto, la norma censurata avrebbe finito col reintrodurre la cd. pregiudiziale penale, provocando un allungamento dei tempi processuali.
Ciò stante, occorre verificare la sussistenza delle condizioni di proponibilità delle questioni sotto il duplice aspetto della rilevanza e della non manifesta infondatezza (art. 23 legge 87/1953).
Quanto alla rilevanza, si osserva quanto segue.
La norma censurata stabilisce che "Le Procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e modi previsti dall’art. 7 della legge 27 marzo 2001 n. 97. A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994 n. 20, è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale".
Il danno all’immagine della PA -rientrante nella giurisdizione contabile in base al consolidato orientamento della Corte di Cassazione (Cass. SS.UU. n. 5668/1997; n. 744/99; n. 14990/2005; n. 8098/2007) e perseguibile in presenza di comportamento illecito connotato da dolo o colpa grave ancorché non integrante reato, secondo il noto insegnamento delle SSRR di questa Corte (sent. 10/QM/2003)-, rimane ora soggetto alla giurisdizione contabile solo nei termini e modi previsti dall’art. 7 della legge 27 marzo 2001 n. 97 (norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), vale a dire solo in presenza di un giudicato penale di condanna per uno dei delitti di cui agli artt. 314-335bis c.p. Ne consegue la sottrazione alla giurisdizione contabile di tutte le fattispecie non derivanti da reato, come quella in esame, nonché di quelle che pur raggiungendo la soglia della punibilità penale, non rientrano nella tipologia dei "delitti contro la PA".
La questione di legittimità costituzionale è dunque rilevante nel presente giudizio (ad eccezione di quanto -in seguito- si dirà in relazione all’art. 3 Cost., secondo aspetto censurato), atteso che dall’applicabilità della norma censurata di incostituzionalità dipende la sussistenza, o meno, della giurisdizione di questa Corte sul danno all’immagine derivante da fattispecie non delittuosa, come nella specie.
Quanto alla dedotta non manifesta infondatezza delle questioni, il vaglio va fatto, ovviamente, con riferimento alle singole censure sollevate dalla Procura e sopra riportate.
Con riguardo alla violazione dell’art. 3 comma 1 Cost., censurata sotto un duplice aspetto, appare utile esaminare le argomentazioni attoree seguendo l’ordine espositivo di cui alla memoria.
Quanto al primo aspetto censurato (v. sopra sub 1), secondo cui la norma sarebbe illegittima perché limiterebbe l’esercizio dell’azione contabile ad una sentenza penale irrevocabile di condanna, si osserva quanto segue.
La scelta di circoscrivere la giurisdizione contabile sul danno all’immagine ai soli casi in cui l’agente abbia riportato una condanna penale irrevocabile, è espressione della discrezionalità di cui gode il legislatore nella conformazione delle fattispecie di responsabilità. Ed invero, non vi sono dubbi "che il legislatore sia arbitro di stabilire non solo quali comportamenti possano costituire titolo di responsabilità, ma anche quale grado di colpa sia richiesto ed a quali soggetti la responsabilità sia ascrivibile (sent. C.Cost. 411/88), senza limiti o condizionamenti che non siano quelli della non irragionevolezza e non arbitrarietà (C. Cost. 371/98)".
Ritiene il Collegio, quindi, che la scelta legislativa di limitare la giurisdizione contabile in tema di danno all’immagine entro i confini di un giudicato penale irrevocabile, per quanto appaia in contrasto col consolidato orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione e delle SSRR di questa Corte, non possa ex se reputarsi irragionevole, né arbitraria. D’altronde, al di là di una generica censura sul punto, non sono stati illustrati, né addotti, specifici profili di irragionevolezza e/o arbitrarietà della scelta legislativa.
Quanto al secondo aspetto censurato (vedi sopra sub 2), secondo cui la norma sarebbe incostituzionale perché limita l’azione contabile sul danno all’immagine ai soli delitti previsti dall’art. 314 all’art. 335 bis c.p., escludendo in tal modo altre fattispecie delittuose altrettanto infamanti ed offensive della pubblica immagine sol perché non rientranti nella tipologia dei "delitti contro la PA", deve evidenziarsi, come già anticipato, la mancanza del presupposto della rilevanza.
Essa infatti, non ha alcuna attinenza con la fattispecie oggetto di causa. Nel presente giudizio non v’è stata condanna per reati diversi da quelli espressamente previsti dal legislatore, sicché la presunta discriminazione tra norme incriminatrici, non avrebbe comunque alcuna rilevanza ai fini della decisione. Ed infatti, la censura è evidentemente finalizzata ad ottenere -sul punto specifico- una pronuncia "additiva" della Corte che dichiari l’incostituzionalità della norma nella parte in cui non prevede l’estensione della giurisdizione contabile anche ad altre fattispecie delittuose altrettanto offensive della pubblica immagine; ma una tale, ipotetica, pronuncia rimarrebbe inutiliter data nel presente caso per la cui decisione la questione non rileva.
In relazione all’art. 24 comma 1Cost., va richiamato il pacifico orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo cui "la garanzia apprestata dall’art. 24 opera attribuendo tutela processuale alle situazioni giuridiche soggettive nei termini in cui queste risultano riconosciute dal legislatore; di modo che quella garanzia trova confini nel contenuto del diritto al quale serve e si modella sui concreti lineamenti che il diritto stesso riceve dall’ordinamento (C. Cost. 371/98)". Ne consegue che il lamentato impedimento del PM contabile di agire in giudizio per il danno all’immagine, altro non è che il riflesso della nuova disciplina sul risarcimento del danno all’immagine della PA siccome delineata dalla norma censurata, la cui irragionevolezza/arbitrarietà è stata solo denunciata, ma non puntualmente argomentata.
Circa la lamentata violazione del principio del buon andamento della PA, garantito dall’art. 97 Cost. e, secondo la Procura "sostanzialmente compresso dalla restrizione dell’attività giurisdizionale del PM per le ragioni appena considerate", la consolidata giurisprudenza costituzionale ha più volte ribadito che l’art. 97 attiene solo all’attività amministrativa, all’organizzazione dell’amministrazione secondo principi di imparzialità e di buon andamento, mentre rimane "estraneo all’esercizio della funzione giurisdizionale (C. Cost. sent. 433/2000; sent. 174/2005; ord. 44/2006; sent. 272/2008)".
Per quanto riguarda le prerogative del PM, secondo la giurisprudenza costituzionale, la garanzia apprestata dall’art. 108 comma 2 Cost. "mira ad assicurare, come questa Corte ha già avuto occasione di chiarire (C. Cost. sent. 40/1964; n. 234/76; n. 375/96), che l’attività giurisdizionale si svolga sotto l’esclusivo imperio della legge, senza inammissibili influenze esterne (C. Cost. 433/2000)". La norma quindi, garantisce l’autonomia e l’indipendenza del PM contabile dagli altri poteri dello Stato, sicché la censura appare destituita di fondamento atteso che la norma impugnata non pregiudica, né pone in pericolo tale autonomia.
Quanto all’art. 103 comma 2 Cost., va ricordato che detta norma "ha solo la finalità di riservare alla Corte dei conti la giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica, secondo ambiti la cui concreta determinazione, peraltro, è rimessa alla discrezionalità del legislatore (C. Cost. 371/98)". Il Giudice delle Leggi ha più volte sottolineato in proposito, la natura solo tendenzialmente generale della giurisdizione della Corte nelle materie di contabilità pubblica, statuendo che è il legislatore a determinare la sfera di giurisdizione dei giudici, ed in tale interpositio legislatoris deve individuarsi il limite funzionale delle attribuzioni giurisdizionali della Corte (C. Cost. 129/81; 641/87). Valgono quindi le considerazioni già svolte con riguardo alla censurata violazione dell’art. 3, comma 1 Cost., trattandosi di scelta discrezionale del legislatore la cui arbitrarietà e irragionevolezza non risulta neppure dedotta.
Per quanto attiene alla supposta violazione dell’art. 111 Cost., deve evidenziarsi che l’invocato parametro costituzionale riguarda "il processo" e non l’attività pre-processuale cui, evidentemente, fa riferimento il Requirente nella memoria. L’attività processuale infatti, ha inizio con l’emissione dell’atto di citazione che, ai sensi della norma censurata, potrà essere depositato dal PM contabile nella segreteria della Sezione solo dopo la comunicazione della sentenza penale di condanna irrevocabile, sicchè è evidente che l’art. 30 ter non incide sulla durata del "processo", ma al più, su quella dell’attività istruttoria pre-processuale che, tuttavia, non è assistita dalla garanzia di cui all’art. 111 Cost. (v. Cass. Pen. sez. III n. 40974/2002; C. Cost. 513/2002).
Né, d’altro canto, l’eventuale allungamento dei tempi della fase pre-processuale può produrre effetti sul decorso della prescrizione dell’azione erariale, atteso che la norma ha espressamente previsto la sospensione del termine di prescrizione fino alla conclusione del procedimento penale.
Le stesse considerazioni valgono per la cd. pregiudiziale penale che, secondo la Procura, sarebbe stata reintrodotta dalla censurata norma sul danno all’immagine. L’istituto della pregiudizialità penale, previsto dall’art. 3 del codice di procedura penale abrogato, era ispirato al principio, in precedenza vigente, della unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale sul giudizio civile con conseguente sospensione necessaria del giudizio civile fino al passaggio in giudicato della sentenza penale. La pregiudiziale penale dunque, presupponeva la contestuale pendenza dei due "giudizi", di cui quello penale -per il suo carattere pregiudiziale-, costituiva l’inevitabile antecedente logico giuridico dal quale dipendeva la decisione della causa civile pregiudicata. Il contesto dell’istituto era dunque il "processo", l’attività processuale in itinere.
La fattispecie sul danno all’immagine disciplinata dall’art. 30 ter, invece, si inserisce in un contesto pre-processuale, comportando la sospensione non già del "processo" che ancora non è iniziato, ma, semmai, dell’attività istruttoria del PM contabile. Nella sostanza, la norma ha introdotto un presupposto dell’azione contabile per il danno all’immagine, rappresentato dalla sentenza penale di condanna irrevocabile.
La dedotta violazione dell’art. 111 Cost. nel duplice aspetto rappresentato, è da ritenersi, quindi, destituita di fondamento.
Le questioni di legittimità costituzionale della norma così come formulate dal Requirente, appaiono, pertanto, prive del requisito della non manifesta infondatezza.
Ciò stante, in accoglimento della richiesta della difesa pervenuta in data 14 settembre 2009, non può che dichiarasi -ai sensi dell’art. 17 comma 30 ter del DL 78/09, convertito in legge 102/09, così come modificato dal DL103/09, convertito in legge 141/2009- la nullità dell’atto di citazione limitatamente al capo relativo al danno all’immagine, non essendo rinvenibili, nel caso di specie, i presupposti di cui all’art. 7 della legge 97/2001. È pacifico ed incontestato, infatti, che il S. non ha riportato alcuna condanna penale per uno dei delitti di cui agli artt. 314-335 c.p.
La declaratoria di nullità dell’atto introduttivo del giudizio, preclude ogni esame del merito della domanda relativa al danno all’immagine.
Conclusivamente, il convenuto deve essere condannato al risarcimento del danno patrimoniale complessivo di 4.286,14, determinato come sopra (( 1.532,83 + 2.753,31), oltre rivalutazione monetaria decorrente dalla data in cui il Ministero della Giustizia ha posto in pagamento i decreti di condanna della C.A. di Trento, nonché interessi legali dal deposito della presente sentenza al saldo.
Le spese di lite come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale Regionale per il Veneto, rigettata ogni altra questione, definitivamente pronunciando così provvede:
– Dichiara la nullità parziale dell’atto di citazione depositato in data 20.4.2009, limitatamente al capo di domanda relativo al danno all’immagine, ai sensi dell’art. 17, comma 30 ter del DL 78/2009 convertito in legge 102/2009, come modificato dal DL 103/2009, convertito in legge 141/2009;
-Condanna il convenuto al risarcimento in favore del Ministero della Giustizia del danno patrimoniale di euro 4.286,14 oltre rivalutazione monetaria dall’esborso, nonché interessi legali dal deposito della presente sentenza al saldo;
– Condanna il convenuto al pagamento delle spese di lite che si liquidano in 302,56 (euro trecentodue/56 centesimi)
Così deciso in Venezia, all’udienza del 23 settembre 2009.
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 14 OTT. 2009.