La Corte, letti gli atti e sciogliendo la riserva formulata all’udienza del 1° ottobre 2009, osserva quanto segue.
1. Con il ricorso introduttivo del presente procedimento Tizia, nella dichiarata qualità di unica erede di Caio, dichiarato fallito con sentenza del (omissis), ha chiesto il riconoscimento, a titolo di equa riparazione per l’irragionevole durata di quella procedura, dell’importo di euro (omissis) iure hereditario, nonché di euro (omissis) iure proprio.
2. Si è costituito il Ministero della Giustizia, deducendo; a) che i familiari del fallito non sono equiparabili al fallito stesso, sicché alla ricorrente può riconoscersi solo l’eventuale indennizzo sorto in capo al fallito al momento del suo decesso, fermo restando che dalla relativa data decorreva il termine decadenziale e, comunque, quello di prescrizione; b) che la durata della procedura fallimentare si connota per la particolare complessità correlata anche alla circostanza che è di regola necessario promuovere diversi procedimenti incidentali.
3. Ciò premesso, vanno innanzitutto disattese le eccezioni di rito sollevate dal Ministero convenuto.
Invero, ai sensi dell’art. 4 L. n. 89/2001, "la domanda dì riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento è divenuta definitiva".
Ne consegue che il dies in questione decorre, nei casi in cui si discuta dell’irragionevole durata di una procedura fallimentare, dal momento della pronuncia dichiarativa della relativa chiusura; e poiché nella procedura di cui si discute tale pronuncia non è ancora intervenuta, non possono ritenersi verificate le conseguenze dedotte dal Ministero convenuto.
4. Deve, dunque, valutarsi se alla ricorrente spetti il chiesto indennizzo iure proprio.
Al riguardo si osserva che la Corte Suprema ha costantemente ritenuto che la domanda di equo indennizzo avanzata dagli eredi in relazione al corso del procedimento svoltosi dopo il decesso del loro dante causa, deve disattendersi ove gli stessi non abbiano assunto, a loro volta, la qualità di parte in quello stesso procedimento (Cass. 26686/2006 e 2983/2008).
Ora, ai sensi dell’art. 12 l.f., se l’imprenditore muore dopo la dichiarazione dl fallimento, la procedura prosegue nei confronti degli eredi, anche se hanno accettato con beneficio d’inventario.
Al riguardo, premesso che la dottrina ritiene che, quand’anche l’accettazione fosse pura e semplice, agli organi fallimentari sarebbe, comunque, preclusa la possibilità di apprendere i beni dell’erede, va evidenziato che la presenza degli eredi nel procedimento fallimentare è un dato puramente formale, come può desumersi dalla previsione contenuta nel 2 comma dello stesso art. 12, per il quale, se ci sono più eredi, la procedura prosegue in confronto di quello che è designato come rappresentante, o, in mancanza di accordo, dal giudice delegato.
In conclusione, deve dunque ritenersi, come osservato in giurisprudenza, che la "prosecuzione" prevista dall’art. 12 miri unicamente ad impedire che la morte del fallito determini l’interruzione degli strumenti processuali rivolti alla più sollecita soddisfazione dei creditori.
Del resto, la conferma dell’impossibilità di ritenere che gli eredi possano subire le conseguenze negative del procedimento fallimentare aperto nei confronti del loro dante causa può desumersi dall’art. 11 l.f., il quale prevede la possibilità che l’erede chieda il fallimento del defunto, purché l’eredità non sia già confusa con il suo patrimonio, con ciò denotando la preoccupazione e l’intenzione del legislatore fallimentare di non permettere che l’erede si esponga con i propri beni per i debiti del de cuius.
Tutto ciò posto, e dovendosi dunque escludere che la ricorrente abbia assunto, in quanto erede di Caio, la qualità di parte del procedimento fallimentare aperto a carico di costui, deve quindi escludersi, alla luce della richiamata giurisprudenza, che ricorra il presupposto stesso per il riconoscimento dell’equa riparazione.
5. Deve, adesso, valutarsi se alla ricorrente spetti l’indennizzo chiesto iure hereditario.
5.1. Al riguardo va osservato che, secondo l’indirizzo della Corte Suprema, condiviso da questo Collegio, l’equa riparazione di cui all’art. 2 della legge n. 89/2001, pur avendo carattere indennitario, non è automaticamente riconducibile all’eccessiva durata del procedimento.
Invero, a differenza di quanto accade per la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che può sindacare anche la politica perseguita dallo Stato membro sotto il profilo dei suoi riflessi temporali sul processo, il giudice nazionale è sottoposto alla legge n. 89/2001, la quale riconosce l’equa riparazione solo al soggetto che, per effetto dell’eccessiva durata del procedimento, ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale.
Nel presente procedimento, pertanto, l’eventuale risarcimento non potrà essere parametrato ad ogni anno di durata del processo, ma soltanto a quell’eventuale periodo che risulti superare i limiti di una ragionevole durata dello stesso, da individuarsi in concreto, tenuto conto anche della natura specifica della controversia presupposta: si veda, sul punto, Cass. 8714/2006, per la
quale, mentre per la CEDU l’importo come sopra quantificato va moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento (e non per ogni anno di ritardo), per il giudice nazionale è, sul punto, vincolante il 3° comma, lett. a), dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole.
La legge 89/2001 non indica quale sia il periodo di tempo massimo superato il quale la durata del processo diventa irragionevole, ma lascia all’interprete l’onere di determinare di volta in volta la ragionevole durata, desumendola dalla complessità del caso, dal comportamento del giudice e delle parti nonché di ogni altra autorità chiamata a concorrere o comunque a contribuire alla definizione del processo.
Ai fini dell’applicazione del citato art. 2, una volta individuato l’intero arco temporale del processo, deve operarsi una selezione tra i segmenti temporali attribuibili alle parti e quelli riferibili all’operato del giudice, sottraendo i primi alla durata complessiva del procedimento: ciò che risulta da tale sottrazione costituisce il tempo complessivo imputabile al giudice, inteso come "apparato giustizia" (ossia come complesso organizzato di uomini, mezzi e procedure necessari all’espletamento del servizio), in relazione al quale deve essere emesso il giudizio inerente alla ragionevolezza o meno della durata del processo, senza che sia tuttavia possibile considerare tutto il tempo riferibile all’apparato giudiziario come tempo eccedente la durata ragionevole, atteso che ogni processo, anche il più celere, ha una durata fisiologica collegata allo svolgimento delle varie fasi, delle attività che vi SI Compiono e degli eventuali diversi gradi di giudizio in cui esso si è articolato, sicchè è necessario verificare di volta in volta se le singole attività che sono state in esso compiute siano, o meno, tali da giustificarne la concreta durata, non ravvisandosé né sul piano normativo né nella giurisprudenza della CEDU una regola di identificazione quantitativa certa e predefinita di durata media, oltre la quale la durata debba considerarsi sempre irragionevole (Cass. 1921/2004; nello stesso senso Cass. 24359/2006, per la quale "solo gli elementi connotanti ogni singola fattispecie consentono la corretta applicazione di un criterio, quale quello di ragionevolezza, che ha in sé insiti indubbi margini di elasticità, permettendo, per tale via, di scongiurare che il valore della giustizia celere si trasformi nel disvalore della giustizia affrettata e sommaria").
5.2 Quanto al danno, deve rilevarsi che la parte che chiede la corresponsione di una somma di denaro a titolo di equa riparazione è tenuta a fornire la prova del danno sofferto. Sul punto, la Corte Suprema ha chiarito che il danno non patrimoniale, anche secondo la CEDU, costituisce una conseguenza della violazione del termine ragionevole di durata, che, a differenza del danno patrimoniale, si verifica normalmente – e cioè di regola – per effetto della violazione stessa: ed invero, "è normale che l’anomala lunghezza della pendenza di un processo produca nella parte che vi è coinvolta un patema d’animo, un’ansia, una sofferenza morale che non occorre provare, sia pure attraverso elementi presuntivi. Trattasi di conseguenze non patrimoniali che possono ritenersi presenti secondo l’id quod plerumque accidit, senza bisogno di alcun sostegno probatorio relativo al singolo caso" (così Cass. 1339/2004).
Ne consegue che mentre l’esistenza del danno patrimoniale, "derivando da circostanze esteriori e sensibili, può (e deve) formare oggetto di specifica dimostrazione, la sofferenza di un danno non patrimoniale per la lungaggine del processo, avendo natura meramente psicologica, non è suscettibile di ricevere una obiettiva dimostrazione, onde l’interprete deve prendere atto che esso si verifica nella normalità dei casi" (così, ancora, la pronuncia da ultimo citata). 6. Tutto ciò posto, si rileva che la sentenza che dichiarò il fallimento di Caio risale al luglio 1991, e che il decesso dello stesso Caio intervenne nell’agosto del 1998, e cioè dopo poco più di sette anni.
Ora, premesso che la stessa ricorrente chiede, iure hereditario, un indennizzo per la durata eccedente il quinto anno, e quindi per due anni, osserva la Corte che nei sette anni in questione gli organi del fallimento ebbero a svolgere, anno per anno, una serie di adempimenti (dichiarazione di esecutività dello stato passivo, costituzione in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, intervento in un processo di esecuzione promosso anche nei confronti del fallito), tranne che nell’ anno 1995, sicché, in conclusione, ritiene la Corte che limitatamente ad un anno possa riconoscersi il chiesto indennizzo iure ereditario.
7. Quanto alla misura del risarcimento, considerata la tipologia del procedimento de quo, e tenuto conto dei parametri di risarcimento individuati dalla Corte Suprema e dalla CEDU, deve essere riconosciuto un risarcimento pari ad Euro (omissis) per ogni anno di ritardo, per un importo complessivo di Euro (omissis) oltre interessi legali dalla data della domanda. 8. Quanto, infine, alle spese del giudizio, tenuto conto della pecu1iarità del procedimento per equa riparazione, che si caratterizza per il fatto che lo stesso non è preceduto da una necessaria fase amministrativa, attraverso la quale il Ministero convenuto possa – come invece è permesso ai privati – raggiungere con l’altra parte un accordo che contempli reciproche concessioni e sia, dunque, idoneo a prevenire la lite giudiziale, nonché ulteriormente evidenziato che le istanze della parte ricorrente sono state accolte solo parzialmente, ritiene, dunque, questa Corte che ricorrano giusti motivi perché dette spese, come liquidate in dispositivo, siano poste a carico del Ministero convenuto per un terzo (con distrazione in favore dell’avv. …, che ne ha fatto richiesta), con la compensazione, tra le parti, degli altri due terzi.
Si precisa che non vengono liquidati i diritti la cui prestazione non risulti compiuta, come, per esempio, quelli richiesti a titolo di corrispondenza (Cass. 9040/94).

P.Q.M.
Condanna il Ministero della Giustizia al risarcimento del danno morale patito dalla ricorrente per l’irragionevole durata del procedimento indicato in motivazione, che liquida, in favore della medesima ricorrente, in (omissis), oltre interessi legali dalla data della domanda. Liquida le spese del giudizio in complessivi (omissis) di cui (omissis) spese vive, (omissis) di diritti, (omissis) onorari ed (omissis) per spese generali, e condanna il Ministero della Giustizia al rimborso, alla ricorrente, di un terzo delle stesse, oltre gli accessori di legge, con distrazione in favore dell’avv. …,, compensando tra le parti gli altri due terzi.
Dispone che copia del presente provvedimento sia trasmessa al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione ed al Procuratore Generale presso la Corte dei Conti. Così deciso, nella camera di consiglio della sezione unica civile della Corte di Appello di Caltanissetta, il 7 ottobre 2009
Depositato 12 ottobre 2009